Posts written by Franco Pelella

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    Da vari anni Vincenzo De Luca sostiene che la Regione Campania è all’avanguardia in Italia in termini di efficienza. L’ha detto anche venerdì scorso a Napoli nel corso della prima giornata di “Repubblica delle idee”. Noi non siamo convinti di ciò. Riteniamo che l’emiro menta sapendo di mentire. Per questo motivo abbiamo cercato su Internet le ultime ricerche che valutano, sulla base di uno studio scientifico dei dati, l’efficienza delle regioni. Ecco quello che è venuto fuori.

    1) RATING QUALITATIVO 2020 DELLE REGIONI SECONDO LA FONDAZIONE ETICA

    La Fondazione Etica, è una fondazione nazionale, indipendente e no-profit, costituitasi a Milano nel 2008. È un centro di ricerca che unisce studio, progettualità e attività pratiche.
    La finalità dell’ analisi “Il rating qualitativo delle regioni” è misurare e comparare la trasparenza, integrità ed efficienza delle Regioni italiane: effettuata nel primo semestre 2020, essa si basa sui dati pubblicati dalle Regioni stesse sui rispettivi siti web in base agli obblighi di pubblicazione stabiliti dalla norme vigenti. Si tratta di dati aggiornati al 2019 o, ad esempio nel caso dei dati di bilancio, al 2018.
    L’obiettivo del Rating Pubblico è diagnosticare lo stato di salute delle PA – e in questo caso specificamente delle Regioni - arrivando a mapparne capacità istituzionale e qualità della spesa pubblica. Il Rating Pubblico fornisce una base conoscitiva oggettiva su cui incardinare una seria “due diligence” delle Pubbliche Amministrazioni da parte dei Governi e, da lì, un’azione di miglioramento del loro rendimento complessivo.
    Per far questo, il Rating Pubblico valuta non le politiche, ma la macchina amministrativa che quelle politiche produce. Analizza, in un’ottica di sostenibilità ESG (Enviromental, Social, Governance), sei aree relative alla capacità amministrativa delle Amministrazioni Pubbliche: Bilancio, Governance, Gestione del personale, Servizi e rapporto con i cittadini, Appalti e rapporto con i fornitori, Ambiente.
    Il quadro che esce dall’analisi comparata delle Regioni sulla base del Rating Pubblico sembra confermare sostanzialmente quello dell’analisi 2018, ma con alcune variazioni significative.
    Tra queste, merita una segnalazione positiva quella riguardante tre Regioni del Sud - Molise, Basilicata e Puglia – che, pur ottenendo anche nel 2020 un Rating Pubblico sotto la sufficienza, dimostrano un trend di miglioramento rispetto al passato: alla luce dei loro dati economici di contesto non era scontato.
    ll Nord e il Centro Italia occupano la parte alta del ranking del Rating Pubblico, mentre il Sud si concentra totalmente nella parte bassa, con cinque Regioni in classe di Rating Weak e tre in Poor. La terzultima, in Rating Poor, è la Campania.

    2) EDIZIONE 2021 DEL PROGETTO “LE PERFORMANCE REGIONALI” DEL C.R.E.A. SANITÀ

    Pubblicata nel 2021 la nona edizione dell’analisi delle ‘Perfomance regionali’. Il ranking è frutto di una metodologia di valutazione multidimensionale e multiprospettica da parte di 124 esperti, che “media” le preferenze di stakeholder del sistema, appartenenti alle categorie Utenti’, ‘Istituzioni’, ‘Professioni sanitarie’, ‘Management aziendale’ e ‘Industria medicale’, su 5 Dimensioni: Sociale (equità), Esiti, Appropriatezza, Innovazione ed Economico-Finanziaria.
    Il ranking è frutto di una metodologia di valutazione multidimensionale e multiprospettiva, che “media” le preferenze di stakeholder del sistema, appartenenti alle categorie Utenti’, ‘Istituzioni’, ‘Professioni sanitarie’, ‘Management aziendale’ e ‘Industria medicale’, su 5 Dimensioni: Sociale (equità), Esiti, Appropriatezza, Innovazione ed Economico-Finanziaria.
    Nel 2021 (IX edizione del progetto) le preferenze sono state elicitate con il contributo di un Panel di esperti/stakeholder composto da 124 componenti.
    I risultati. Le sei Regioni migliori (P.A. di Bolzano, P.A. di Trento, Emilia Romagna, Lombardia, Toscana e Veneto) hanno una Performance valutata tra il 48% ed il 61% del massimo ottenibile: se ne desume che le aspettative del Panel sono che le Performance attuali possano essere ancora significativamente migliorate; le dimensioni più “critiche” risultano essere Innovazione e Appropriatezza. Altre 7 Regioni hanno livelli di Performance abbastanza omogenei, ma inferiori, compresi nel range 41-45% del livello ottimale (Friuli Venezia Giulia, Liguria, Piemonte, Lazio, Umbria, Valle d’Aosta e Marche). Seguono altre 7 Regioni, Sardegna, Basilicata, Sicilia, Puglia, Campania, Abruzzo e Molise dove la Performance si attesta nel range 28-36%. Infine, abbiamo la Calabria che registra un livello di Performance pari al 21%.

