Posts written by Aibux!

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    Yeah
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    Il conte Louis Hamon aveva fama di occultista e guaritore. Spesso i suoi clienti in segno di gratitudine gli facevano dono degli oggetti più disparati. Ma il dono più strano fu per lui fonte di guai.
    Durante una visita a Luxor, nel 1890, Hamon guarì dalla malaria un potente sceicco. Questi volle a tutti i costi che Hamon accettasse in dono un sinistro oggetto, la mano destra mummificata di una principessa egiziana.
    Fin dal primo istante la moglie del conte provò ripugnanza per quella mano rinsecchita e raggrinzita. Ma la sua avversione si tramutò in orrore quando ne conobbe la storia. Il faraone Akhnaton, il suocero di Tutankhamon che attuò una vera e propria rivoluzione religiosa, durante il suo diciassettesimo e ultimo anno di regno ebbe contrasti molto accesi con la figlia in materia di religione. La sua vendetta fu sinistra.
    Nel 1357 a.C. ordinò ai suoi sacerdoti di usare violenza alla figlia e, quindi, di ucciderla. Le fu in seguito mozzata la mano destra che venne sepolta in un luogo segreto nella Valle dei Re. Il popolo egiziano era sgomento, perché alla giovane sarebbe stato precluso il paradiso, dato che il suo corpo non era intatto al momento della sepoltura.
    Hamon avrebbe preferito donare la reliquia a un museo, ma nessun direttore era disposto ad accettarla. Decise allora di conservarla in una cassaforte nella sua casa di Londra.
    Nell’ottobre del 1922 il conte e la moglie riaprirono la cassaforte, ma si ritrassero inorriditi. La mano della giovane assassinata era mutata: rugosa e mummificata per 3200 anni, stava ora riacquistando un aspetto vivo. La contessa urlando disse che bisognava liberarsene. Hamon, pur non avendo mai provato timore dell’ignoto, fu per una volta d’accordo con lei.
    Solo su un punto fu irremovibile: si doveva riservare alla reliquia il miglior funerale possibile. Tutto era pronto per la sera del 31 ottobre 1922, la notte di Halloween.
    In una lettera Hamon raccontò all’archeologo Lord Carnarvon, suo vecchio amico, di aver posto con delicatezza la mano nel camino e di aver letto a voce alta un brano dal Libro dei Morti. Alle ultime parole un tuono squassò la casa che piombò nel buio più completo. Una raffica di vento spalancò improvvisamente la porta.
    Hamon e la moglie furono sbattuti a terra, un freddo polare invase la stanza. Alzando lo sguardo videro una figura di donna. Secondo il racconto di Hamon “era abbigliata alla foggia dell’Antico Egitto, con il serpente della casata dei Faraoni che spiccava sul copricapo”. Il braccio destro terminava in un moncone.
    L’apparizione si avvicinò al camino e svanì così come era sopraggiunta. Anche la mano mozzata era scomparsa, né fu più rivista.
    Quattro giorni dopo Hamon seppe della scoperta della tomba di Tutankhamon da parte della spedizione di Carnrvon, e della sua intenzione di violarla nonostante l’antico monito inciso sulla soglia.
    Dalla stanza dell’ospedale dove con la moglie si trovava in stato di grave choc, Harmon inviò al vecchio amico una lettera supplicandolo di ripensarci.
    Così scrisse: “Ora so che gli antichi Egizi possedevano conoscenze e poteri a noi tutt’ora sconosciuti. Ti supplico in nome di Dio di fare attenzione.”
    Carnarvon ignorò la lettera e poco dopo moriva per la puntura di una zanzara infetta. Uno dopo l’altro tutti i membri della spedizione lo seguirono nella tomba, in quella che passò alla storia come la maledizione dei Faraoni.
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    La polizia non è ancora riuscita a venire a capo di uno dei casi più grotteschi di omicidio: il crimine infatti fu compiuto da una morta. Il crimine risaliva al periodo intorno al 1870, quando miss Ada Danforth e la sua piccola pupilla, Fanchon Moncare, si spostavano regolarmente via nave tra la Francia e New York. Miss Danforth era solita spiegare che Fanchon, rimasta orfana dopo che i genitori erano periti in un incendio, al compimento del diciottesimo anno d’età avrebbe ereditato una fortuna: nel frattempo Ada era la sua tutrice legale.
    Fanchon era adorabile nel fare l’inchino a ogni passeggero incuriosito per poi saltellare via con la sua bambola. Ma, ritornate nella loro cabina di lusso, l’infantile mascherata finiva. Il viso angelico di Fanchon si tramutava in una maschera di malvagità. Criticava sprezzante la propria “tutrice” con il linguaggio da bassifondi che aveva imparato nei quarantatrè duri anni della sua vita, dai primi giorni trascorsi come attrazione in un circo alla sua attuale carriera di ladra e contrabbandiera.
    Nonostante i frequenti litigi, la collaborazione tra le due donne era proficua. Mentre Ada si occupava dei bagagli, la piccola Fanchon – il cui vero nome era Estelle Ridley – passava la dogana saltellando e cullando la sua beneamata bambola. A nessuno veniva l’idea di fermarla.
    Arrivate a New York, le due salivano su un taxi per Chinatown, dove le attendeva un vecchio amico, Wing To. In una stanza posta sul retro si staccava la testa alla bambola e ne usciva una fortuna in gioielli – il frutto di mesi di furti nel continente europeo.
    Gli affari avrebbero potuto continuare per anni se non fosse accaduto un fatto nuovo: FAnchon si invischiò in una faida mortale con un’avvenente rivale, Magda Hamilton. Secondo i resoconti della polizia, il motivo della contesa era rappresentato dal cuore di Dartney Crawley, un abile giocatore d’azzardo.
    Magra infranse ogni regola della malavita diventando informatrice della polizia e le socie in malaffare, all’approdo a New York, trovarono un comitato d’accoglienza che le attendeva. Per la prima volta la bambola di Fanchon fu ispezionata e, qualche minuto dopo, le due erano in viaggio per il famigerato carcere di Tombs.
    La nana, con una fedina penale impressionante, fu condotta all’ergastolo. Ada, di dieci anni più giovane, fu condannata a vent’anni di carcere per complicità.
    Ma il momento più drammatico del processo vide Fanchon come protagonista. Quando intravide Magda che la osservava gongolante, seduta in un’affollatissima sala di tribunale, si alzò di scatto e lanciò con voce stridula il giuramento che un giorno avrebbe ucciso la traditrice.
    Magda coronò i suoi desideri sposando Dartney Crawley ma, sei mesi dopo, fu abbandonata dal marito che se ne andò a cercar fortuna nelle miniere della California. I termini del divorzio furono generosi per Magda, che diventò così una tranquilla benestante.
    La sua fortuna crebbe grazie ad abili investimenti, e divenne una figura di spicco nella buona società di New York.
    Fanchon era stata completamente dimenticata da tutti... eccetto che da Magda Hamilton. Una mattina irruppe negli uffici della polizia accusando violentemente gli ufficiali per non averla avvertita dell’evasione di Fanchon.
    Raccontò di essersi svegliata da un sonno pesante e di aver trovato la nana nella sua camera da letto. Rancho indossava ancora gli abiti infantili e teneva stretta fra le mani la bambola di porcellana. Ma era diventata ora una megera vizza e gobba che sogghignava da una bocca sdentata.
    Magda lanciò un urlo e si rinchiuse nella stanza da bagno, dove rimase acquattata per il resto della notte.
    In preda a una crisi isterica, la donna pretendeva ora un’adeguata protezione dalla polizia fino alla cattura del mostro.
    Un sergente di polizia divertito le presentò una copia del New York Times vecchia di una settimana. Le indicò un trafiletto nell’ultima pagina, in cui si riportava che Fanchon Moncare si era impiccata nella propria cella.
    Quello stesso pomeriggio Magda Hamilton comprò un biglietto per l’Europa su una nave di linea della Cunard. Essendo la partenza fissata per il giorno dopo, andò a cena con un amico per recarsi poi a casa.
    Il giorno dopo la servitù trovò i bauli pronti. Ma per Magda non ci sarebbe stata alcuna traversata oceanica. La donna era scompostamente distesa a letto, seminuda, con gli occhi fuori dalle orbite e sangue raggrumato agli angoli della bocca. Secondo il referto medico era letteralmente annegata nel proprio sangue. La membrana della gola risultò spezzata, come se nella bocca le fosse stato infilato selvaggiamente un pesante oggetto a forza.
    L’arma del delitto non fu mai trovata. Ma un sospetto, anche se strano, c’era. Furono trovati nella bocca insanguinata di Magda dei capelli, esattamente come quelli delle bambole di porcellana.
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    Nella cittadina di Tisakurt, in Ungheria, Lazio Kronberg, locandiere, e la moglie Susi hanno avuto in sorte una vita veramente triste.
    Era il 1919 e la coppia aveva speso ogni avere per mantenere la locanda aperta durante la Grande Guerra. Ma a quel punto avevano appena di che sfamarsi.
    A questa si aggiunsero altre disgrazie. La loro unica figlia era fuggita a Budapest, dove si diceva facesse la vita. Anche il figlio maggiore Nicholas se n’era andato, all’età di nove anni, dopo che Lazio l’aveva frustato per una bocciatura. Gli altri due figli erano caduti in guerra.
    Sera dopo sera la coppia se ne stava a discutere: ma i due non riuscivano a intravedere vie d’uscita alla loro disperazione. Giunsero perciò a una sinistra conclusione: uccidere per profitto.
    Gli omicidi vennero scrupolosamente preparati. Lazio scavò nel bosco un fossato profondo poco meno di due metri. Lo riempì di calce viva, pronto a rispondere, a chi glielo chiedesse, che stava progettando di costruire una rimessa. Susi acquistò alla drogheria del paese un sacchettino marrone di cristalli di stricnina, ufficialmente per avvelenare i lupi, come disse al negoziante.
    Tra il 1919 e il 1921 dieci persone esalarono l’ultimo respiro nella locanda dei Kronberg. Per tutti la cena era stata innaffiata da buon vino, seguito da una bottiglia di un’annata specialissima... corretta con un po’ di stricnina. Via via che il bottino aumentava, la coppia divenne più prudente. La vittima successiva sarebbe stata l’ultima, quindi la fossa di calce viva sarebbe stata chiusa per sempre.
    L’occasione arrivò il 14 agosto 1922: si trattava di un trentacinquenne grasso e gioviale, che portava con sé una borsa così pesante da contenere certamente delle monete d’oro. Era un venditore affermato alla ricerca di un buon apprezzamento per investirvi i propri soldi.
    Quando Susi preparò la cena e Lazio la servì in tavola, l’ospite insistette che anche loro si accomodassero a tavola con lui. E lo dovevano chiamare Fortunato. Per tutto il tempo passato allegramente assieme, l’ospite raccontò dei propri viaggi e tale era la sua simpatia che i Kronberg erano restii a ucciderlo. Ma andava fatto, e alla fine Susi mise in tavola la bottiglia di vino “speciale”.
    Il loro corpulento ospite esalò l’ultimo respiro appena vuotato il bicchiere, tra le convulsioni, con le labbra rovesciate nella smorfia tipica dell’avvelenamento da stricnina.
    Nella stanza di Fortunato i due rovistarono nella valigia e si accorsero immediatamente d’aver avuto ragione. Nella borsa c’era una fortuna in monete d’oro. Con le mani tremanti, Lazio frugò nelle tasche del cadavere e notò qualcos’altro: una foto sua e della moglie!
    I due si guardarono negli occhi, pietrificati dall’orrore e dal dolore. Avevano ucciso il figlio scomparso da tempo. Lasciarono l’oro dov’era e ritornarono nella sala da pranzo, dove Nicholas giaceva abbandonato sul tavolo. Scrissero una breve confessione, quindi si sedettero a tavola con lui. Tre giorni dopo gli abitanti della cittadina li trovarono, morti, avvelenati dalla stricnina.
    Negli anni seguenti ben pochi si avventurarono in quella casa. Chi aveva il coraggio di trascorrervi due o tre notti con la prospettiva di acquistare la casa veniva sempre terrorizzato dalla stessa lugubre apparizione: seduti a tavola tredici individui con abiti degli anni ’20, la smorfia oscena dell’avvelenamento da stricnina disegnata sul volto.
    Un’altra guerra mondiale iniziò e finì, la casa cadde in rovina, ma nessuno osava trascorrervi una notte o anche solo avvicinarsi. Il 23 settembre 1980 le fiamme che lambivano il cielo segnalarono che un piromane era al lavoro. La vecchia locanda fu ridotta in cenere. Nessuno tentò di cercare il colpevole. Nessuno se ne curò.
    Tisakurt si era finalmente liberata dalla casa degli orrori.
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    George Gaffney era un ladruncolo di poco conto. Agiva a Soho, il malfamato quartiere a luci rosse di Londra, nei primi anni di questo secolo. Non aveva mai commesso crimini gravi, eccetto uno, che si rivelò il più grave di tutti.
    Il 1° marzo del 1910 Gaffney fu attratto da una strana corda di seta intrecciata lunga poco meno di un metro vista su una bancarella: riconobbe la corda usata dalla setta indiana dei Thug per uccidere le loro vittime.