    3) VERIFICA 2021 DELL’EROGAZIONE LIVELLI ESSENZIALI DI ASSISTENZA DA PARTE DEL MINISTERO DELLA SALUTE

    Il Comitato permanente per la verifica dell’erogazione dei Livelli Essenziali di Assistenza (Comitato LEA), istituito presso il Ministero della salute, ha il compito di monitorare l’erogazione dei LEA da parte delle Regioni, verificando che si rispettino le condizioni di appropriatezza e di compatibilità con le risorse messe a disposizione per il Servizio Sanitario Nazionale (SSN).
    A tal fine, il Comitato predispone annualmente il c.d. “Questionario LEA”, compilando il quale le Regioni sottoposte a verifica (Regioni a statuto ordinario e Sicilia) devono a fornire le informazioni relative agli adempimenti cui sono tenute ai fini dell’accesso al maggior finanziamento delle risorse destinate al SSN (c.d. “quota premiale”).
    Il Questionario LEA riporta gli adempimenti riferiti agli articoli 1, 3, 4, 10 e all’allegato 1 dell’Intesa 23 marzo 2005, ai quali si aggiungono tutti quelli fissati da Leggi successive, Accordi e Intese in Conferenza Stato-Regioni e altri atti di programmazione sanitaria.
    Il Comitato LEA certifica l’avvenuta adempienza delle Regioni con riferimento agli adempimenti di propria competenza; tale certificazione costituisce il presupposto per la verifica finale degli adempimenti, che viene effettuata dal Tavolo tecnico istituito presso il Ministero dell’economia e delle finanze ai fini dell’accesso alla quota premiale.
    A supporto delle attività di affiancamento, verifica e monitoraggio, nonché per razionalizzare l’invio della documentazione, pervenuta dalle Regioni o prodotta in fase d’istruttoria, è reso disponibile dal Ministero della Salute il sistema di gestione documentale dedicato “Si.Ve.A.S. – Gestione documenti dei Piani di rientro e del Comitato LEA".
    L'ultima verifica adempimenti LEA disponibile si riferisce all’anno 2019. Le Regioni oggetto di verifica sono 16: quelle a statuto ordinario più la Sicilia.
    Sono stati certificati 42 adempimenti, di cui alcuni articolati in più sezioni, per un totale di 98 valutazioni, che sottendono alle aree tematiche inerenti il Sistema Sanitario Regionale. Le attività di verifica, avviate ad ottobre 2020, si sono concluse positivamente per le Regioni Basilicata, Emilia Romagna, Liguria, Lombardia, Marche, Piemonte, Puglia, Toscana, Umbria, Veneto e, da ultimo, per il Lazio in occasione della verifica del Piano di rientro tenutasi il 21 aprile 2022. In alcuni casi, l’adempienza è assegnata chiedendo alla Regione l’assolvimento di uno specifico impegno, il cui superamento viene accertato in occasione della verifica dell’annualità successiva.
    Per le Regioni Abruzzo, Calabria, Campania, Molise e Sicilia, che presentano ancora criticità negli adempimenti 2019, la verifica prosegue nell’ambito delle riunioni di monitoraggio dei Piani di rientro effettuate trimestralmente.
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    Le inchieste giudiziarie stanno facendo emergere una parte del Partito democratico gestita in modo affaristico e clientelare; si passa dai cinquanta euro pagati in Puglia per un voto ai possibili intrecci con la ‘ndrangheta in Piemonte. La mia opinione è che questi due casi sono estremi e che le altre forze politiche spesso sono gestite peggio. Essi non rispecchiano la gestione normale del partito che è fatta anche di clientelismo, scambi di favori e signori delle tessere ma di solito non arriva alla compravendita dei voti o alla collusione con la criminalità. C’è sicuramente una rapporto col mondo delle imprese. Le amministrazioni locali gestite dal Pd sono storicamente legate soprattutto al mondo delle cooperative da un rapporto di do ut des. Anche il rapporto con la criminalità è caratterizzato da rapporti non sporadici ma si tratta di rapporti che avvengono sottotraccia, non alla luce del sole. La regola è il contenimento, cioè il confronto/scontro che evita ai delinquenti di oltrepassare certi limiti.
    Ci sono, però, dei casi in cui il clientelismo e il rapporto con la criminalità vengono considerati normali e sbandierati come tali. Famoso è il caso della “frittura di pesce” quando, nel 2016, Vincenzo De Luca chiese apertamente agli dirigenti del Pd della Campania di fare ricorso al voto clientelare per far passare il referendum sulla riforma costituzionale voluto da Matteo Renzi. Più recentemente Michele Emiliano ha raccontato di aver accompagnato, qualche anno fa, Antonio Decaro, allora assessore del Comune di Bari, presso la casa della sorella di un boss e di aver chiesto di lasciarlo lavorare. Non a caso De Luca è stato anche accusato di avere rapporti con la criminalità quando, alcuni anni fa, è scoppiato lo scandalo del “Sistema Salerno” mentre Emiliano è stato anche accusato, da più parti, di avere un comportamento clientelare. Sono casi limite che evidenziano il fatto che De Luca ed Emiliano considerano normale, tanto da essere sbandierato, quello che non dovrebbe esserlo. In questo sta, soprattutto, la differenza dei cacicchi come De Luca ed Emiliano rispetto agli altri dirigenti del Pd: non si preoccupano molto di nascondere e di delimitare un comportamento che non dovrebbe essere normale per un dirigente di un partito di sinistra mentre gli altri dirigenti non sbandierano questi comportamenti.
    Il ricorso al clientelismo e il confronto/scontro con la criminalità fanno, quindi, parte della quotidianità della politica ma sono comportamenti che vanno delimitati e, se possibile, eliminati. Nel momento in cui essi vengono esibiti pubblicamente provocano un’inevitabile squalifica di chi li pratica e del partito cui appartengono. E’ questo il motivo di fondo per cui Elly Schlein fa bene a combattere De Luca ed Emiliano.
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    Tutti vogliamo la pace. Sono pochi nel mondo quelli che non la vogliono. Soprattutto a noi europei, che a partire dalla fine della seconda guerra mondiale abbiamo vissuto circa 80 anni di pace, sembra naturale vivere senza guerre. Eppure in questo periodo nel mondo le guerre ci sono state e ci sono ancora. Con esse bisogna, purtroppo, fare i conti perché esse, alcune in particolare, ci coinvolgono. Soprattutto bisogna fare i conti con le guerre che nascono da una volontà di aggressione di una nazione nei confronti di un’altra. Di fronte a questo tipo di guerre non si può semplicemente dire che si è per la pace, bisogna inevitabilmente solidarizzare con una delle parti in conflitto. Ad esempio, nel caso della guerra tra Russia ed Ucraina è chiaro che c’è una nazione che aggredisce ed una che è aggredita. In questo caso dire che si è per la pace senza considerare il diritto degli aggrediti di difendere il loro territorio sembra un modo di lavarsi le mani. Eppure sempre più persone, in Europa e in Italia, dicono di essere per la pace e intravedono un modo per favorire la pacificazione nel non inviare più armi agli ucraini. Questo atteggiamento a me sembra profondamente sbagliato. Può essere comprensibile, a questo proposito, l’atteggiamento della Chiesa cattolica che ha una tradizione pacifista e non violenta millenaria e che mette per questo motivo poco l’accento sulla necessità di difendersi da parte di chi è aggredito. E’ molto meno comprensibile l’atteggiamento della sinistra radicale e dei populisti. La sinistra radicale sconta un vecchio pregiudizio nei confronti degli Stati Uniti e della Nato, considerati soggetti aggressivi senza tenere conto che sono passati vari decenni dalle loro ultime guerre aggressive mentre lo scettro dell’atteggiamento aggressivo è passato in altre mani, in particolare nelle mani della Russia. Il pacifismo di questa sinistra è legato a vecchi pregiudizi e non tiene, quindi, conto della nuova realtà. Essa non si rende conto che la decisione degli ucraini e dei Paesi Nato di resistere ai russi è venuta dopo vari anni di laisser faire, anni nel corso dei quali la Russia ha potuto liberamente dispiegare il suo aggressivismo in Crimea, in Siria, in Africa e altrove. Un discorso a parte meritano i populisti (in Italia i Cinque Stelle) i quali fanno i pacifisti senza avere la storia e le motivazioni della sinistra radicale. Essi danno la sensazione, anche in questo caso, di cercare il consenso popolare piuttosto che la difesa concreta e attiva di principi di giustizia e di libertà. Purtroppo l’azione congiunta della Chiesa cattolica, della sinistra radicale e dei populisti sta orientando gran parte dell’opinione pubblica europea verso un disimpegno nei confronti dell’Ucraina. E’ un’eventualità che bisogna temere e combattere perché non deve passare il principio secondo cui l’aggressore prevale sull’aggredito anche grazie al non intervento di coloro che potrebbero/dovrebbero intervenire in aiuto di chi sta per soccombere.
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    Da parecchi mesi alcuni esponenti politici e intellettuali di sinistra (ad esempio Michele Santoro e Massimo Cacciari) rimproverano l’Occidente (Stati Uniti e Unione europea) di non fare abbastanza per far finire la guerra in Ucraina e, di conseguenza, di non lavorare per la pace. Essi sostengono che va trovata assolutamente una soluzione lasciando intendere che l’Ucraina dovrebbe rinunciare ad alcuni suoi territori per evitare che la Russia continui la guerra e che il conflitto rischi di allargarsi fino ad una distruttiva guerra mondiale di tipo nucleare. Ma sostengono anche che il concetto di “guerra giusta” (cioè la difesa attiva dell’aggredito nei confronti dell’aggressore) è stato superato dal rischio di un conflitto nucleare innescato da questo tipo di autodifesa. Hanno ragione coloro che ragionano in questo modo? Io credo di no. Dando un valore assoluto al concetto di “pace” essi danno molto meno valore del dovuto al concetto di “guerra giusta”. Insistendo solo sulla pace essi in pratica fanno il gioco degli aggressori perché fanno intuire che ogni altro aspetto dei conflitti internazionali va messo in secondo piano e che quindi in certi casi le aggressioni possono essere giustificate. Quando essi parlano del rischio di un conflitto mondiale di tipo nucleare sollevano un problema reale ma sbagliano nel sostenere che i Paesi occidentali non tengono nel dovuto conto questo rischio. Cosa stanno facendo i Paesi occidentali che inviano in Ucraina solo armi e non soldati? Stanno cercando di opporsi all’aggressore russo evitando azioni eclatanti che potrebbero far scoppiare un conflitto globale. Ma secondo me questi politici e intellettuali sbagliano anche su altri aspetti del conflitto russo-ucraino in corso. Visto che all’Ucraina non viene fornito tutto il sostegno di cui avrebbe bisogno per opporsi decisamente all’aggressione russa sono posizioni assurde quelle di coloro che sono contrari all’invio di armi in quel Paese; in questo modo essi implicitamente fanno capire che l’Ucraina va lasciata al suo destino. Ma sbagliano anche quando sono contrari ad un aumento delle spese per la difesa da parte dei Paesi europei; in questo modo essi sottovalutano il rischio di un’aggressione russa che è invece molto reale e che ha più probabilità di essere evitata assumendo un atteggiamento deciso e non sottomesso. Qual è la conclusione del discorso? Che è giusto che continui la guerra con il rischio costante di un allargamento del conflitto a livello mondiale? No. E’ opportuno che gli sforzi diplomatici proseguano e si intensifichino. Ma a me (a molti altri no) sembra evidente che per i governi occidentali è decisivo l’atteggiamento degli ucraini; fino a quando essi riterranno opportuno difendere tutto il loro territorio verranno sostenuti attivamente. La situazione cambierebbe molto nel momento in cui essi dovessero far capire che sono disposti a fare delle rinunce significative, tali da portare alla sospensione o alla fine del conflitto.
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    Al ministro per le Riforme Roberto Calderoli non va giù il risultato finale delle elezioni comunali ad Udine, dove il candidato del centrosinistra Alberto De Toni ha sconfitto il sindaco leghista uscente Pietro Fontanini (53% a 47%) ribaltando nel secondo turno i risultati di quindici giorni prima, quando era finita con un 46% a 39% per Fontanini. Ecco quello che ha affermato sostanzialmente in un’intervista (CESARE ZAPPERI: “Via il ballottaggio. Tradisce il consenso. E nel 2024 voto diretto per le province”; Corriere della Sera, 21/4/2023) : “Il primo problema è la bassa affluenza; abbiamo una tessera che vale per una ventina di elezioni, ma spesso non sai più nemmeno dove l'hai messa e così molti cittadini non sanno che devono andare a votare. Il caso di Udine è emblematico; chi ha vinto ha preso meno voti di quanti ne aveva presi il sindaco uscente al primo turno ma così non viene rispettata la volontà popolare. I cittadini si sono già espressi una volta, non capiscono perché devono essere costretti a tornare ai seggi dopo due settimane; così non vince chi ha il consenso ma chi ha più capacità di mobilitazione degli iscritti e dei simpatizzanti. Il sistema elettorale migliore è quello delle Regionali che di norma è su un unico turno, con premio di maggioranza per chi supera il 40%”.
    E’ vero che c’è un problema generale di bassa affluenza alle urne ma sollevarla a proposito dell’utilizzo del doppio turno per l’elezione dei sindaci è un fatto evidentemente strumentale; in occasione del secondo turno di solito vanno a votare meno elettori soprattutto perché tutti coloro che erano candidati per essere eletti consiglieri comunali e che non sono stati eletti hanno molto meno interesse a sollecitare al voto i cittadini. Il risultato è che vanno a votare quasi esclusivamente i cittadini che sono più sensibili dal punto di vista politico e quindi viene eletto il sindaco che ha veramente il maggiore consenso popolare; non si tratta, quindi, di una maggiore capacità di mobilitazione di iscritti e simpatizzanti da parte di chi vince ma del fatto di poter contare sul consenso della parte più sensibile, dal punto di vista politico, della popolazione. Chi va a votare in occasione del secondo turno lo fa in modo pienamente convinto e non perché deve sostenere elettoralmente l’amico o il parente candidato; quindi va mantenuta la legge che prevede il doppio turno per l’elezione dei sindaci nei comuni sopra i 15 mila abitanti perché è una legge che funziona dal punto di vista democratico. Essa è più democratica del sistema elettorale delle elezioni regionali che di norma è su un unico turno, con premio di maggioranza per chi supera il 40%, ma funziona anche dal punto di vista pratico perché da molti anni garantisce la stabilità della vita amministrativa dei Comuni rendendo molto meno frequente che in passato lo scioglimento dei consigli comunali e il ricorso a nuove elezioni.
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    INTRODUZIONE