    Gaffbey l’acquistò. Due settimane dopo la usò...
    Da tempo il ladruncolo era impensierito da una giovane di nome Bessie Graves che, essendo incinta, gli chiedeva con insistenza nozze riparatrici. Gaffney però l’aveva corteggiata con il falso nome di Arthur Eames. A un certo punto gli si era presentata un’occasione ben più ghiotta: un’attempata ma ricca vedova, di nome Stella Fortney.
    Gli investigatori di Scotland Yard, chiamati dalla padrona di casa in preda a una crisi isterica, trovarono Bessie Graves strangolata, con la corda talmente stretta al collo che era penetrata nella carne. L’unico indizio era il nome del probabile strangolatore, Arthug Eames.
    Era ben poco perché Scotland Yard potesse continuare le indagini, quindi tre settimane dopo Gaffney era ancora uccel di bosco, libero soprattutto di continuare la tresca con la vedova.
    Una sera ebbe l’idea di presentarsi alla vedova, per fare colpo, con una piccola carrozza a due posti. Un momento più tardi si udì un urlo. Nella semioscurità della carrozza apparve Bessie Graves, seduta accanto a lui. Gli occhi vitrei della ragazza morta fissavano quelli di George, mentre la lingua tumefatta penzolava dalla bocca.
    Per una settimana Gaffney cercò di annegare nell’alcol la sua disperazione; poi si recò di nuovo da Stella. L’accoglienza fu ben lungi dall’essere calorosa, ma l’atmosfera si stemperò quando Gaffney le porse un anello di diamanti che aveva rubato. Aprirono una bottiglia di champagne e, dopo averla finita, la vedova chiese a Gaffney di scendere in cantina a prenderne un’altra. Aiutandosi con la lampada a petrolio, era arrivato a metà scale quando, dall’oscurità, emerse Bessie Graves.
    La corda un po’ allentata le pendeva dal collo come una collana, ma gli occhi che lo fissavano erano terrificanti. Gaffney urlando le lanciò contro la lampada, ma ruzzolò rovinosamente in fondo alle scale.
    Rimase tre settimane in ospedale. Dimesso, decise che c’era un solo modo per liberarsi del fantasma che lo perseguitava. Se avesse lasciato per sempre l’Inghilterra, forse Bessie Graves non l’avrebbe più tormentato. Acquistò quindi un biglietto per il Quebec sulla nave di linea Montrose.
    Con rinnovata speranza decise di passare la notte prima della partenza in un piccolo albergo. Ma nella semioscurità della stanza intravide Bessie.
    Questa volta, liberatasi completamente del cappio, lo tendeva a Gaffney. Senza opporre resistenza egli lo prese dalle sue dita chiuse ad artiglio. Quando Gaffney alzò lo sguardo, Bessie era scomparsa. Ma il messaggio era chiaro. Gaffney si mise a sedere e cominciò a scrivere la sua confessione.
    Raccontò dettagliatamente come si era svolto l’omicidio di Bessie e le sue successive visite dall’oltretomba. A quel punto, concluse, non c’era via di scampo.
    Gli uomini di Scotland Yard, chiamati dal personale dell’albergo, fecero irruzione nella stanza di Gaffney. Trovarono il ladro impiccato a una delle travi del soffitto. Lessero la confessione e capirono che il caso dello strangolatore di Soho era risolto. Ma un fatto rimase senza spiegazione. Per la prima volta una prova fondamentale scomparve dai sotterranei a prova di ladro di Scotland Yard. Era la corda dei Thug, quella stessa che Gaffney aveva usato per impiccarsi.
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    Quando il panfilo britannico a vela quadra Pierrot affondò nell’Atlantico nel luglio del 1884, riuscirono a salvarsi solo quattro persone. I naufraghi, stipati in una scialuppa malconcia, vagarono alla deriva per venticinque giorni. Erano ormai prossimi alla morte per fame e sfinimento, quando il capitano Edwin Rutt avanzò una proposta estrema e disperata.
    Avrebbero tirato a sorte chi doveva essere mangiato.
    Due marinai erano d’accordo con Rutt, ma il diciottenne Dick Tomlin, il più giovane dell’equipaggio, si oppose, affermando che piuttosto che mangiare carne umana avrebbe preferito morire.
    Fu la sua resistenza a deciderne la sorte. Alla prima occasione Rutt affondò il pugnale nel collo di Tomlin mentre dormiva.
    L’ufficiale in seconda Josh Dudley e il marinaio Will Hoon non ebbero alcuno scrupolo a farsi cannibali. Quattro giorni dopo vennero salvati dal panfilo Gelert; la carne del ragazzo aveva fornito loro il sostentamento.
    Inorridito, il capitano del Gellert si rifiutò decisamente di consegnare i miseri resti al mare. Il corpo della vittima, nascosto sotto una cerata, accompagnò così i tre sopravvissuti fino al porto di Falmouth in Cornovaglia.
    I tre vennero processati e infine condannati per omicidio. Ma il ministro degli Interni decise che gli orrori erano stati anche troppi e commutò la pena a sei mesi di carcere. Nessuno poteva immaginare invece che l’orrore stava iniziando proprio allora. Una volta usciti di prigione, il futuro che li attendeva era assai triste. Josh Dudley per campare trovò lavoro come carrettiere. Due settimane dopo, in una strada di Londra avvolta nella nebbia, qualcosa si parò di fronte ai cavalli; gli animali, imbizzarriti, scaraventarono sul selciato Dudley e l’uomo batté violentemente la testa. Secondo alcuni testimoni, quel “qualcosa” era una figura avvolta da capo a piedi in bende insanguinate. Dopo la morte di Dudley, la figura scomparve misteriosamente.
    Il capitano Rutt, in preda al terrore, si mise a frequentare le bettole di Soho alla ricerca di Will Hoon. Il vecchio lupo di mare era abbrutito dall’alcol e male in arnese. Rutt gli raccontò che qualche parente di Tomlin, spinto dalla sete di vendetta, si travestiva da fantasma del giovane e supplicò Hoon di aiutarlo a stanare l’impostore. Ma tutto quello che Hoon desiderava era altro gin e, in preda ormai al delirio, fu portato ino un ospedale di carità, dove morì in un accesso di convulsioni disperate. I testimoni raccontarono successivamente di aver visto un altro paziente “completamente bendato” che teneva fermo Hoon, nel tentativo forse di confortarlo. Quel paziente poi scomparve.
    Ormai in preda al terrore, Rutt si recò alla polizia. Anche qui i suoi racconti di “figure avvolte in fasce” furono sbeffeggiati, ma considerando lo stato mentale in cui versava il capitano, gli venne offerto di passare la notte in cella.
    Rutt accettò di buon grado, controllando per bene che la cella venisse chiusa a chiave. La cella si trovava nella sezione per i malati di mente, dove urla e strepiti di notte non erano insoliti.
    Ma quando alle tre di notte i poliziotti udirono le urla del capitano, ben diverse dalle altre, i carcerieri si precipitarono. Aprirono la cella sul giaciglio scorsero Rutt disteso con le ginocchia piegate al petto, gli occhi sbarrati, due biglie di vetro.
    I poliziotti increduli trovarono stretti fra le dita brandelli di cotone: bende imbrattate di sangue.
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    Un vento impetuoso sferzava il piccolo villaggio inglese di Willisham: le tegole volavano dai tetti, i rami spezzati cadevano a terra. Un brivido percorse un’antica quercia che, colpita da una raffica rabbiosa, cadde al suolo, sradicata.
    Gli abitanti del villaggio, accorsi per assicurarsi non vi fossero feriti, rimasero inorriditi di fronte allo spettacolo: dalle radici contorte affioravano resti umani.
    Venne chiamato l’unico poliziotto della piccola comunità dell’East Anglia, l’agente Klug, il quale ordinò che il corpo venisse esumato da quell’insolita tomba. Al dito di una mano smembrata brillava un anello. Agendo d’impulso, l’agente, d’aspetto lugubre, consegnò il misero resto a Ellen Grey, sorella di una ragazza scomparsa misteriosamente diciotto anni prima, nel 1873. Ellen, alla vista della mano, lanciò un grido e strinse al petto la sinistra reliquia.
    “È la mano di Mary”, disse tra i singhiozzi. “L’anello di eliotropia è stato il mio regalo di nozze. Era nata in marzo e questa era la sua pietra.”
    Klug comprese tutto. Anche se il caso era avvenuto molto tempo prima del suo arrivo, per la sua notorietà era divenuto oggetto di una ballata popolare.
    Al compimento del diciottesimo anno d’età, Mary Grey aveva sposato Basil Osborne ma, prima di compiere il gran passo, aveva inviato una lettera a John Bodneys, l’ex fidanzato, per chiedergli perdono.
    Un’ora prima che lo sposo venisse a prenderla per condurla in viaggio di nozze, Mary confidò alla sorella di voler restare sola qualche momento nella stanza che avevano per tanto tempo condiviso. Quando Osborne arrivò con la carrozza, non era ancora scesa. Insospettiti e preoccupati, forzarono la porta chiusa a chiave, ma della sposa non v’era alcuna traccia.
    La finestra della stanza dava su un terrazzo da cui, per una scalinata, si scendeva in un giardino chiuso. Ma anche il giardino era vuoto.
    Lo sposo derelitto morì un mese dopo. Di crepacuore, si disse nel villaggio.
    Trascorsi diciotto anni, il villaggio veniva a sapere cosa ne era stato di Mary: lo scheletro aveva il collo spezzato! Ellen si rifiutò di consegnare la mano della sorella. Le era stata restituita per uno scopo ben preciso, spiegò. E lo scopo andava raggiunto.
    Alla sua morte lasciò nel testamento una bizzarra disposizione. La casa andava in eredità alla governante, Maggie Williams, ma la mano doveva far mostra di sé in un locale pubblico “per poter un giorno svelare l’omicida”.
    Maggie aprì quello che in breve diventò il pub più elegante di Willisham e riservò alla mano un posto d’onore su una parete. Racchiusa in una teca di vetro, adagiata sul velluto nero, la mano con l’anello attirava l’attenzione di tutti.
    Scemata l’iniziale sorpresa, l’omicidio di Mary era comunque argomento di conversazione fra gli avventori. Una burrascosa sera di marzo del 1895 un forestiero se ne stava seduto ad ascoltare la conversazione.
    “Deve essere stato in una notte come questa che il vento ha sradicato quella vecchia quercia”, disse l’oste.
    Lo straniero, un uomo taciturno, dal viso devastato, alzò gli occhi dal bicchiere.
    “Non capisco. Quale quercia?” chiese.
    “Dia un’occhiata alla teca sul muro, poi le racconterò tutta la storia”, rispose l’oste.
    Un attimo più tardi lo straniero lanciò un urlo. Aveva il corpo completamente piegato contro la parete e dalle sua mani colava sangue. Un vecchio presente nel pub riconobbe in lui il precedente fidanzato di Mary misteriosamente scomparso, John Bodneys.
    All’arrivo dell’agente Klug, l’uomo, coperto di sangue, confessò l’assassinio di Mary Grey. Folle di gelosia, aveva trovato la sposa sola nella sua stanza. Soffocandone le grida, era riuscito a portarla via di casa.
    Bodneys insisteva nel dire che non era nelle sue intenzioni ucciderla ma, quando giunsero sotto quella grande quercia, lei si dibatteva così violentemente, che le aveva involontariamente spezzato il collo.
    La seppellì in una fossa poco profonda scavata ai piedi della quercia e decise di abbandonare definitivamente Willisham. Ma da allora non ebbe un solo istante di pace, ed era inevitabile che ritornasse.
    Rinchiuso nella prigione locale in attesa del processo, morì di una “malattia sconosciuta”, prima che si potesse celebrare il processo. Le autorità smentirono la diceria popolare secondo cui le mani di un omicida posto di fronte alla prova del misfatto talvolta sanguinano. Ma gli abitanti del villaggio sapevano bene quel che avevano visto.
    La mano di Mary Grey fu seppellita con il resto del corpo. La camicia di John Bodneys, imbrattata del sangue colato dalle sue mani il giorno in cui si era trovato faccia a faccia con la sua colpa, fu bruciata in una cerimonia rituale.
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    Universi paralleli, “ecco la prova della loro esistenza e interazione”

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    Può sembrare la sceneggiatura di un film, eppure i fisici teorici studiano questi scenari da almeno 50 anni, ed esistono complicati ed eleganti calcoli matematici in grado di descriverli. L’ultima formulazione è stata pubblicata su “Physical Review X” da un team di studiosi australiani e statunitensi

    Secondo lo strano mondo della meccanica quantistica, abitato da atomi e particelle, esiste un universo in cui questo articolo non è mai stato scritto. E, a un tempo, un altro mondo in cui è possibile leggerlo e commentarlo. Bizzarrie della realtà a livello dei suoi costituenti più intimi, governata da fenomeni che spesso fanno a pugni con il senso comune. E che hanno fatto storcere il naso persino ad Albert Einstein. Come la teoria del multiverso, in base alla quale esisterebbe una pluralità di universi paralleli, al punto che ogni decisione che ciascuno di noi prende in questo mondo ne creerebbe di nuovi. Secondo questa interpretazione, ci sarebbe, ad esempio, un mondo in cui il Terzo Reich è uscito vincitore dalla II guerra mondiale, e un altro in cui Hitler è uno sconosciuto pittore.

    Può sembrare la sceneggiatura di un film, eppure i fisici teorici studiano questi scenari da almeno 50 anni, ed esistono complicati ed eleganti calcoli matematici in grado di descriverli. Secondo l’ultima formulazione, appena pubblicata su “Physical Review X” da un team dell’University of California a Davis, e della Griffith University australiana, non solo gli universi paralleli esisterebbero davvero, ma potrebbero persino interagire.

    Quando fu introdotta per la prima volta negli Anni ’50 dal geniale matematico americano Hugh Everett III, all’epoca in forze alla Princeton University, la teoria dei molti mondi venne derisa. Everett riuscì a fatica a pubblicarla, e alla fine abbandonò disgustato la carriera accademica. Negli anni, però, le sue raffinate spiegazioni di alcuni strani fenomeni del mondo subatomico, come la capacità delle particelle di coesistere in luoghi diversi – stranezze che spingevano il premio Nobel Richard Feynman ad affermare che “chiunque crede di aver capito la meccanica quantistica, non l’ha compresa abbastanza” – hanno fatto sempre più breccia tra i fisici.

    “Secondo la teoria di Everett – spiega Howard Wiseman, a capo del team australiano – ogni universo si divide in una serie di nuovi universi, quando viene effettuata una misurazione quantistica. Partendo dalle sue intuizioni, abbiamo dimostrato che è proprio dall’interazione tra questi mondi, soprattutto repulsiva, che nascerebbero i fenomeni quantistici”. “Nel multiverso – aggiunge su New Scientist David Deutsch, fisico della Oxford University – ogni volta che facciamo una scelta si realizzano anche le altre, perché i nostri doppi negli universi paralleli le compiono tutte”. Un’idea sfuggente, difficile da accettare ma, a pensarci bene, non del tutto negativa. Il pensiero che, di fronte alle scelte più difficili di tutti i giorni, ogni possibile alternativa abbia l’opportunità di realizzarsi potrebbe essere in fondo rassicurante.

    “Il multiverso mi ha reso una persona più felice – commenta sempre su New Scientist Max Tegmark, fisico del Mit -. Mi ha dato, infatti, il coraggio di correre più rischi”. Ma come provare queste teorie e legarle a fenomeni fisici osservabili? Secondo Lisa Randall, prima donna a ottenere la cattedra di Fisica teorica alla Harvard University, una possibile strada è il legame con le ricerche sulla natura della forza di gravità. In base ai suoi studi, tra i più citati degli ultimi anni, gli altri universi, vicinissimi al nostro anche se invisibili, sarebbero immersi in uno spazio a più dimensioni, come un arcipelago di isole sparse nell’oceano. Su uno di questi isolotti sarebbero concentrate le particelle che trasportano, come fanno i fotoni con la luce, la forza di gravità. Si chiamano gravitoni e sarebbero gli unici in grado di saltare da un universo all’altro. Ma solo alcuni riuscirebbero a “visitare” il nostro universo. Ecco perché la forza di gravità ci appare così debole, poiché diluita su più universi, che la assorbono come una spugna. “Uno degli scopi dei miei studi è spiegare perché la forza di gravità è così debole in confronto alle altre forze fondamentali della natura – spiega la studiosa nel suo libro “Passaggi curvi” -. Un piccolo magnete, infatti, può attirare una graffetta, nonostante la Terra nella sua interezza eserciti su di essa la propria attrazione gravitazionale”.

    Il battesimo sperimentale a queste ricerche teoriche potrebbe arrivare a partire dal prossimo anno, al Cern di Ginevra, con la riaccensione alla sua massima energia di Lhc, l’acceleratore di particelle più potente del mondo. Questa macchina, una pista magnetica di 27 chilometri capace di sondare la struttura più intima della materia, potrebbe essere in grado di vedere i gravitoni, fino ad ora mai osservati direttamente. “Con Lhc potremmo trovare particelle che non esistono più dai tempi del Big Bang, circa 14 miliardi di anni fa – sottolinea Randall -. Tra loro potrebbero essercene alcune che vivono solo su altre dimensioni, o persino su altri universi. La loro osservazione, quindi, sarebbe una prova importante dell’esistenza di altri mondi”. Queste particelle, infatti, lascerebbero una sorta d’impronta gravitazionale sul nostro universo. Come un’ombra che si allunga su un muro in un giorno assolato.

    Come spesso accade nella scienza, gli studiosi vivono e si muovono ai bordi della conoscenza. “Non sappiamo come questi studi cambieranno la nostra percezione del mondo – afferma Randall -. Lo stesso Einstein non poteva prevedere che la sua teoria della Relatività avrebbe un giorno trovato applicazioni nel Gps. Esistono nell’universo molte regioni ancora inesplorate – aggiunge la studiosa -. Sapere cosa cercare è spesso difficile, ma questo non deve scoraggiare. Ciò che ancora non si conosce deve servire da stimolo per porsi nuovi interrogativi. È questo – conclude la scienziata di Harvard – che rende la scienza accattivante”.

    Fonte: www.ilfattoquotidiano.it
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    Epilogo comune a molte storie di laieni e di UFO è la comparsa di uomini vestiti di nero che interrogano i testimoni delle apparizioni e sembrano voler verificare ciò che è appena accaduto.
    I più esperti tra gli osservatori abituali di UFO sono così abituati a questi strani visitatori da chiamarli col nomignolo di MIB, cioè Men in Black.

    1. Qualche volta i Men in Black, che interrogano i protagonisti dei vari avvistamenti di UFO, si presentano in tre, anche se nella maggioranza dei casi sono in due. Normalmente sono identificabili grazie ai loro completi neri, ma possono indossare anche uniformi militari. I testimoni parlano più facilmente quando credono di essere interrogati da un ufficiale superiore dell'esercito.

    2. Coloro che hanno ricevuto la visita dei MIB concordano nel riferire l'impressione che i visitatori volessero convincerli a fornire la spiegazione più banale dei loro avvistamenti. In genere dimostrano che può essersi trattato di un abbaglio o di un oggetto normalissimo visto da un'angolatura particolare. Se il testimone insiste, i MIB possono assumere un atteggiamento aggressivo. Quando capiscono di avere fallito la loro missione, scompaiono all'improvviso senza una parola di spiegazione.

    3. In molti casi, i MIB compaiono al volante di automobili di lusso, come Cardillac in America, o Jaguar in Inghilterra. Spesso mostrano delle tessere del Ministero della Difesa (in Inghilterra), o dei servizi segreti americani. Qualche volta il loro messaggio è straordinariamente semplice; nel 1975 uno di loro si è limitato a dire al testimone di un'apparizione UFO nel Maine (USA): "Se non vuoi avere guai, ti conviene tenere la bocca chiusa".

    4. I MIB non si limitano a semplici avvertimenti verbali. Nl 1953 uno studioso di UFO, Albert Bender, dichiarò di essere stato rapito dai MIB e condotto nell'Antartide. Lì, davanti alla minaccia di essere abbandonato tra i ghiacci, a congelare, avrebbe promesso di non pubblicizzare più i risultati delle sue ricerche. Tenne fede a questa promessa fino al 1960, quando, secondo lui, i MIB avrebbero lasciato la Terra per ritornare sul loro pianeta.
    Un testimone inglese venne trascinato in una palude al confine tra la Scozia e l'Inghilterra e poi abbandonato. Per ritornare a casa dovette percorrere a piedi oltre icnque miglia, ma può considerarsi fortunato, pensando a quanto avrebbe dovuto camminare se lo avessero piantato in asso nell'Antartide!

    5. Se davvero i MIB hanno lasciato la Terra nel 1960, non sono comunque stati via molto a lungo. Abbiamo molte testimonianze della loro attività tra il 1965 e il 1967, e poi ancora per tutti gli anni Settanta.

    6. Secondo la testimonianza di Albert Bender, i MIB non sono assolutamente attendibili. GLi avevano infatti rivelato che il governo americano sapeva tutto sugli UFO ed avrebbe reso pubbliche le sue informazioni nel giro di cinque anni. I cinque anni sono da tempo passati, ma non c'è stato nessun annuncio del governo in questo senso. O hanno barato i MIB... o bara il governo.

    7. Quando un MIB chiama un suo compagno, generalmente usa un numero più che un nome. Qualche volta quello che fa le domande si presenta come "Il comandante".

    8. I MIB sembrano interessati ai dettagli apparentemente secondari delle testimonianze relative agli avvistamenti di UFO. Possono anche non chiedere, per esempio, dove o quando è avvenuto l'avvistamento, ma informarsi invece con la massima pignoleria sul procedimento di apertura dello sportello dell'astronave. Qualche volta i MIB sono pericolosi: nel 1952 uno di loro ha offerto al pescatore italiano Carlo Rossi, testimone di un'apparizione UFO, una sigaretta che "aveva un cattivo sapore". Non sappiamo se fosse avvelenata: Rossi sopravvisse alla sigaretta, ma morì dopo essere stato investito da un'auto pirata.

    9. Qualche volta il MIB è una WIB! Negli USA sono state avvistate misteriose visitatrici vestite di nero (Women in Black). Nel 1976, nel Maine, un MIB e una WIB sono dovuti ripartire immediatamente quando la WIB ha dichiarato che la sua energia si stava esaurendo.

    10. In alcuni casi i MIB si sono rivelati un imbroglio. Nel 1982 un gruppo di appasionati di UFO, che aveva ricevuto un avvertimento da parte di due MIB, è riuscito a fotografarli. Ha così scoperto che si trattava dei membri - fin troppo umani! - di un UFO club rivale, che, più che proteggere i segreti degli alieni, volevano impadronirsene a loro vantaggio.

    11. Dal 1996, sono state raccolte un po' in tutto il mondo testimonianze relative a MIB che pattugliano i cieli a bordo di elicotteri neri senza numero di identificazione. Negli USA uno di questi elicotteri è piombato improvvisamente su un ragazzino che aveva fotografato un UFO da distanza ravvicinata e un MIB gli ha prontamente sottratto la macchina fotografica. In Gran Bretagna i MIB hanno disintegrato una moneta tra le mani della testimone di un'apparizione UFO, minacciandola e avvertendola che, qualora avesse parlato, la stessa cosa sarebbe successa al suo cuore.
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    La caratteristica più curiosa degli UFO è la loro estrema timidezza. Molti di loro hanno enormi poteri e sono in grado di attraversare l’universo, ma appena vedono una macchina fotografica scappano a gambe levate. Qualche volta gli alieni sono amichevoli e sembrano angeli venuti ad alleviare le sofferenze degli uomini, ma in altri casi somigliano a diavoli, e sono realmente pericolosi. Uno degli episodi più sanguinosi, avvenuto in Brasile nel 1976, è culminato in un doppio omicidio. Gli autori non sono mai stati rintracciati.