    La scelta di puntare l’attenzione sul rapporto tra il padronato dell’industria di trasformazione della Piana del Sele e la politica è nata dal fatto che negli ultimi 60 anni attorno alle figure padronali ruotò molta della storia economica e politica della Piana del Sele; nella Piana del Sele il rapporto tra padronato industriale e politica fu, fin dalla nascita delle prime industrie, molto stretto e ciò derivò in primo luogo dal potere egemonico che il possesso dell’industria conferiva ai padroni in una provincia depressa dal punto di vista economico.
    Gli elementi che resero possibil0e il perpetuarsi del rapporto tra il padronato industriale e la politica nel corso degli anni furono sostanzialmente due: il rapporto con lo Stato e lo sfruttamento politico degli operai. Il rapporto con lo Stato fu decisivo per la nascita della prima industria della Piana del Sele, quella dei tabacchifici; esso si perpetuò, poi, nel tempo con interventi vari a sostegno dell’iniziativa industriale. Per gli industriali conservieri (che, in gran parte, possiamo definire padroncini se rapportati al padrone dei tabacchifici) il rapporto con lo Stato ebbe fasi diverse. Le loro industrie nacquero come iniziative economiche non sovvenzionate dallo Stato e il bisogno dell’intervento dello Stato subentrò successivamente, nel secondo dopoguerra, in seguito alla crisi che le colpì; in questo caso il bisogno di un aiuto economico spinse una parte dei padroncini ad allacciare un rapporto con il personale politico allora dominante, in primo luogo Carmine De Martino, il padrone dei tabacchifici. Ciò consentì loro di portare avanti le iniziative industriali. Altri padroncini dell’industria conserviera non usufruirono di interventi statali a causa dei dissensi con gli uomini politici locali esponenti dei partiti di governo; ciò comportò la fine delle loro iniziative industriali. Ma l’utilizzo dell’intervento statale fu praticato anche dall’industria pubblica del tabacco e dall’industria conserviera di proprietà dell’Ente che gestì la riforma agraria nella zona; in questo caso il rapporto con la politica fu utilizzato dai nuovi padroni pubblici, specialmente i funzionari locali.
    Lo sfruttamento politico degli operai fu l’altro elemento decisivo nel consentire un rapporto tra il padronato e la politica; in questo caso il fattore predominante fu quello della stagionalità della lavorazione sia nei tabacchifici che nelle industrie di trasformazione. Il consenso politico ai vari padroni fu una conseguenza diretta delle contrattazioni annuali delle assunzioni che conferiva un grosso potere di ricatto nei confronti degli operai. La veridicità di quanto affermato è provata dalla rottura del rapporto politico tradizionale tra padronato e operai che avvenne in seguito alla fine della stagionalità della lavorazione nell’industria pubblica del tabacco; la fine della stagionalità provocò anche la fine della contrattazione annuale delle assunzioni e quindi dell’opportunità di un rapporto politico di predominanza dei padroni nei confronti degli operai.
    Un’altra caratteristica del rapporto tra il padronato delle industrie di trasformazione della Piana del Sele e la politica fu quello di essere molto diretto, nel senso che quasi sempre i padroni ricoprirono anche un preciso ruolo politico; questo ruolo fu di primo piano nel caso del padrone dei tabacchifici, data l’influenza politica da lui esercitata sia a livello provinciale che a livello nazionale e di secondo piano nel caso dei padroncini e dei dirigenti dell’industria dell’Ente dato che essi esercitarono un’influenza politica solo a livello locale. Ma va aggiunto anche che ad una prima fase in cui il padronato era il quasi esclusivo rappresentante del potere politico nella Piana del Sele fece seguito una seconda fase, negli anni ’60, nella quale entrarono in scena altri soggetti sociali provenienti dalle fila delle classi medie di origine rurale e urbana formatesi di recente nella zona, una zona nella quale ci furono prima la bonifica integrale e la riforma agraria e poi una crescente urbanizzazione; la presenza di questi soggetti, e la loro non adeguata rappresentanza politica, fu uno dei motivi della crisi del rapporto tra padronato e politica dato che il padronato non fu più in grado di rappresentare né i propri interessi né gli interessi generali della popolazione locale.