    I bambini erano sconvolti. “Non li abbiamo uccisi noi!”, sussurrò Julio.
    “li abbiamo solo trovati, distesi lì per terra”, aggiunse Roberto.
    L’ispettore José Bittencourt si alzò e fece il giro della scrivania. Pensava che i bambini avrebbero parlato più liberamente se assumeva un’aria rilassata. Si slacciò il colletto della camicia, si allentò la cravatta e si sedette di fianco a loro su una seggiolina.
    “Deve essere stato uno shock terribile”, disse. Julio si piegò verso di lui.
    “No. Pensavamo che stessero prendendo il sole in cima alla collina”.
    “Bah!”, obiettò Roberto. “Con addosso l’impermeabile?!”
    “Forse volevano abbronzarsi solo la faccia!”, borbottò Julio offeso.
    Roberto stava per fare un’osservazione acida quando l’ispettore Bittencourt si intromise.
    “E’ strano, però. Erano lì sdraiati con l’impermeabile... eppure è più di una settimana che non piove!”
    I ragazzi annuirono; nemmeno loro sapevano come spiegarlo.
    “Dunque, ricapitoliamo. Abitate dall’altra parte della baia, a Niteroi, vero?”
    “Sì.”
    “E questa mattina siete partiti per salire in cima a Monte Vintem. Perché?”
    “Per vedere gli aerei”, disse Julio. “Monte Vintem è veramente alto e gli aerei ti passano proprio sopra la testa. Si vedono perfino le facce dei piloti. E certe volte i passeggeri ci salutano con la mano!”
    L’ispettore Bittencourt sapeva a cosa si riferivano i due ragazzini: agli aeroplani in partenza o in arrivo all’aeroporto di Santo Dumont, a Rio de Janeiro. Sapeva anche che Monte Vintem era una collina alta più di 350 metri ed era certamente una buona postazione da cui si dominava la baia di Rio, e si poteva seguire l’atterraggio degli aerei.
    “Avete visto gli aerei...”
    “No. Una volta in cima abbiamo visto i cadaveri”, lo interruppe Roberto. “Siamo tornati indietro di corsa. Io sono caduto e mi sono ferito al ginocchio”, disse, indicando la fascia bianca che spiccava sulla sua gamba scura.
    “Vedo”, annuì l’ispettore. “Non avete visto nessun altro sulla collina? Durante la discesa non avete incontrato nessuno?”
    I ragazzi si guardarono e scossero la testa.
    “Vivete ai piedi della collina, vero? Non conoscevate quegli uomini?”
    Scossero di nuovo la testa.
    “E non avete visto niente di strano?”
    Roberto fece segno di no, mentre Julio aprì la bocca per poi richiuderla subito. José Bittencourt era un bravo poliziotto e aveva molta pazienza con i bambini, anche perché aveva quattro figli.
    “Non avete notato nessuno sulla collina ieri sera?” riprese; “Voglio dire: nessuna luce? Nessuna traccia di movimento?”
    Come disse la parola “luce”, Julio ebbe un piccolo sobbalzo. Roberto guardò il suo amico. La testa di Julio si mosse lentamente su e giù.
    “Sì… delle luci”.
    “No, Julio!”, strillò Roberto. “Non ti crederà!”
    L’ispettore si raddrizzò.
    “A me piacciono le storie. Raccontami di quelle luci. Sulla collina? Ieri sera?”
    Julio contrasse le sue manine sporche, strinse i pugni e cominciò a parlare molto in fretta.
    “Certe volte ci sono delle luci sulla collina - la gente ci va perché spera di vedere i dischi volanti. Ma non c’era nessuna luce sulla collina ieri sera. Le uniche luci che abbiamo visto erano quelle dei dischi volanti, su nel cielo.”
    L’ispettore incrociò le braccia con aria tranquilla e disse: “Raccontami dei dischi volanti”.
    Julio si strinse nelle spalle.
    “Hanno la forma di un disco. E volano.”
    “Questo lo sa, stupido”, sospirò Roberto. “Senta, signore, glielo dirò io. Sono verdi.”
    “Gialli”, lo corresse Julio.
    “Sì... gialli-verdolini”, ammise Roberto. “E...”
    “Aspetta”, disse l’ispettore Bittencourt. “Come fai a dire di che colore sono se è buio quando arrivano?”
    “Perché brillano”, disse Julio.
    “Così hai visto davvero una luce verdolina in cielo?”
    “Credo di sì”, disse Julio, anche se non riusciva a capire che differenza facesse.
    “E tutto intorno c’era una luce rossa”, disse Roberto.
    “Arancione”, precisò Julio.
    “Rosso-arancione”, concluse Roberto deciso.
    “E com’era grande?”, continuò l’ispettore.
    “Come uno degli aeroplani che atterrano a Santo Dumont”, disse Julio.
    “Grande come lo stadio di Maracanà”, disse Roberto. Julio sbattè le palpebre, poi aggrottò la fronte con aria dubbiosa, ma non disse niente.
    “E cosa ha fatto questo disco giallo-verdolino ieri sera?”, riprese l’ispettore Bittencourt.
    “E’ rimasto come sospeso sulla cima di Monte Vintem”, disse Julio.
    “Si è fermato lì sopra?”
    La faccia di Julio si fece pensosa. “Deve essersi fermato. Almeno per scaricare i cadaveri di quei due!”
    Adesso fu l’ispettore ad aggrottare la fronte.
    “Lo avete visto voi?”
    “No, ma è quello che ha detto la signora Souza questa mattina.”
    L’ispettore Bittencourt prese nota del nome e si mise a ciucciare la matita.
    “Bene, ragazzi, siete stati dei testimoni meravigliosi. Tra poco potrete tornare a casa. Devo parlare con i detective che hanno in mano questo caso e poi vi riporto indietro.”
    “Con la macchina della polizia?”, si illuminò Julio.
    “Con la macchina della polizia. C’è qualcosa che vorreste vedere mentre mi aspettate?” sorrise l’ispettore.
    “Le motociclette”, sussurrò Roberto, mentre Julio annuiva.
    Dopo avere organizzato una breve visita per far contenti i bambini, l’ispettore si diresse verso l’ufficio del medico legale, al terzo piano del moderno edificio di vetro e cemento.
    “Allora, come sono morti, dottoressa?”
    La dottoressa Alvarez era seduta alla sua scrivania, seminascosta da pile di manuali di medicina. Si tirò indietro il ciuffo di capelli neri che le ricadeva sulla fronte e si strofinò gli occhi stanchi.
    “Per la prima volta in vita mia, ispettore, devo ammettere che non lo so. Non ci sono segni di violenza sui corpi - non sono stati pugnalati, o picchiati, o colpiti da nessun proiettile - e nel loro stomaco non c’è traccia dei veleni usati più comunemente. Entrambi avevano il cuore in perfette condizioni e non sono morti per annegamento, né sono stati soffocati o strangolati.”
    L’ispettore Bittencourt si lasciò cadere su una sedia. “Questo non è di grande aiuto. Non so se dobbiamo indagare su un suicidio, un assassinio o un incidente.”
    “O una morte per cause naturali”, aggiunse la dottoressa.
    “E’ poco probabile che siano morti per cause naturali tutti e due contemporaneamente”.
    La dottoressa Alvarez annuì. “Quello che posso dirle è che sono morti a pochi minuti di distanza l’uno dall’altro. Mi dispiace non poterle fornire un maggiore aiuto. Due uomini giovani e sani. E’ un mistero.”
    José Bittencourt si rimise stancamente in piedi, brontolò qualche parola di saluto e tornò nel suo ufficio. Pochi minuti dopo aveva convocato nel suo ufficio gli agenti che erano stati sul luogo del delitto e la sua squadra di investigatori. Si rivolse prima di tutto al sergente che aveva condotto le indagini sul posto, un uomo dalla faccia sottile e l’espressione preoccupata.
    “Mi dispiace, signore. Non c’è nulla che ci possa aiutare. Non c’erano impronte, a parte quelle dei due bambini. Non sono assolutamente in grado di dire se le vittime siano giunte sulla collina quando erano ancora in vita o s4e siano state scaricate lì dopo la morte”.
    L’ispettore rigirava con aria irritata una biro tra le dita.
    “La dottoressa Alvarez non mi sa indicare la causa del decesso, ora lei mi dice che non sa dove sono morti. Forza, ragazzi, datemi un po’ di aiuto”.
    Il sergente Ramon si sporse un po’ verso di lui e disse: “Ufficialmente non ho nessuna prova, ma detto tra noi ho la sensazione che siano morti da qualche altra parte”.
    “Grazie”, disse Bittencourt. Poi guardò la fila di agenti. “Che cosa sappiamo delle vittime?”
    Il sergente Ramon aprì il suo blocco con un sorriso smagliante. Era sempre ansioso di impressionare favorevolmente l’ispettore.