    PARTE PRIMA: IL PADRONATO PRIVATO

    CAPITOLO PRIMO: IL VECCHIO PADRONATO: GLI AGRARI ALLEVATORI

    Gli agrari a un bivio

    Le lotte per la terra dei contadini ex combattenti della prima guerra mondiale della Piana del Sele (1) furono il fattore più rilevante nel mettere in evidenza, nel primo dopoguerra, l’incrinarsi dell’egemonia secolare degli agrari allevatori sulle altre figure sociali della zona; ciò che le lotte contadine per la terra evidenziarono in primo luogo fu la crisi dei rapporti di produzione fondati sulla rendita. Il prevalere di questi rapporti aveva infatti determinato, assieme ad una sostanziale staticità dell’economia, anche l’accumulazione di una sovrappopolazione sempre meno controllabile nei suoi effetti esplosivi; nacque così l’esigenza di radicali cambiamenti nei rapporti di produzione. Negli anni ’20 furono introdotte nuove iniziative economiche non più fondate sulla rendita ma sul profitto; nacquero alcune industrie di trasformazione dei prodotti agricoli come i tabacchifici e le industrie conserviere (2). Ed è significativo il fatto che alcuni dei promotori di queste iniziative non furono gli agrari allevatori della zona ma altri soggetti, sia di origine locale che extra-locale (3).
    Gli agrari allevatori furono comunque presenti in alcune delle nuove iniziative economiche ma non come promotori bensì come compartecipanti. Nel caso dei tabacchifici, per esempio, introdotti dalla società SAIS (Società Agricola Industriale Salernitana) a partire dal 1918, la loro presenza fu dovuta al fatto che i soggetti di origine locale ed extralocale, che furono i reali promotori della società, non avevano i capitali necessari per mandare avanti l’iniziativa; al contrario gli agrari allevatori avevano la possibilità di introdurre nella SAIS sia i loro capitali sia il decisivo intervento dello Stato attraverso le concessioni speciali del Monopolio per il tabacco (4). Lo stesso discorso può essere fatto per le opere di bonifica integrale. Il senatore del Partito popolare Mattia Farina era proprietario o affittuario di oltre 1300 ettari nella parte della Piana situata sulla riva destra del fiume Sele nel territorio degli attuali Comuni di Pontecagnano Faiano, Battipaglia e Montecorvino Rovella; egli nel 1923 costituì assieme all’ingegnere milanese Antonio Valsecchi la società Farina Valsecchi & C. per la bonifica e l’irrigazione delle terre della Piana. e nel 1927 la società si trasformò in Società anonima delle bonifiche (SAB). Anche altri agrari allevatori entrarono a far parte della SAB (5), ma chi in realtà gestì la bonifica fu l’ingegnere Valsecchi. Essi, anzi, tentarono di impedire il completamento dei lavori di bonifica intrapresi sui loro terreni (6); il contributo da loro dato in questa occasione fu soprattutto quello di sollecitare l’intervento dello Stato che destinò notevoli capitali per la bonifica.
    Gli esempi dei tabacchifici e della bonifica dimostrano che agli inizi del ventesimo secolo gli agrari allevatori della Piana del Sele, ma sicuramente anche gli agrari di altre zone dell’Italia, ebbero un ruolo politico che prevaleva sul loro ruolo economico; grazie al loro potere politico essi potevano far intervenire in modo consistente lo Stato nelle nuove iniziative economiche. Una conferma di questo discorso è il grande peso politico che gli agrari allevatori della Piana del Sele ebbero durante il ventennio fascista anche se essi non furono, come in altre zone d’Italia, i principali promotori del fascismo; essi ricoprirono alcune delle più importanti cariche pubbliche e di partito dell’intera provincia di Salerno (7) e il loro più importante esponente fu Senatore del Regno (8).
    Il controllo economico dei tabacchifici da parte degli agrari allevatori consentì loro di avere un controllo politico sia del mercato del lavoro agricolo sia del mercato del lavoro industriale attraverso la contrattazione periodica con i contadini dei quantitativi di tabacco greggio da trasformare e con gli operai dell’occupazione stagionale all’interno dei tabacchifici; è assai significativa la sostanziale identificazione della direzione dei tabacchifici con il partito fascista (9), tanto è vero che in qualche caso il pagamento dei salari agli operai avveniva nelle sedi locali del partito (10).