    “Si tratta di Manuel Cruz e Miguel Viana. Vivevano a Campos ed erano entrambi tecnici televisivi. Sono stati visti per l’ultima volta a casa loro, prima che partissero alla volta di Rio per acquistare un’auto.”
    Bittencourt riflettè per un attimo su quelle informazioni.
    “Se stavano andando a comprare una macchina, avranno avuto bisogno di soldi. Invece quando sono stati ritrovati avevano in tasca soltanto pochi cruzeiros. Forse li hanno rapinati”.
    La faccia del detective Ramon si allargò in un’espressione di trionfo mentre il suo petto si gonfiava di orgoglio.
    “Ci ho pensato, signore. Ho controllato sul loro conto bancario. Avevano prelevato diverse migliaia di cruzeiros prima di lasciare Campos, ma non sono mai arrivati a Rio”.
    “Sono stati derubati durante il viaggio?”
    “No, signore. Hanno preso un autobus e sono scesi a Niteroi. Ho chiesto alla polizia di Niteroi di fare un controllo sugli impermeabili. Quei due sono scesi dall’autobus, hanno comprato gli impermeabili e poi si sono incamminati su per la collina”.
    L’ispettore Bittencourt non sopportava più quel giovane ufficiale che credeva di sapere sempre tutto.
    “Allora, sergente Ramon, a cosa servivano quegli impermeabili in una bella giornata di sole?”
    La faccia di Ramon precipità nello sgomento.
    “Io... non lo so, signore...”.
    “E perché sarebbero saliti a Monte Vintem?”
    “Non lo so, signore”.
    L’ispettore respirò profondamente.
    “Il lavoro dell’investigatore è un lavoro sui moventi, Ramon. I moventi delle vittime e i moventi del crimine. Non è solo un lavoro sui fatti”.
    “No, signore”.
    “Ma ci sono altri indizi, signore”, aggiunse il sergente, che era stato sul luogo.
    “Quali?”
    “Vicinissime alle facce dei cadaveri c’erano due maschere di piombo, molto rozze”. E mostrò due maschere di metallo grigio modellate in modo approssimativo che rappresentavano due volti dai lineamenti distorti.
    “Nient’altro?”
    “Tre fogli di carta, ispettore”. Porse a Bittencourt tre cartelline di plastica trasparente. Ciascuna conteneva un pezzo di carta: uno verde e due azzurri. Sul primo era trascritta una formula molto complicata. Sembrava copiata da un testo scientifico. La seconda era un messaggio. E il testo era chiaro, ma di difficile interpretazione.
    L’ispettore Bittencourt lo lesse a voce alta.
    “Domenica, una pillola dopo mangiato. Lunedì, una pillola dopo mangiato. Martedì, una pillola dopo mangiato. Mercoledì, una pillola prima di coricarsi”.
    Il terzo foglio diceva: “16.30 trovarsi al luogo stabilito. 18.30 prendere la pillola. Poi proteggersi il volto con uno schermo metallico e aspettare il segnale”.
    “Ci sono stati avvistamenti di UFO nella zona”, disse Ramon.
    “Lo so che ci sono gli UFO, grazie, Ramon” disse l’ispettore bruscamente. “Se vedi qualche omino verde, arrestalo immediatamente con l’accusa di omicidio, d’accordo?”
    “Sì, signore”, disse il sergente con entusiasmo.
    “Era uno scherzo, Ramon.”
    “Mi scusi, signore.”
    “Voglio parlare con qualcuno che conosceva quei due. Quando avrò capito chi erano - che genere di persone intendo - risolverò anche il caso”.
    Si alzò e raggiunse la porta, ordinando al suo autista di aspettarlo con la macchina e i due bambini all’ingresso principale.
    “Chiudi quei fogli in cassaforte, Ramon”, disse, prima di andarsene.
    Per il divertimento dei bambini, l’ispettore chiese all’autista di azionare la sirena e nel giro di pochi minuti si lasciarono alle spalle la città e attraversarono il ponte sulla baia. L’ispettore salutò i bambini e li ringraziò per la collaborazione. Poi si diresse verso Campos e il tranquillo bungalow dove viveva il padre di Miguel Viana.
    Era un uomo con i capelli grigi e le spalle curve. Indossava un maglione grigio sopra una camicia bianca sporca.
    “Mi dispiace per suo figlio, signor Viana”, disse l’ispettore mentre l’uomo lo guidava in un salotto in penombra e lo faceva accomodare su un divano consunto.
    Gli occhi acquosi del vecchio fissarono tristemente il poliziotto.
    “Lo sapevo che sarebbe finita così. Miguel e Manuel si erano sempre interessati agli extraterrestri, fin da bambini. Erano diventati tecnici della televisione, ma quello che li interessava veramente era costruire dei trasmettitori in grado di entrare in contatto con le astronavi aliene.”
    “Pensa che ci fossero riusciti?”, chiese l’ispettore.
    “Certo. Facevano i loro esperimenti in garage. Ci sono stati degli scoppi, e delle luci improvvise; sono sicuro che ci erano riusciti.”
    “A mettersi in comunicazione con gli alieni?”
    “A mettersi in comunicazione con gli alieni. Naturalmente gli alieni non potevano lasciarli in vita. Hanno attirato il mio Miguel sulla cima di Monte Vintem e lo hanno ucciso.”
    “Perché avrebbero dovuto farlo, signor Viana?”
    Il vecchio guardò il poliziotto stupito.
    “Ma per farlo stare zitto, no?! L’hanno ucciso perché aveva scoperto troppe cose”.
    “Aveva scoperto le onde radio su cui contattarli?”
    “Sì, deve averle scoperte.”
    D’un tratto, l’ispettore Bittencourt comprese l’importanza del primo foglio di carta. Non era una formula: era il calcolo di una gamma di frequenze radio. Grazie a quel pezzo di carta un essere umano poteva parlare con una creatura di un altro pianeta. L’ispettore si scusò frettolosamente e risalì in macchina. Questa volta la sirena e il lampeggiante servivano davvero, non solo per far contenti i due ragazzini.
    La macchina della polizia percorse rapidamente il ponte e le strade di Rio fino al quartier generale della polizia. L’ispettore si precipitò nell’edificio proprio mentre il detective sergente Ramon stava uscendo.
    “La formula, Ramon! Dov’è?”
    “Mi ha ordinato di metterla in cassaforte, signore, e naturalmente ce l’ho messa...”
    “Andiamo a prenderla!”, gridò Bittencourt.
    Ramon, sconcertato, seguì l’ispettore fino alla camera di sicurezza; l’agente di guardia aprì la cassaforte. “Li ho appena messi a posto, signore”, disse. Controllò la cassaforte e ne estrasse due cartelline trasparenti. Dentro c’erano due fogli azzurri.
    “Quello verde, ragazzo. Quello verde. Quello con la formula.”
    L’agente arrossì e annaspò nell’interno della cassaforte con mani tremanti. “Era qui, signore. Il sergente Ramon mi ha visto mentre lo mettevo qui.”
    “E’ vero, signore”, confermò Ramon.
    “E allora adesso dov’è?”
    L’agente fissò l’ispettore con un misto di imbarazzo e paura.
    “Non può essere andato da nessuna parte, signore... ma è sparito!”
    “Nessun uomo al mondo avrebbe potuto aprire la cassaforte e prendere quel foglio”, mormorò Bittencourt. “Nessun uomo... al mondo.”
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    Dopo tre giorni di prove in "fase sperimentale", da questa sera viene finalmente estesa a tutti gli utenti registrati al blog la possibilità di scrivere articoli. Chiunque volesse aprire un dibattito, lanciare spunti di riflessione o collaborare in qualsiasi altro modo con Mondi Paralleli, non deve fare altro che cliccare sul pulsante TOPIC nella colonna qui a destra e dunque scrivere il proprio pensiero, anche in un testo molto breve, come era possibile fare già da tempo attraverso i commenti.
    Le vostre esperienze e i vostri pensieri sono molto importanti per la vita del blog. Chi volesse condividerli, è ben accetto!
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    Molti si chiedono come mai se ci sono tanti avvistamenti di UFO, non abbiamo nessuna prova delle loro spedizioni sulla terra, per esempio un frammetno di astronave, o magari anche il corpo di un alieno. Gli ufologi sostengono che esistono resti di astronavi aliene che si sono schiantate sulla superficie terrestre, e anche corpi di alieni morti nello schianto, ma che i governi coprono con il segreto tutto questo. L’incidente più famoso sarebbe avvenuto negli USA, vicino a una piccola località chiamata Roswell...

    Il vento spazzava l’arida pianura, sospingendo i corvi nel cielo come coriandoli neri e scuotendo i rari cespugli ormai senza foglie. Sembrava non potesse esserci al mondo luogo più desolato.
    Un vecchio apparve sul crinale dei monti che sovrastavano la pianura ondulata. Riposò per qualche istante, appoggiato al bastone, mentre un ragazzo gli si accostava in silenzio.
    Gli abiti del vecchio erano neri come paramenti funebri, e il suo volto era solcato da rughe grigiastre. Anche il suo bastone da passeggio dall’impugnatura d’argento era nero. Il ragazzo si era fermato a un passo da lui. Parlò a voce alta, perché il vento portava via le sue parole e il vecchio era un po’ sordo.
    “E’ qui che è successo, nonno?”
    Gli occhi chiusi del vecchio lacrimarono mentre li investiva un piccolo turbine di sabbia. C’era una buca nel terreno, dove un tempo era cresciuto un cespuglio che il vento aveva strappato. Il vecchio si sedette protetto da quel precario riparo e battè la mano sulla terra riarsa: “Siediti qui, Joe”.
    Il ragazzo si lasciò scivolare a terra e guardò verso la pianura. Il vecchio alzò il bastone e indicò un punto nella distesa grigio-verde ai loro piedi. “Adesso l’erba è ricresciuta”, disse. “Ma cinquant’anni fa qui c’era una fenditura profonda, come se qualcosa avesse colpito il terreno a una velocità tremenda...”.
    Sul terreno si intravedeva ancora come l’ombra di una traccia. O almeno a Joe sembrava di scorgerla.
    “Ed è lì che il disco volante si è schiantato?”
    “Non esattamente”, disse il vecchio. Parlava piano, scegliendo le parole con cura. “O meglio sì, benché la cabina sia stata ritrovata più a nord, verso Corona”.
    Il ragazzo scosse la testa.
    “Non riesco proprio a capire, nonno. Quegli alieni avevano attraversato l’universo per arrivare sulla terra, e perciò dovevano essere molto abili come piloti”.
    “E’ vero”, disse il vecchio.
    “E allora come mai si sono sfracellati quando sono arrivati qui?”, chiese Joe. “Dovevano essere proprio stupidi, o sconsiderati”.
    “Mmmm”, annuì il nonno. “Mi ricordo che c’era stata una tempesta, il 2 giugno di quell’anno...”
    “Il 1947?”
    “Il 1947. La peggior tempesta a memoria d’uomo, da queste parti. Io certo non ne ho più vista una così. Il proprietario di questa terra, nel 1947 era un certo Mac Brazel. Si ricordò di avere visto un grande lampo nel cielo proprio qua sopra. Era rosso, con una specie di coda bianca, ma lui pensò che fosse un lampo di caldo, o qualcosa del genere. Quattro o cinque giorni dopo venne da queste parti a controllare il bestiame. Fu allora che vide il solco nel terreno e i rottami”.
    “Ma non i cadaveri?”
    “Ma non i cadaveri. Esaminò i frammenti e vide che si trattava di metallo molto sottile. Così sottile e leggero che poteva accartocciarlo nella mano. Quando riapriva la mano, però. Il metallo ritornava alla forma originaria, come per magia”.
    “Io non credo alla magia”, disse Joe. “E nemmeno agli alieni”.
    Sulla faccia mesta del vecchio apparì un sorriso sbilenco.
    “Neanch’io ci credevo! Beh, c’erano stati centinaia di avvistamenti di UFO, quell’estate! Erano su tutti i giornali. C’era anche una ricompensa per chi avesse fornito le prove dell’atterragigo di una spedizione extraterrestre: tremila dollari. Naturalmente Mac Brazel pensò di avere tra le mani una miniera d’oro. Raccolse i rottami più grossi e li depositò nel granaio vicino al suo ranch”.
    “Suppongo che non ci siano più, adesso”, sospirò Joe.
    “No. Mac ne parlò con lo sceriffo, e lo sceriffo lo riferì alla radio locale. Ma proprio poco prima che andasse in onda l’annuncio del suo straordinario ritrovamento, a Mac saltarono i nervi. Disse che si trattava soltanto di comuni frammenti di metallo. Evidentemente qualcosa, o qualcuno, l’aveva spaventato”.
    “Chi, nonno? Gli alieni?”
    “No... molti sono convinti che siano stati degli agenti segreti inviati dal governo a consigliargli di stare zitto. La settimana dopo abbiamo visto Mac Brazel in città, ma c’era sempre qualcuno della base aerea di Roswell con lui. Sembrava che lo sorvegliassero. La radio e igiornali furono avvisati di lasciar perdere questa storia e tutta la zona fu pattugliata. Non ci si poteva nemmeno avvicinare”.
    “Tu ci hai provato, nonno?”
    “Sì, Joe. Tutti noi di Roswell volevamo vedere i rottami. Ma quando i militari ci lasciarono passare, non c’era più traccia del magico metallo. Da allora, sono cinquant’anni che la gente cerca invano una scheggia, un frammento... I militari devono avere battuto il terreno palmo a palmo”.
    “Ma avete visto il solco”, disse Joe.
    “Abbiamo visto il solco.”
    “E come l’hanno spiegato?”
    “Hanno detto che era stato causato dalla caduta di un pallone meteorologico, rivestito da un foglio metallico argentato. Trovarono perfino un ufficiale dell’aereonautica che mostrò ai giornalisti i falsi rottami, frammenti di un pallone, in effetti, che nel frattempo avevano tempestivamente sostituito ai rottami autentici.”
    “E così non ci sono prove”, Joe scrollò le spalle. “Te l’ho detto che non esistono i dischi volanti, e nemmeno gli alieni”.
    Il vecchio si alzò lentamente e guardò verso il nord.
    “Ti stai scordando un particolare, Joe. Forse non ho visto un disco volante, ma di sicuro ho visto qualcosa che non era umano.”
    Joe lo guardò con aria sospettosa:
    “Mi stai prendendo in giro?”
    “No, lo giuro su quel poco di vita che mi resta. Ho visto un alieno. Ti ricordi che qui si era schiantata una parte dell’astronave? A Corona in quel periodo c’erano degli archeologi impegnati in alcuni scavi. Mentre i militari esaminavano i resti ritrovati qui, gli archeologi trovarono la cabina dell’astronave su un’altura sopra Corona. Naturalmente i militari li rintracciarono immediatamente e li convinsero a tenere la bocca chiusa, proprio come avevano fatto con Mac Brazel. Fu allora che mi chiamarono.”
    Il nonno prese a camminare giù per la discesa, in direzione di un’automobile nera parcheggiata al margine della strada. Sulla vernice lucida la sabbia, mossa dal vento, aveva steso un velo opaco.
    Il vecchio aprì la portiera e si mise al volante. Joe sedette al suo fianco e rimase in silenzio, mentre il nonno, voltata la macchina, imboccava piano piano la strada sterrata. Ci vollero venti minuti per raggiungere la statale.
    “Come puoi vedere anche tu, in questa zona possono passare quattro o cinque giorni prima che si scopra che c’è stato un incidente.”
    “raccontami degli alieni”, gli chiese Joe.
    “Ritornai alla cappella verso le quattro del pomeriggio, quel giorno, e il telefono stava suonando. Un uomo mi chiese se ero Glen Dennis, l’impresario di pompe funebri. ‘Sono io’, dissi. Poi mi fece una domanda strana. Mi chiese qual era la bara più piccola che avessimo. Gli dissi che la più piccola era quella da 4 piedi. Allora mi chiese di preparargliene qualcuna. Quel pomeriggio mi chiamò ancora tre o quattro volte. Voleva sapere come si potevano conservare quei corpi. Che sostanze usavo e come facevo a trasportare un corpo senza danneggiarlo. Gli dissi che per aiutarlo avrei dovuto vedere i corpi.”
    “E lui?”, chiese Joe ansioso.
    Il nonno scosse la testa.
    “Non prese neppure in considerazione la mia richiesta. L’unica cosa che riuscii a sapere fu che i corpi erano stati esposti alle intemperie per alcuni giorni ed erano già in decomposizione. Per il resto si riofiurò di rispondere a tutte le mie domande.”
    “E allora come hai fatto a vedere gli alieni?” insistette Joe.
    “Tu sai che cos’è un carro funebre, vero, Joe?”
    “Sì, quella macchina lunga che usi per i funerali”, disse il ragazzo.
    “Esatto. Ora, nel 1947 c’era carenza di ambulanze e i militari spesso mi chiedevano in prestito il carro funebre per trasportare i feriti che avevano bisogno della lettiga.”
    “Agghiacciante!”, rabbrividì Joe.
    Il volto grigio del vecchio si accigliò.
    “No, Joe. I morti non hanno mai fatto male a nessuno.”
    Il ragazzo ci pensò su un attimo e annuì.
    Glen Dennis continuò: “Comunque l’ultima chiamata, quel giorno, venne dalla base aerea. Volevano che prelevassi un giovane pilota dall’ospedale cittadino e lo portassi a quello della base. Le loro ambulanze erano tutte impegnate a Corona”.
    “Per gli alieni?”
    “Credo di sì. Mi pagavano bene, così presi il ragazzo e lo portai alla base aerea di Roswell. C’era molto trambusto, lì. Molti camion tornavano dalla zona che abbiamo appena visitato, seguiti dalle macchine di rappresentanza con a bordo generali carichi di galloni e medaglie d’oro. Non avevo mai visto tanti pezzi grossi nella nostra piccola Roswell”.
    La macchina lasciò la statale e girò in una stradina con l’indicazione “Corona”. “Lasciai il pilota ferito davanti all’ospedale, ma invece di andarmene decisi di entrare anch’io. C’era un’infermiera che conoscevo. Volevo passare a salutarla... e magari invitarla a bere un caffè.”
    Joe fece una smorfia: “Ma la nonna lo sapeva?”
    “Questo successe tre anni prima che conoscessi tua nonna”, disse severamente Glen Dennis.
    “Va bene, allora. Non glielo dirò”, concesse Joe.
    “Come ti stavo dicendo”, riprese il vecchio, “scesi dal carro funebre ed entrai nell’ospedale. C’erano due agenti della polizia militare sulla porta. Non ne avevo mai visti prima, ma in quel momento non ci feci caso. Non sarei neppure riuscito ad arrivare fin lì se non avessi parcheggiato nell’area riservata alle emergenze. Le porte delle ambulanze militari erano aperte e custodivano i rottami incriminati, sorvegliati da un sacco di agenti. Vidi così tutta quella ferraglia. Non sapevo di cosa si trattasse, ma capii che era successo qualcosa. C’erano alti ufficiali dappertutto. E sembravano assolutamente sconvolti. Fu allora che vidi Selene...”
    “L’infermiera?”
    “Proprio lei. Mi aspettavo che mi salutasse, e invece fece una faccia terrorizzata e disse: ‘Come diavolo hai fatto ad arrivare qui? Dio mio, ti uccideranno’. Io ero davanti alla macchina delle bibite e stavo per prendermene una, quando un colonnello dai capelli rossi cominciò a urlare: ‘Che cosa ci fa qui questo figlio di buona donna?’, riferito a me!, capisci?! Quando mi girai per guardarlo vidi che si trovava sulla soglia di una sala operatoria. C’era un tavolo operatorio là dentro, con sopra un corpo e una folla di gente tutt’intorno. Gettai una sola occhiata a quel corpo... non avevo mai visto niente di simile.”
    “Era l’alieno?”
    “Col mestiere che faccio, ho visto centinaia e centinaia di corpi. Ma una cosa simile non l’ho mai più vista. Era grigio-argento, più o meno della tua statura, ma con le gambe e le braccia piccole e sottili. Prima che potessi osservarlo meglio, due agenti della polizia mi9litare mi avevano preso per le braccia e mi avevano trasportato fuori. Non uscii con le mie gambe, perché mi sollevarono di peso. E mi ordinarono di sparire immediatamente. Mi seguirono addirittura fino in ufficio, entrarono e mi dissero che se avessi detto anche una sola parola mi avrebbero cacciato in prigione, in una cella così profonda che per nutrirmi mi avrebbero sparato dei fagioli con la cerbottana.”
    Joe scoppiò in una risata stridula. Il vecchio lo guardò: “Dicevano sul serio, sai.”
    “Ti sei spaventato?”
    “Non ero tanto spaventato; piuttosto, direi furibondo. Gli risi in faccia e li mandai al diavolo, ma poco dopo lo sceriffo mi chiamò e mi disse che avevano minacciato anche lui. Gli avevano detto che se avesse parlato di quello che aveva visto avrebbero ucciso tutta la sua famiglia.”
    “E che cosa aveva visto, lui?”, chiese Joe.
    “Non me l’ha mai detto”. Glen Dennis si strinse nelle spalle. “Ma Selene sì. Le telefonai all’ospedale e ci mettemmo d’accordo per incontrarci in un bar quella sera. Finiva il turno alle dieci, e quando ci vedemmo era nervosissima. Non riusciva nemmeno a tenere in mano la tazzina senza rovesciare un po’ di caffè”.
    “Li aveva visti?”
    “Mi disse che c’erano tre corpi. Due erano completamente straziati, ma uno era ancora in discrete condizioni. Assomigliavano agli antichi mandarini cinesi. Erano piccoli e fragili e non avevano capelli. Avevano il naso piatto, gli occhi profondi e al posto delle orecchie delle piccole aperture. Le mani, non avevano pollice... solo quattro dita simili a tentacoli con delle ventose alle estremità. Aveva provato a fare un disegno, ma poi l’aveva bruciato per timore di quello che sarebbe successo se l’avessero trovato.”
    “Pensavo che i corpi fossero quattro”, osservò Joe.
    “Tre morti e uno vivo”, disse piano il vecchio. “O almeno questa fu una delle voci che circolarono allora. Selene aveva assistito solo all’esame dei tre cadaveri, ma qualcuno, quando li avevano portati all’ospedale, aveva notato che c’era un quarto alieno che si muoveva ancora. Venne ricoverato in un’unità di cura intensiva e morì poco dopo.”
    Il vecchio fermò la macchina su un’altura. Le rocce nude erano lucidate dal vento e dalla sabbia.
    “Cinquant’anni fa, Joe, la cabina con a bordo i quattro alieni si è schiantata qui. proprio in questo punto. Non posso provarlo - il governo l’ha sempre negato. Ho assistito a numerose morti, ma nessuna triste quanto la loro. Pensare che avremmo potuto parlare con esseri che provenivano dall’altro capo dell’universo. Avremmo potuto imparare da loro i segreti della navigazione spaziale! Chissà dove potremmo essere oggi!”
    “Sì, è triste”, disse il ragazzo.
    “No”, disse il vecchio, appoggiandosi al bastone. “Quello che voglio dire è che ero triste per loro. E’ sempre brutto quando qualcuno muore lontano da casa e dalle persone che ama, ma nessuno è mai morto tanto lontano da casa quanto quelle povere creature.”
    Il ragazzo stava fermo, in silenzio, e fissava la pianura.
    “Ti avevo promesso di farti visitare i posti dove si sono svolti questi fatti”, disse piano il vecchio.
    Joe annuì. “Grazie, nonno... ma adesso voglio tornare a casa.”
  13. .
    Ogni tanto arriva il resoconto di un contatto UFO totalmente diverso da tutti gli altri, cui generalmente segue una nutrita serie di testimonianze dello stesso tipo. Il caso di Betty e Barney Hill, però, è stato assolutamente straordinario: dopo la diffusione della loro esperienza, i racconti di episodi analoghi sono arrivati addirittura a migliaia! E Betty e Barney Hill erano stati rapiti dagli alieni…