    Gli agrari e lo Stato

    Gli stretti rapporti tra gli agrari e lo Stato non furono sempre così palesi come durante il ventennio fascista dato che a partire dall’Unità d’Italia lo Stato si era caratterizzato in senso garantista piuttosto che interventista; il garantismo bastava per salvaguardare il rapporto sociale egemonico esercitato dagli agrari nei confronti delle altre figure sociali. La rendita era l’elemento centrale nell’assicurare l’egemonia (11) e il compito dello Stato era quello di garantire il quadro legislativo all’interno del quale essa potesse essere meglio sfruttata da parte degli agrari; ciò avvenne o mediante la legittimazione di situazioni di fatto come nel caso, all’indomani dell’Unità d’Italia, dell’usurpazione degli usi civici (12) oppure mediante la concessione di notevoli agevolazioni economiche, come nel caso dei bassi canoni d’affitto pagati durante e dopo la prima guerra mondiale dagli agrari ai municipi locali per usufruire dei terreni demaniali (13).
    La situazione cambiò totalmente con l’avvento del fascismo. La crisi economica rese urgente un intervento diretto dello Stato nell’economia, un intervento che fu sollecitato soprattutto dagli agrari, ma nella Piana del Sele le figure sociali che seppero gestire meglio l’intervento statale, utilizzandolo produttivamente, furono i nuovi padroni dei tabacchifici e delle industrie conserviere (14); paradossalmente lo Stato ebbe il ruolo di principale fattore di crisi della rendita (15) e la funzione di legittimazione del ruolo politico ed economico degli agrari allevatori si tramutò nel suo contrario.
    La delegittimazione produsse i suoi effetti già a partire dal periodo fascista quando gli agrari allevatori persero il controllo della SAIS e della SAB a favore delle nuove figure imprenditoriali emergenti nel seno stesso di queste società (16); ma è con la ricostruzione successiva alla seconda guerra mondiale, gestita in prima persona da Carmine De Martino, il nuovo padrone dei tabacchifici (17), che si registrò il primo forte segnale di un’irrimediabile frattura tra agrari e Stato. La conferma venne dallo scarso peso politico esercitato dagli agrari nell’immediato dopoguerra (18) mentre il nuovo padrone, che aveva preso il loro posto nell’intrattenere rapporti privilegiati con lo Stato, ottenne anche un grosso successo politico (19).
    Ma il vero e proprio salto di qualità avvenne con la Riforma agraria, avviata nel 1950; tale riforma costituì, infatti, il primo intervento dello Stato direttamente contrario agli interessi degli agrari e, quindi, il punto di massima delegittimazione del loro ruolo economico (20); nella Piana del Sele i cospicui indennizzi concessi dallo Stato agli agrari allevatori furono utilizzati quasi esclusivamente per la speculazione, sia mobiliare che immobiliare (21).

    Gli agrari e il profitto

    Nella Piana del Sele all’inizio del ventennio fascista la rendita e il profitto convissero senza significativi contrasti (22); ci fu una sostanziale convergenza di interessi tra gli agrari allevatori e le nuove figure imprenditoriali emergenti all’interno dei tabacchifici mentre gli industriali conservieri provenienti dal Nord, invece, si chiusero all’interno del loro ambito economico e intaccarono solo marginalmente i principali rapporti politici ed economici già esistenti (23). Invece gli agrari allevatori, nonostante il meccanismo di sviluppo dell’agricoltura messo in moto dalle industrie conserviere con la loro crescente domanda di pomodoro (24), continuarono ad esercitare il loro ruolo economico sfruttando la rendita derivante dall’allevamento del bestiame.
    La situazione iniziò a cambiare intorno agli anni ’30 per poi scoppiare dopo la seconda guerra mondiale. Gli agrari allevatori, di fronte all’aumentata attività delle industrie conserviere e ai crescenti interventi di bonifica dei terreni paludosi, ebbero un atteggiamento sempre più critico verso queste iniziative. I contrasti si indirizzarono verso i padroni dell’industria conserviera e verso i nuovi imprenditori agricoli, due figure sociali che risentirono beneficamente dello sviluppo della coltivazione di colture agricole intensive nella zona (25). Nei confronti del nuovo padrone dei tabacchifici non ci furono, invece, significativi contrasti (26); il motivo fondamentale di questo atteggiamento fu, forse, il ruolo di assoluto rilievo ormai da lui ricoperto sia come industriale sia come uomo politico. Il rapporto privilegiato con lo Stato che costui aveva stabilito era un elemento troppo importante perché gli agrari allevatori si potessero permettere una rottura nei suoi confronti. La loro subalternità fu quasi totale; significativa fu anche la loro adesione quasi generalizzata al partito del nuovo padrone, la Democrazia cristiana, negli anni ’50 (27). Ma anche sul piano economico essi ebbero lo stesso atteggiamento di subalternità; ne fu un esempio la loro partecipazione alla SECER, una società immobiliare costituita dal nuovo padrone dei tabacchifici per contribuire alla ricostruzione di Salerno dopo il conflitto bellico (28).


    CAPITOLO SECONDO: IL PADRONE

    Il padrone all’offensiva

    Il cambio della guardia all’interno del padronato industriale di punta della Piana del Sele avvenne, negli anni ’30, in modo non traumatico ma attraverso una sostituzione preparata all’interno dei tabacchifici; sfruttando a dovere le proprie qualità manageriali il padrone riuscì ad acquisire un potere sempre maggiore tanto da diventare, nel giro di pochi anni, il maggiore esponente della SAIM (29). Dopo il secondo conflitto mondiale egli si presentò con le carte in regola per accedere ad un ruolo politico di primo piano; l’opposizione di un importante esponente locale della Democrazia cristiana non riuscì ad impedire il suo ingresso trionfale nella stessa Dc dopo essere stato eletto all’Assemblea Costituente nel 1946 nella lista dell’Unione Democratica Nazionale (30).
    Per avere successo politico il padrone sfruttò sia la mobilitazione elettorale degli impiegati e degli operai dei tabacchifici sia l’appoggio del clero salernitano. Il ruolo politico e il ruolo economico dei dirigenti della SAIM coincidevano (31); in molti casi essi erano diventati tali più per i meriti politici da essi acquisiti in precedenza che per le loro capacità manageriali. A conferma di ciò basta citare il fatto che negli anni ’50 c’era una sostanziale omogeneità tra la composizione della direzione provinciale della Dc e quella del gruppo dirigente della SAIM (32); ciò non costituiva una grossa novità perché già quando essa fu costituita il suo gruppo dirigente si poteva identificare con il gruppo dirigente del Partito Popolare in provincia di Salerno (33). Ma molto incise sul successo politico del padrone anche il paternalismo esercitato nei confronti degli operai; significativo è ancora oggi il buon ricordo che gli ex dipendenti conservano di lui come pure l’attribuzione di tutte le disfunzioni ai dirigenti, ritenuti assai meno onesti e competenti (34). L’elemento, però, più rilevante nel propiziare la sua ascesa politica fu, come già detto, il rapporto privilegiato con le autorità ecclesiastiche da lui intrattenute fin dal primo dopoguerra; fu l’esistenza di questo rapporto a fornirgli la legittimazione necessaria per entrare prima a far parte della Democrazia cristiana e poi per acquisire ulteriori consensi politici. Le autorità ecclesiastiche furono determinanti soprattutto nel consentirgli di acquisire il consenso delle masse rurali della Piana del Sele (35) e il padrone seppe approfittare di questo legame non mancando in svariate occasioni di manifestare il suo personale interessamento per i problemi religiosi; egli fece, infatti, costruire varie chiese oltre a promuovere numerose opere di beneficenza. Oltre a ciò egli favorì in molte occasioni gli Arcivescovi di Salerno dando, ad esempio, la precedenza ai loro raccomandati per le assunzioni all’interno della SAIM (36).
    Ciò che, invece, consentì al padrone di mantenere, dopo averle conquistate, le posizioni di potere raggiunte fu il rapporto con lo Stato. La conquista definitiva di questo rapporto si realizzò nell’immediato dopoguerra quando il suo intervento favorì l’afflusso di una larga fetta di danaro pubblico durante l’opera di ricostruzione post-bellica della provincia di Salerno; il suo ruolo di primo piano nella ricostruzione della città di Salerno, mediante un intervento diretto nella attivazione delle più importanti opere economiche e sociali, e l’utilizzo successivo e spregiudicato della spesa pubblica servì ad evidenziare la subalternità del vecchio e nuovo padronato della provincia nei suoi confronti (37).