    “C’è qualcuno là fuori. E vi sta spiando”, disse la voce.
    La mano della donna tremava mentre stringeva la cornetta del telefono.
    “Grazie”, sussurrò. “Sapevo che non era solo la mia immaginazione”.
    Rimise a posto il telefono con un gesto brusco. L’uomo alto, dalla carnagione scura, che era seduto a bordo di una sedia, le rivolse uno sguardo pieno di apprensione.
    “Chi era?”, chiese, con voce rauca.
    Il volto della donna era pallido e incorniciato da una spessa cortina di capelli neri.
    “probabilmente sono umani”, mormorò.
    “E allora perché non si fanno avanti, se vogliono parlarci?”
    Proprio mentre diceva queste parole, qualcuno bussò alla porta. Un colpo secco. Sia l’uomo che la donna balzarono in piedi, gli occhi fissi alla porta del corridoio, immobili.
    “Vai tu, Barney”, disse la donna, con una specie di gemito.
    L’uomo si mosse con rigidità meccanica, dicendo: “Vado io, tesoro”, come se non l’avesse sentita.
    Si umettò le labbra mentre apriva cautamente la porta del corridoio; poi rimase fermo con la mano sulla maniglia della porta d’ingresso per un attimo che durò un’eternità. “Chi è?”, chiese con voce flebile e gracidante, molto strana per un uomo della sua corporatura.
    “Jess Winter, Mr Hill. Si ricorda, le ho telefonato per chiederle se potevo passare questa sera?”
    “Chi è?”, chiese Betty Hill dal soggiorno.
    “Mr Winter!”, le rispose il marito. “Della UFO Society. Voleva intervistarci. Te lo ricordi?”
    “Me ne ero dimenticata”, disse la donna con una risatina nervosa. “Fallo entrare mentre metto su un caffè”.
    Barney Hill aprì la porta. Jess Winter era giovane, aveva uno zaino sulle spalle e porse a Barney una mano gracile che quasi scomparve nella sua zampa da orso. “Lieto di conoscerla, Mr Hill! E’ un grande privilegio per me quello di poter parlare con voi. Probabilmente i vostri saranno, per l’ufologia, i nomi più importanti dei prossimi vent’anni!”.
    Si passò nervosamente la mano sui capelli quasi rasati, mentre i suoi occhi scintillavano nella luce pallida del corridoio.
    “Entra, Jess”, disse Barney Hill facendogli strada verso il soggiorno. La stanza dove entrarono era accogliente, dai colori un po’ scialbi, ma non priva di una certa ricchezza.
    Dalla cucina li raggiunse la voce allegra di Betty: “Il caffè è sul fuoco. Può iniziare con le domande, mentre finisco di sistemare”.
    Sembrava contenta di avere un pretesto per muoversi, mentre preparava le tazze e controllava la caffettiera.
    Jess Winter si schiarì la gola. Era decisamente il più nervoso dei tre.
    “Non voglio influenzare il vostro racconto facendovi delle domande”, cominciò. “Abbiamo notato che gli intervistati tendono a rispondere in base a quello che speriamo di sentirci dire, invece di limitarsi alla verità”.
    Barney Hill annuì lentamente. Il giovane intervistatore si schiarì la gola e continuò: “Penso che potreste raccontarmi tutta la storia dall’inizio”, suggerì, mentre frugava nello zaino e ne estraeva un blocco e una penna a sfera.
    Betty cominciò a parlare, e la sua voce era piatta e monotona come se raccontasse una storia che sapeva a memoria.
    “Era la notte del 19 settembre 1961. Io e Barney tornavamo in macchina da Montreal. Eravamo stati alle cascate del Niagara per qualche giorno di vacanza e stavamo rientrando a casa quando accadde il fatto. Avevamo deciso di viaggiare di notte per risparmiare sul conto dell’hotel. Ci siamo fermati a mangiare qualcosa verso le dieci in un posto che si chiama Sherbrooke”.
    Jess Winter intanto consultava una carta geografica e seguiva col dito la strada che partiva d aMontreal.
    “Poi abbiamo preso la Highway US3 in direzione sud. Abbiamo percorso circa trenta miglia senza incontrare anima viva, nemmeno una macchina, e senza intravvedere nessuna luce dalle case. A un certo punto abbiamo visto nel cielo un bagliore intenso e molto brillante”.
    “Chi se ne è accorto per primo?”, chiese l’invervistatore.
    Betty Hill portò dalla cucina un vassoio e lo appoggiò su un tavolino basso. Si strinse nelle spalle. “Era così strano che penso che l’abbiamo notato tutti e due contemporaneamente. Una luce brillantissima che si muoveva nel cielo a una velocità straordinaria. Ad ogni modo, ci fermammo e scendemmo dalla macchina portando con noi i nostri binocoli”.
    “E cosa avete visto?”, chiese impaziente Jess Winter.
    “Lo sto dicendo”, rispose la donna un po’ seccata. Era la sua storia, e sapeva bene come raccontarla. “Era piatto, come una frittella, intendo. Aveva delle luci sul davanti, ma non di dietro, così quando ruotava su se stesso sembrava lampeggiasse. Disponeva anche di una coppia di alette sul bordo con delle luci rosse in cima”.
    Barney Hill si frugò in tasca ed estrasse timidamente un foglio di carta.
    “Quando ho saputo che sarebbe venuto a trovarci, ho fatto questo schizzo”.
    “Grazie”, esclamò Jess Winter. “Ha avuto una bellissima idea, Mr Hill!”
    Betty era impaziente di continuare il suo racconto.
    “Ci siamo fermati ancora, circa venti miglia più avanti e siamo scesi di nuovo dalla macchina...”
    “A quel punto avreste dovuto essere nella zona della Foresta Nazionale”, la interruppe l’ufologo, dopo aver controllato sulla sua cartina.
    “Esattamente. Adesso la frittella era immobile, sembrava proprio davanti a noi. Ed era vicinissima!”
    “Non avevamo paura, vero, tesoro?”, intervenne Barney. “Anche se potevamo vedere chiaramente dentro quei finestrini. Continuavo a dirti che doveva esserci una spiegazione. Fissavo quell’UFO e ti ripetevo che non credevo agli UFO! Ma quando furono ancora più vicini, riuscii a vedere delle figure vestite con uniformi nere scintillanti. Mentre ne osservavo una... mi resi conto che quella stava fissando proprio me. Fu allora che provai quella sensazione misteriosa”.
    “Misteriosa?”
    “Terrore. Come se dovessi lottare per la mia vita”. Barney tremava.
    Betty fece un sorrisetto tirato.
    “E’ risalito in macchina gridando ‘Vogliono catturarci! Vogliono catturarci!’ Ha schiacciato l’acceleratore a tavoletta e siamo fuggiti come se scappassimo dalle fiamme dell’inferno”, disse.
    “E’ stato allora che ho sentito quel crepitio metallico sul baule della macchina. Come se ci stessero sparando. Credo di non avere mai avuto tanta paura in vita mia.”
    Barney bevve il suo caffè, mentre Betty teneva la tazza tra le mani e fissava il pavimento.
    2La settimana dopo riferimmo tutto a un gruppo di ufologi”, disse.
    “E...”, la incalzò Jess. Sapeva che quello era solo l’inizio della storia.
    “Nei due mesi successivi raccontammo la nostra storia diverse volte. Facevo dei sogni strani, ma sulle prime non mi erano sembrati importanti. Sogni in cui ero dentro un’astronave. Solo quando un ragazzo di un gruppo UFO mi chiese come mai ci avevo messo tanto tempo a tornare a casa, me ne resi conto. Avevamo perso almeno due ore! Fu allora che cominciai a prendere sul serio quei sogni. Capii che potevano spiegare quelle due ore mancanti. Ci eravamo stati davvero, dentro l’astronave!”
    Barney si sporse un po’ in avanti.
    “Io non riuscivo a ricordare niente, da solo, ma la UFO Society mi ha suggerito di farmi ipnotizzare... sostenevano che l’ipnosi avrebbe risvegliato i ricordi chiusi nella mia mente”.
    Jess Winter annuì.
    “Mi racconti quei sogni”, disse.
    Gli occhi della donna erano stanchi e vuoti mentre fissava il blocco dell’intervistatore. Poi cominciò a parlare a mitraglia, mentre lui scriveva rapidamente.
    “Risaliamo in macchina. Riprendiamo la strada a tutta velocità. Giriamo bruscamente prima a sinistra, poi a destra. E li vediamo, alla luce dei fari. Sono undici, in mezzo alla strada. Le loro uniformi nere scintillano. Voglio andargli addosso. Metterli sotto. Superare quel cordone. Scappare. Ma il motore all’improvviso si spegne. La macchina si ferma da sola. Barney gira la chiave, ma non c’è niente da fare. Siamo in trappola. Non possiamo più andare né avanti né indietro. Cominciano a camminare verso di noi! Sono orribili. Due braccia e due gambe. Una faccia piatta, con le narici, ma senza il naso. Occhi come occhi di lucertola”.
    “Aprono le portiere della macchina”, continuò Barney, “ci prendono per le braccia e ci conducono per un sentiero tra i boschi”.
    “Io ti parlo”, disse Betty, “ma tu non mi senti”.
    “Ti sento”, replicò il marito, mentre il sudore cominciava a imperlare la sua fronte scura. “Solo che non posso rispondere. Non posso fare nient’altro che camminare. Ci portano fino a una radura dove si trova l’astronave”.
    “E’ grande. Grande come questa casa”, riprese Betty. “Dobbiamo salire su una rampa per entrare. C’è buio, dentro, e io non voglio entrare. Mi sembra di non riuscire a controllarmi”.
    “C’è un corridoio esterno che corre tutt’intorno all’astronave”, spiegò Barney. “Su questo corridoio si affacciano delle stanze. Portano Betty nella prima...”
    “Voglio sapere perché Barney non può venire con me”, gridò Betty, pallida come il latte del piccolo bricco sul vassoio. “Il loro capo mi dice che hanno solo una stanza per l’esame. Porteranno Barney nella stanza accanto, e così perderanno meno tempo. Poi comincia a farmi delle domande...”
    “In inglese”, spiegò Barney. “Parlavano inglese”.
    “Mi chiedono che cosa mangio, quanti anni ho e poi cominciano a esaminarmi. Prelevano del cerume dalle mie orecchie, e mi tagliano le unghie. Mi prendono anche un pezzetto di pelle”.
    La donna si arrotolò una manica e mostrò una chiazza infiammata sull’avambraccio. “Ma il momento peggiore è quando mi infilano un grosso ago. Dicono che vogliono esaminarmi internamente. Sto per gridare quando sento l’ago che... ma il capo agita una mano davanti ai miei occhi e il dolore svanisce. Non ho nemmeno più paura”.
    “Non dimenticarti la prova, Betty”, disse Barney. Betty annuì.
    “Il capo mi mostra una mappa. Dice che è una carta del cielo. Mi indica il loro pianeta. Quando chiudo gli occhi vedo ancora quella lontana galassia. Qualche volta guardo le stelle, adesso, e mi chiedo dove sono, loro. Quelle strane creature.”
    Marito e moglie rimasero in silenzio. Alla fine Jess Winter disse:
    “Vi hanno riportato alla macchina”.
    Betty Hill lo guardò con un’espressione strana, come se si fosse appena svegliata in una stanza sconosciuta.
    “Noi... tornammo alla macchina, ricordo. Guardammo verso il bosco e vedemmo la frittella rotolare come una palla scintillante e svanire a velocità supersonica.”
    “E poi ritornaste a casa.”
    Betty respirò profondamente.
    “Mi voltai verso Barney e gli dissi: ‘Adesso ic credi, ai dischi volanti?’, e Barney disse soltanto: ‘Non essere ridicola’. Era come se avesse dimenticato tutto nel momento in cui era risalito in macchina. E anch’io iniziai a ricordare solo dieci giorni dopo, quando cominciai a fare quei sogni. Solo che, naturalmente, non erano semplici sogni... Barney aveva visto le stesse cose!”
    “Aveva parlato dei sogni a suo marito?”, chiese l’ufologo.
    “Certo!”, esclamò Betty, stupita da quella domanda. Si portò una mano alle labbra. “Non penserà che abbia di punto in bianco deciso di credere ai miei sogni!”
    “E’ possibile”, disse Jess Winter.
    “Ma ci sono un sacco di cose misteriose che ci stanno capitando”, disse Betty piano. Aveva l’aria preoccupata. Parlava lentamente, in modo esitante. “C’erano un mucchio di foglie - foglie secche - sul tavolo della cucina. Mi sono avvicinata per gettarle via e ho visto qualcosa che luccicava là in mezzo. Erano i miei orecchini, quelli che portavo quando ci hanno rapiti”.
    “Altre cose strane?”
    “Sciocchezze...”, intervenne Barney. “Ma prima non ci erano mai accadute. Un sacco di problemi con gli elettrodomestici. Tostapane, frigorifero, radio e televisione. L’impianto antifurto che scatta senza nessun motivo”.
    “Niente ladri?”, chiese l’intervistatore.
    Betty lo guardò prima di specificare: “Non umani, perlomeno. Abbiamo visto delle ombre in cortile, dopo il tramonto. Proprio prima che arrivasse lei, i nostri vicini ci hanno telefonato per dirci che anche loro le vedevano. Qualcosa che si muoveva furtivamente, là fuori. Non hanno ancora finito con noi, Mr Winter. Ci tengono ancora d’occhio. C’è qualcuno là fuori, adesso”.
    “Perché, Mrs Hill?”
    La donna si alzò per andare a sedersi vicino al marito. Strinse la sua mano con tanta forza che le sue nocche divennero bianche.
    “Perché torneranno da noi. Prima o poi, da qualche parte, torneranno a prenderci”.
    “E se non riusciranno?”
    “Allora prenderanno qualcun altro. Ma torneranno. Mi creda, Mr Winter. Torneranno. E la cosa più spaventosa è...che non c’è nulla che possiamo fare per impedirglielo!”
  14. .
    Molti pensano che le prime apparizioni di extraterrestri, con le loro navi spaziali ipertecnologiche, risalgano a non più di cinquant'anni fa. E' vero che l'espressione "disco volante", a proposito di questi oggetti misteriosi, fu usata per la prima volta nel 1947. Ma le visite degli alieni sono cominciate molti anni prima. Questa storia è del 1926...