    Il padrone e lo Stato

    Il rapporto con lo Stato ha costituito un dato costante nella storia dei tabacchifici della Piana del Sele fin dalla nascita dei primi stabilimenti SAIM negli anni ’20 (38) dato che essi hanno visto la luce solo in seguito all’acquisizione certa della “concessione speciale” del Monopolio di Stato per la lavorazione esclusiva del tabacco nella Piana del Sele (39); per questo motivo fin dai primi anni ’20, con l’assunzione di un ruolo di primo piano nella SAIM in qualità di direttore, il padrone incominciò ad intrattenere un rapporto con i responsabili degli organismi statali collegati al Monopolio del tabacco. In questa fase, però, il rapporto tra padrone e Stato era ancora molto mediato dalla presenza nella società del vecchio padronato agrario il quale, rivestendo ancora un ruolo politico rilevante, controllava i canali principali di comunicazione con le alte sfere statuali. Un rapporto più diretto tra padrone e Stato potè instaurarsi solo in seguito, intorno agli anni ’30; assai significativo fu il fatto che in questo periodo la SAIM allargò notevolmente le sue attività acquisendo, ad esempio, larga parte del demanio di Persano (40).
    Nel secondo dopoguerra il rapporto tra il padrone e lo Stato si incrementò ulteriormente, come già scritto, in occasione della ricostruzione post-bellica della provincia di Salerno; egli assunse un ruolo di primo piano diventando il principale promotore di svariate iniziative come la Mostra della ricostruzione e la società immobiliare SECER ma fu anche il principale gestore politico dei fondi del piano di aiuti economici ERP (41). Approfittando di queste occasioni egli abbandonò in parte il suo ruolo di industriale e diventò anche uomo politico a partire dal 1944, un ruolo che svolse da leader fino alla metà degli anni ’50 (42); grazie al suo rilevante ruolo politico egli rese subalterni a sé sia il vecchio padronato agrario che il nuovo padronato industriale della provincia di Salerno.
    Ma alla fine degli anni ’50 la stella politica del padrone si offuscò; egli fu emarginato all’interno della Dc poiché era il rappresentante dei vecchi e nuovi gruppi padronali della provincia di Salerno e quindi non idoneo a seguire la svolta del “Partito Nuovo” del 1954, un partito rivolto in primo luogo all’acquisizione del consenso della piccola borghesia meridionale (43). E’ significativo il modo in cui emersero, allora, alcune nuove figure politiche nel Salernitano; queste figure, di origine piccolo-borghese, dovettero molto del loro successo politico alla capacità di diventare mediatori del rapporto tra lo Stato e i soggetti sociali emergenti quali i nuovi gruppi industriali provenienti dal Nord, la piccola borghesia di origine cittadina e contadina, e gli imprenditori edili (44).

    Il declino del padrone

    E’ improprio parlare di declino del padrone se con questo termine si vuole intendere una caduta brusca e inattesa di prestigio da parte sua; lo testimonia il fatto che nel momento della sua morte, nel 1963, egli era ancora uno dei leader della Dc salernitana oltre che un imprenditore di grosse risorse (45). Di declino si può, quindi, parlare solo se lo si intende come un processo lungo e non lineare di ridimensionamento del suo ruolo di dominatore della scena politica ed economica salernitana.
    La causa originaria del declino può essere considerata la riforma agraria avviata negli anni ’50; la sua attuazione mise in evidenza i legami troppo stretti esistenti tra lui e il vecchio padronato agrario della Piana del Sele. Tali legami divennero evidenti allorchè egli, prima dell’approvazione della legge di attuazione della riforma, iniziò una violenta campagna contestatrice (46); nella sua polemica il padrone coinvolse, criticandoli, anche i vertici della Dc. Ciò ridimensionò fortemente il suo ruolo all’interno del partito; lo testimoniò anche un suo agiografo quando scrisse: “Se avesse assunto atteggiamenti di moda, come avevano fatto altri esponenti politici, anche più ricchi di lui, avrebbe avuto dinanzi a sé certamente una più sicura carriera politica” (47).
    Criticando la riforma agraria il padrone tentò di salvaguardare anche i suoi interessi economici; l’attuazione della riforma nella Piana del Sele diede, infatti, un grosso colpo al suo patrimonio perché comportò l’esproprio di parecchi ettari di terreno appartenenti alla SAIM. Anche per questo motivo la SAIM dovette ricorrere, in quegli anni, alla cessione di cinque tabacchifici all’ATI.
    Ma una delle conseguenze della riforma per il padrone fu anche uno spostamento più accentuato delle proprie risorse economiche dal terreno economico al terreno politico; è significativo quello che scrisse un agiografo: “la politica lo allontanò dalle sue attività industriali con grave danno per lui dato che egli non vi si dedicò in difesa dei suoi interessi economici. Vi profuse invece attività e mezzi” (48). Data la sua accentuata attività contestatrice all’interno della Dc per lui divenne sempre più importante investire grosse risorse economiche per finanziare la propria corrente politica; si è calcolato che in 18 anni di vita politica egli abbia speso due miliardi e mezzo di lire (49).


    CAPITOLO TERZO: I PADRONCINI

    I padroncini e il vecchio padronato

    Il cosiddetto "decreto Visocchi", più propriamente il regio decreto legge 2 settembre 1919, n. 1633, contenente provvedimenti per l'incremento della produzione agraria (50) e l’operazione di bonifica integrale (51) favorirono, contemporaneamente, lo sviluppo agricolo della Piana del Sele e l’emersione di nuove figure imprenditoriali; le nuove figure degli affittuari capitalisti e dei medi proprietari terrieri furono alternative rispetto a quelle dei vecchi agrari allevatori ancorati a vecchie concezioni economiche. Ciò determinò una relativa autonomia economica delle nuove figure sociali emergenti (52) ma l’autonomia che costoro, che chiameremo padroncini, si conquistarono sul terreno agricolo non ebbe un riscontro diretto anche su altri terreni perché permaneva una subalternità di tipo politico nei confronti degli agrari allevatori, che furono i dirigenti politici della provincia di Salerno durante il ventennio fascista (53), sia una subalternità economica nei confronti dei grandi industriali conservieri della zona; costoro, infatti, sfruttando il quasi totale monopolio della domanda di pomodori da trasformare da essi detenuto, fissavano un basso presso del pomodoro offerto dai piccoli e medi proprietari mentre un prezzo più alto veniva concesso ai grandi agrari coltivatori della zona (54).
    A partire dagli anni ’20 e fino agli anni ’40, a causa di questi condizionamenti, alcuni affittuari capitalisti unitamente ad alcuni medi proprietari terrieri e qualche commerciante di prodotti agricoli diedero vita a varie piccole industrie di trasformazione del pomodoro (55) ma alcune di queste industrie nacquero anche successivamente, a causa delle vicende belliche; infatti “Le contingenze belliche del 1940-45 permisero a quasi tutti gli industriali salernitani di realizzare enormi superprofitti di congiuntura e facilitarono lo svilupparsi di nuove e improvvisate iniziative, specie nel 1944-45 quando venne a mancare all’Italia meridionale ogni possibilità di rifornirsi presso le industrie del nord” (56).
    Il tentativo dei padroncini, però, sostanzialmente fallì poiché la nascita delle suddette industrie non li fece uscire dalla subalternità economica; negativo fu soprattutto lo stretto legame che si instaurò tra l’agricoltura e l’industria perché esso, facendo diventare l’industria un’appendice dell’agricoltura, influì in modo determinante sulla mancata formazione di una mentalità imprenditoriale da parte dei padroncini. Le loro industrie rimasero iniziative economiche di tipo sostanzialmente artigianale; esse sopravvissero solo perché sfruttarono alcuni elementi favorevoli e cioè l’esistenza di un mercato pronto a recepire i prodotti industriali e la disponibilità sia di notevoli quantitativi di pomodoro sia di parecchia manodopera pronta a lavorare nell’industria dopo aver lavorato, in molti casi, nella terra degli stessi padroncini in qualità di bracciante (57).
    Nel secondo dopoguerra ci fu una divisione dei padroncini in due categorie: da un lato quelli che chiameremo i padroncini subalterni, dall’altro quelli che chiameremo i padroncini autonomi; i padroncini subalterni furono quelli che, data la loro inferiorità dal punto di vista economico, solidarizzarono con il blocco economico-politico costituito dal vecchio padronato e dal nuovo padrone dei tabacchifici mentre i padroncini autonomi furono quelli che, non accettando la subalternità nei confronti del vecchio padronato, si opposero vivamente alle figure padronali dominanti (58). Il vecchio padronato offrì ai padroncini subalterni l’aiuto economico dello Stato ma ostacolò in ogni modo i padroncini autonomi i quali, per non essere più dominati, ricorsero sia alla lotta economica che alla lotta politica alleandosi con i contadini poveri e i braccianti, gli altri soggetti sociali della zona antagonisti rispetto alle vecchie figure padronali; unitamente a queste figure sociali essi rivendicarono, dal punto di vista economico, l’aumento del prezzo del pomodoro e l’eliminazione dei vecchi contratti agrari di compartecipazione (59) mentre dal punto di vista politico divennero figure di spicco all’interno delle forze politiche di sinistra della Piana del Sele (60).
    Uno degli effetti più rilevanti dell’impegno politico assunto dai padroncini autonomi fu il boicottaggio da parte del vecchio padronato nei confronti delle già deboli iniziative industriali da loro messe in piedi; soprattutto per questo motivo, ma anche per le loro carenti capacità manageriali, i padroncini autonomi furono costretti ad abbandonare, nel giro di pochi anni, l’industria di trasformazione del pomodoro e a dedicarsi ad altre attività economiche nell’ambito agricolo, commerciale o edilizio (61).

    I padroncini e lo Stato

    Il ricorso all’intervento economico dello Stato da parte dei padroncini subalterni si rese necessario a partire soprattutto dal secondo dopoguerra in seguito sia alla mancanza di una gestione economicamente razionale delle industrie sia alla crisi determinata dal predominio della grande industria conserviera; fu solo grazie allo Stato che i padroncini subalterni riuscirono a superare quasi indenni la crisi economica che attanagliò la piccola industria della zona negli anni ’50 (62). Ma questo non bastò perché rimasero inalterate le condizioni di partenza che avevano condotto alla crisi: da un lato permase il predominio economico delle grandi industrie conserviere mentre continuò la gestione non razionale degli impianti da parte dei padroncini subalterni; molti dei finanziamenti ottenuti furono, infatti, destinati ad un impiego non produttivo. Non si colse l’occasione, cioè, per dare un segno di tipo non speculativo alle industrie dei padroncini; alla lunga l’intervento dello Stato non basto più e la crisi economica degli anni ’60 determinò una caduta verticale delle industrie dei padroncini subalterni (63).
    Si coglie qui un interessante parallelismo di situazioni tra quella della piccola industria conserviera e quella dei tabacchifici della Piana del Sele; in entrambi i casi si è trattato di industrie che godevano di finanziamenti dello Stato e che erano caratterizzate da condotte economiche di tipo tutt’altro che razionale e in entrambi i casi si è registrata una grave crisi. La risposta dello Stato alla lunga non è servita a salvare queste industrie e progressivamente si è registrato un netto decurtamento degli aiuti finanziari (64).
    Resta da dire del personale politico al quale erano legati i padroncini subalterni. Essi ebbero, fin dall’immediato secondo dopoguerra, un rapporto stretto col padrone dei tabacchifici; grazie a lui godettero prima dei finanziamenti collegati alla ricostruzione della provincia di Salerno e poi di quelli della Cassa per il Mezzogiorno. Quando, però, la stella del padrone declinò i padroncini subalterni furono pronti a cogliere l’occasione per passare sotto la protezione del nuovo personale politico non più legato all’industria né alla Piana del Sele ma in grado di avere un rapporto privilegiato con le alte leve dello Stato (65).