    Era novembre. Faceva freddo. Le strade erano immerse nella nebbia. I lampioni a gas erano circondati da un alone luminoso che ricordava le aureole dei santi sui vecchi libri di scuola. Subito dopo cena, come ogni sera, i ragazzini si radunarono all'angolo della strada. Erano tutti maschi, naturalmente: a quei tempi, perlomeno in quel luogo sperduto dell'Inghilterra settentrionale, giocare con le bambine era da rammolliti. Le bambine stavano a casa ad aiutare le loro mamme o a giocare con le bambole, mentre i loro fratelli se ne stavano a giocare fuori, per strada.
    Albert Coleman aveva soltanto nove anni, ma era grande e grosso e nessuno di noi osava mettersi contro di lui. "Cosa facciamo stasera, Albert?", gli chiesi. "Giochiamo a cricket nel vicolo dietro casa?"
    Albert si piantò le mani sui fianchi, sopra i calzoni corti grigi, e mi lanciò un'occhiataccia: "A cricket? In novembre? Non hai nemmeno un briciolo di buon senso, Henry Towler".
    Fui felice che, a causa della nebbia, il buio fosse sceso prima del solito, quella sera: se non altro, l'oscurità nascondeva il rossore che mi era salito alle guance.
    "Giochiamo a calcio sulla strada?", suggerì Richard Brown.
    "No!", disse Albert deciso. "La polizia non vuole più sentirne parlare da quando è andata in frantumi una finestra del negozio di Mrs Ramsbottom".
    "Non siamo stati noi!", disse il piccolo Eddie Reid tirando su col naso. Tirava sempre su col naso, Eddie, anche d'estate. Quella sera sembrava addirittura un rubinetto.
    "Quello che voglio dire" sospirò Albert, "è che la polizia ci tiene d'occhio. Lasciate passare un paio di settimane, e non ci penseranno più. Allora potremo ricominciare".
    "Ma allora a che cosa possiamo giocare, Albert?", chiesi.
    "A nascondino".
    "Yeah!" gridammo, tutti eccitati.
    "Questo palo della luce è la tana", spiegò Albert. Poi indicò quattro ragazzini. "Noi cinque ci nascondiamo per primi. E voi cinque...", continuò, facendo segno al resto del gruppo, "voi conterete fino a cinquanta e poi ci verrete a cercare".
    "Dieci - venti - trenta - quaranta - cinquanta! Tana!", gridò Richard Brown.
    Albert lo fulminò con uno sguardo: "Non fare lo stupido, Richard".
    "Scusa, Albert".
    "Niente imbrogli, e nemmeno spiate. Occhi chiusi finchè non arrivate a cinquanta", ordinò.
    "Non imbrogliate nemmeno voi", replicò Eddie Reid in tono petulante. "Non vale nascondersi nel retro dei cortili perchè non ci possiamo entrare, e non vale nemmeno il cimitero!"
    "Paura?", sogghignò Albert.
    "Sì!", dissi io, e tutti giù a ridere. A quei tempi solo il cimitero ci faceva paura. Oggi sono le strade a essere pericolose. I tempi cambiano.
    Quella sera giocare fu più bello che mai. Strisciare fino all'angolo della strada guardandosi continuamente intorno. Cercare di scovare quelli che si erano nascosti prima che fossero loro a scoprire te. Sentirsi rizzare i capelli in testa quando vedevi un'ombra e sapevi che era uno di loro. E poi la corsa folle fino al palo della luce, gridando "Tana!" e ridendo forte.
    Mi sembrava fossero passati solo pochi minuti quando sentii l'odiato richiamo:
    "Heeen-ry!"
    "Oh, no!", gemetti. "E' mia mamma!"
    "Fai finta di non avere sentito!", mi consigliò Eddie.
    "Ci guadagnerei una bella battuta", sospirai. "Domani sera non mi lascerebbe neanche uscire".
    Raccolsi la mia giacca dalla buca dove l'avevo buttata e la trascinai sui ciottoli lucidi per l'umidità, fino alla porta di casa.
    "Su per boschi e per montagne fino al regno della nanna!", cantilenò la mamma in un tono che non ammetteva repliche. Aprii la bocca per protestare, ma poi cambiai idea e mi avviai su per le scale.
    La camera era fredda e non pensai nemmeno per un attimo di infilarmi il pigiama gelato: sfilatomi in fretta e furia gli scarponcini neri, scivolai sotto le coperte. Poichè mi ero dimenticato di tirare le tende, il lampione proiettava sul mio cuscino i suoi guizzanti riflessi bianchi e blu. E poi c'erano i miei amici che giocavano giù da basso. Sentivo il rumore delle scarpe e degli zoccoli sull'acciottolato, e le grida di "Tutti fuori! Tutti dentro!", e non potevo dormire.
    No, di dormire proprio non se ne parlava. Non ci sarei mai riuscito. La sola cosa da fare era tornare là fuori e finire di giocare con gli altri.
    Ero ancora vestito. Scesi dunque dal letto, raccattai i miei scarponcini, feci le scale in punta di piedi e uscii dalla porta. La mamma stava chiacchierando con la signora del numero 8. Mi rimisi le scarpe e corsi giù per la strada. Sapevo di avere almeno un paio d'ore prima che mio padre tornasse dal pub e chiudesse la porta a chiave.
    "Pensavo che fossi andato a casa", disse Albert con un tono severo da maestro di scuola.
    "Solo il tempo di sbafare una fetta di pane col sugo", dissi e mi rimisi a giocare.
    Quella sera tutti i nostri soliti nascondigli erano stati violati: bisognava spingersi più avanti, oltre la chiesa e oltre anche il cimitero, dove gli ultimi sussulti della recente pioggia, gocciolando dagli alberi sulle tombe, producevano un rumore smorzato come di passi che avanzano faticosamente nel buio.
    Rabbrividii e corsi più in là del nostro isolato, fino a una strada molto distante da quelle dove giocavo di solito. Lessi il suo nome sulla targa: Corporation Road.
    Il vicolo retrostante era immerso nel buio, si intravvedeva solo una chiazza di luce gialla, giù in fondo, dove un'ombra si muoveva furtivamente. In quel giro del nascondino erano già stati presi tutti, eccetto Albert. Se lo avessi scoperto mentre imbrogliava e si nascondeva in qualche cortile, avrei potuto gridare "Visto!" e correre per primo fino alla tana.
    Percorsi in punta di piedi tutto il vicolo, tenendomi accostato al muro di ruvidi mattoni scuri, desiderando che mio padre non avesse messo così tanti chiodi nelle suole dei miei scarponi. Finalmente raggiunsi il cancello da cui fluiva quella luce giallastra. Uno strano ronzio proveniva dal cortile. Fu lì che, per la prima volta, mi venne il sospetto che quell'ombra intravista potesse anche non essere Albert!
    Sbirciai da dietro un pilastro ed ebbi la certezza che non era Albert. In realtà non avrei saputo dire chi fosse colui che stavo osservando, ma in qualche modo sentivo che non era un essere umano!
    Le tende della cucina erano aperte - da lì si spandeva la luce - e tre figure guardavano dentro. Erano tutte alte più o meno come mio padre, circa un metro e ottanta. Indossavano abiti argentati e in testa avevano elmetti metallici. Ai piedi calzavano stivali neri, come gli zaini che portavano sulla schiena. Dagli zaini, che mi ricordavano quelli di Flash Gordon con dentro i missili, partivano dei tubi collegati agli elmetti.
    Fu tale la sorpresa che, lo ammetto, mi scappò anche una parolaccia... Che sberla, se la mamma mi avesse sentito! Fu così, credo, che quei tre si girarono verso di me: e questa volta lo shock fu ancora maggiore. Le loro facce erano protette da una visiera di vetro e non assomigliavano a nulla che avessi mai visto prima. Avevano occhi neri, sottili, e una fessura al posto del naso, ma non vidi nessuna bocca.
    "Albert me l'aveva detto di non andare a zonzo nei cortili", gemetti.
    Il tipo che stava in mezzo era un pochino più alto degli altri due. Fece un passo avanti ed emise una specie di buffo gorgoglio, come quello dell'acqua sporca quando finisce nello scarico. Non mi fermai a chiedere se poteva ripetere perchè non avevo capito quello che aveva detto: preferii darmela a gambe.
    Anche Albert stava correndo verso la tana, e benchè al solito corresse più veloce di chiunque altro del nostro gruppo, lo superai di slancio. I miei scarponi fecero scintille sull'acciottolato mentre giravo l'angolo della nostra strada.
    "Forza, Henry! Lo stai battendo!", gridò qualcuno.
    "Ma dove sta andando?", chiese il piccolo Eddie, mentre sorpassavo, ignorandolo, il palo della luce e mi precipitavo in casa. Mi tolsi gli stivali, aprii la porta e via, su per le scale come un topo con la coda in fiamme! Senza perder tempo ad armeggiare con il pigiama mi tuffai sotto le coperte e me ne stetti lì buono buono. Non riuscivo più a smettere di tremare.
    Più tardi sbucò dalla porta la testa di mio padre.
    "Buona notte! Sogni d'oro!", mi disse, come faceva ogni sera.
    Ma io avevo le mascelle troppo contratte per rispondergli. "dorme", sussurrò alla mamma, mentre si avviavano verso la loro camera.
    Dormire?
    Ero convinto che non avrei più dormito per il resto della mia vita.
    Tuttavia, probabilmente, col tempo avrei dimenticato tutto, e mi sarei convinto che si era trattato solo di uno strano sogno, se il giorno dopo, a scuola, il maestro non avesse parlato del Natale, da cui ci separavano solo cinque settimane. Quando arrivò ai tre Re Magi e alla loro visita al piccolo Gesù nella stalla, io gridai:
    "Io li ho visti!"
    Non so perchè lo dissi. Le parole mi uscirono da sole. "Ho visto i tre Re Magi in un cortile di Corporation Road".
    All'inizio il maestro mi minacciò, dicendo che le avrei prese se avessi continuato a scherzare su certe cose. Io però cominciai a raccontargli tutto, senza più riuscire a fermarmi. Devo essere stato convincente, perchè tutta la classe se ne stette zitta ad ascoltarmi.
    In qualche modo la notizia arrivò ai giornali, perchè la sera dopo, mentre stavo mangiando un po' di pane e marmellata con una tazza di tè, venne un giornalista a intervistarmi. Ebbi l'onore di una foto sul giornale. Altre persone scrissero per dire che in quella stessa sera avevano avvistato nel cielo delle strane luci. Per diversi giorni i miei compagni non parlarono d'altro.
    La gloria, però, fu di breve durata. I giornali si occuparono del caso ancora per qualche tempo, ma prima di Natale era già tutto dimenticato. Anche se si verificò un ultimo avvenimento strano che ancora oggi sono certo che non si trattò solo di una fantasticheria infantile.
    Due giorni dopo Natale sentimmo bussare alla porta. Mio padre era ancora a casa per le vacanze e se ne stava seduto in poltrona con la pipa in bocca e i piedi vicino al caminetto, mentre la mamma sferruzzava per lui un nuovo paio di calze. Il suo modo di cacciare i piedi fin dentr il camino rendeva indispensabile provvedere ad un continuo rifornimento.
    "Chissà chi può essere", disse la mamma.
    "C'è solo un modo per scoprirlo", disse mio padre, senza accennare a muoversi.
    La mamma appoggiò il lavoro a maglia, guardò storto papà e andò ad aprire. Sentì delle voci nel corridoio. "Mrs Towler?", chiese qualcuno. Era una voce meccanica, cigolante, con un accento strano. "Siamo del Ministero della Guerra. Vorremmo scambiare due parole con il piccolo Henry".
    "Ma certo, prego", disse la mamma, e li fece accomodare in sala. Erano due uomini vestiti di nero. C'era qualcosa, in loro, che mi fece rabbrividire, benchè fossi seduto sul tappeto di fronte al fuoco. Stavo giocando con il mio regalo di Natale: un trenino di legno con tanti vagoni.
    La mamma prese due sedie dal tavolo da pranzo e i due si sedettero. Erano dritti e impettiti come gli schienali su cui si appoggiavano, e pallidi come la luce della lampada a gas. I loro occhi erano più gelidi dell'inverno. Uno dei due posò una scatola nera sul tavolo, mentre l'altro lentamente cominciò a parlare.
    "Dunque, Henry", disse. Le sue labbra si muovevano appena. Erano lucide, color rosso scuro, e avevano un potere ipnotizzante. Non riuscivo a distogliere lo sguardo. "Hai raccontato un sacco di storie ai giornali, a quanto pare?"
    "Sì, signore."
    "Ma non storie vere", continuò l'uomo, e la sua voce meccanica si fece più bassa e minacciosa. "Li hai messi nel sacco".
    "Un momento! Il nostro Henry è un ragazzino scatenato, ma non dice bugie", attaccò mio padre, ma improvvisamente chiuse la bocca e sembrò sul punto di soffocare. Notai che la mamma sembrava congelata, i ferri da maglia immobili nelle mani rigide.
    "In realtà, Henry", riprese l'uomo, "ti sei addormentato. E hai solo sognato di essere uscito a giocare e di avere incontrato degli strani uomini vestiti d'argento".
    "Non è vero!", protestai.
    "E' così, invece", insistette l'uomo. "Ti sei inventato tutto per giustificare la tua uscita sui tre Re Magi. Il maestro si era arrabbiato e tu hai tirato fuori questa storia".
    "No! Mi hanno visto tutti. Sono tornato a giocare dopo che mi ero coricato dieci minuti".
    "E' così, allora! Hai disubbidito ai tuoi genitori! Hai inventato questa storia per non essere punito dopo che te ne eri uscito di nascosto!", disse l'uomo, questa volta a voce molto alta.
    "No!", gridai.
    "Sì, invece! Non hai idea del panico che puoi creare tra la gente diffondendo queste stupide voci sui tuoi avvistamenti di alieni? Per fortuna nessuno crederà alle parole di un bambino!", disse ancora l'uomo, mentre la sua voce si riduceva a un sussurro. Il rosso delle sue labbra cominciava a scolorire, come se si trattasse di rossetto. La sua faccia era contratta, sbilenca.
    "E' tutto vero!", mormorai quasi in lacrime.
    All'improvviso si alzò e disse: "Andiamo, 376". Anche il suo compagno con la scatola nera si alzò: insieme i due riguadagnarono l'uscita. La porta sbattè e non li vedemmo mai più.
    La mamma scosse la testa ed esclamò: "Bene! Mi metterò ai piedi della scala!"
    Il papà guardò la sua pipa spenta e sbattè le palpebre come ridestandosi da uno stato di torpore. "Che cosa?", disse.
    Nel corso di tutti questi anni mi è accaduto talvolta di dubitare di quello che ho visto, quella sera, in Corporation Road. Ma il ricordo della visita di quei due uomini vestiti di nero mi convince ogni volta di più che avevo effettivamente visto qualcosa. Qualcosa che non avrei dovuto vedere.
    Qualcosa che proveniva da un altro mondo.
    E anche se dovessi vivere per altri settant'anni, non dimenticherò mai la notte in cui ho incontrato i tre Re Alieni.
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