    I padroncini in declino

    C’è una sostanziale differenza tra la parabola discendente dei padroncini autonomi e quella dei padroncini subalterni. Il declino dei padroncini autonomi non fu legato in maniera diretta alla crisi dell’industria conserviera ma lo fu soprattutto rispetto all’attività politica da essi svolta a partire dalla fine della seconda guerra mondiale; il declino dei padroncini subalterni fu, invece, maggiormente legato alla crisi dell’industria conserviera. Il declino dei padroncini autonomi fu dovuto ad una riaffermazione dell’egemonia del fronte padronale dopo la crisi dell’immediato dopoguerra, crisi che aveva consentito la vittoria politica della sinistra; tale egemonia si realizzò a seguito dell’alleanza tra il vecchio padronato, soprattutto quello agrario, il padrone dei tabacchifici e i contadini, che dopo la guerra erano entrati a far parte del blocco di sinistra (66). I padroncini subalterni furono, invece, penalizzati da altri fattori. Intorno agli anni ’50 il rapporto tra industria e agricoltura, che fino ad allora era stato decisivo nel consentire la sopravvivenza delle industrie, si incrinò perché vennero meno alcuni degli elementi che avevano favorito lo sviluppo della produzione industriale. In primo luogo venne meno la disponibilità finanziaria per procurarsi il pomodoro in zona; allora si presentò la necessità di utilizzare il pomodoro prodotto nell’agro nocerino-sarnese ma per fare ciò fu obbligato il ricorso all’aiuto finanziario di una figura sociale, il fornitore, che era un mediatore di prodotti ortofrutticoli generalmente originario dello stesso agro nocerino-sarnese (67). Da ciò derivò un grosso aumento della dipendenza finanziaria dei padroncini autonomi e di conseguenza il loro declino economico (68).



    CAPITOLO QUARTO: IL PADRONATO PUBBLICO. L’ENTE

    La gestione dei funzionari

    La nascita a Battipaglia, agli inizi degli anni ’60, del Concooper Sele d’Or, l’industria di trasformazione dei prodotti agricoli di proprietà dell’Ente di Riforma (che gestì la riforma agraria nella zona), segnò un fatto nuovo nel panorama industriale della Piana del Sele. L’industria dell’Ente di Riforma nacque fin dal primo momento con una netta caratterizzazione politica; i funzionari dell’Ente preposti, insieme ai presidenti delle cooperative agricole nate dopo la riforma, alla direzione svolsero anche un ruolo politico (69). Essi, che per molti anni sono stati i veri dirigenti dell’industria sebbene fossero una minoranza all’interno del consiglio d’amministrazione rispetto ai presidenti delle cooperative (70), furono i principali tramiti per l’afflusso di risorse economiche dallo Stato ai contadini assegnatari. I funzionari dell’Ente fecero valere il loro potere soprattutto in occasione dell’assunzione della manodopera stagionale, praticamente tutta sottoposta al loro vaglio. C’è in questa esperienza una somiglianza con quella del padrone dei tabacchifici; anche lui basò le sue fortune politiche sullo sfruttamento del consenso derivante dalla gestione del lavoro stagionale ma nel caso dell’industria dell’Ente il rapporto tra i funzionari e la manodopera stagionale fu più personale e diretto data la maggiore esiguità del numero di operai da assumere rispetto alle migliaia di assunzioni necessarie per i tabacchifici. Dell’esiguità delle assunzioni necessarie spesso, però, non si tenne conto data la stabile presenza di un organico largamente eccedente i bisogni della produzione; questo elemento nel corso degli anni costituì il principale motivo delle difficoltà finanziarie dell’industria dell’Ente (71).
    I presidenti esercitavano il loro ruolo dirigente soprattutto quando si trattava di dimostrare ai contadini assegnatari che essi si facevano portavoce dei loro interessi; ciò avveniva in particolare in due occasioni: quando i contadini conferivano il loro pomodoro all’industria, e in questo caso l’intervento dei presidenti tendeva ad evitare che i quantitativi da conferire fossero tagliati, e quando si trattava di fissare il prezzo del pomodoro da conferire (72). Queste erano anche le occasioni in cui tra i presidenti e i funzionari scoppiavano dei seri dissidi (73).
    Nell’industria dell’Ente si registrò la stessa gestione clientelare che si era avuta in occasione dell’attuazione della Riforma agraria nella zona; il rapporto di natura clientelare ebbe maggiori possibilità di esplicarsi in assenza di una coscienza democratica solidamente fondata, assenza comprovata anche dal mancato esercizio di un controllo dal basso dei soci delle cooperative sull’attività dei funzionari e dei presidenti. Ma il fatto che l’industria fosse di proprietà dello Stato ebbe anche delle influenze positive nel rapporto tra i funzionari e i contadini e tra i funzionari e gli operai; furono introdotte delle regole che costituirono delle novità in un panorama, quelle delle industrie conserviere della zona, in cui vigeva l’assoluta anarchia. Relativamente ai contadini furono introdotte la tara reale, cioè la corrispondenza della tara all'effettivo peso dell'imballaggio, l’utilizzo delle gabbiette di plastica per la raccolta del pomodoro e l’eliminazione dei tagli alle partite di pomodoro consegnate (74); relativamente agli operai fu introdotto il rispetto del contratto nazionale di lavoro della categoria (75).
    Un’altra novità nel rapporto tra industria dell’Ente e contadini assegnatari fu il ricorso a pratiche di credito agrario per fare concorrenza al sistema degli anticipi in denaro attuato dai mediatori che erano in rapporto con le industrie conserviere del settore privato; ma il ricorso al credito agrario fu un fallimento dato che le lungaggini burocratiche permisero a pochi contadini di usufruire dei crediti loro spettanti. Queste lungaggini, unitamente al mancato pagamento dei premi di produzione (sempre promessi e mai concessi) e alle snervanti attese cui furono costretti per poter ricevere il pagamento dei pomodori consegnati, furono le motivazioni che spinsero i contadini a tornare ai vecchi rapporti di sudditanza nei confronti dei mediatori, i fornitori tradizionali di pomodoro alle industrie private (76). Ma, in definitiva, i motivi più importanti per i quali le innovazioni introdotte dall’industria di Stato non riuscirono ad incidere in modo rilevante sui rapporti esistenti tra agricoltura e industria nella Piana del Sele furono che esse, essendo limitate ad una sola industria che lavorava un quantitativo non elevato di pomodoro, coinvolgevano un numero limitato di contadini e non riuscivano, quindi, a far elevare il prezzo del prodotto conferito (77); l’industria dell’Ente, condizionata anche dalla presenza di un numero eccessivo di operai e dai nuovi rapporti favorevoli per i contadini, alla lunga non riuscì ad essere concorrenziale con le altre industrie della zona e fece quindi registrare, nel giro di pochi anni, un rilevante deficit di gestione (78). Per eliminare questo deficit fu fatta una richiesta di intervento finanziario alla Regione Campania e alla Cassa per il Mezzogiorno; i risultati di questa dipendenza più stretta dall’intervento statale furono un accentuazione dell’intervento politico e un rafforzamento del rapporto, già esistente, tra i funzionari dell’Ente e alcuni politici nazionali di livello regionale e nazionale oltre ad una politicizzazione maggiore dei rapporti tra i funzionari, i contadini e gli operai. Fu questa l’occasione in cui nella Piana del Sele si evidenziò un’immagine della Dc quale partito che utilizzava in modo diretto anche l’industria per raggiungere i propri fini politici rispetto ad una forza politica che in passato era subalterna agli industriali privati (79); in questa fase si registrò il trapasso definitivo dalla gestione politica del padrone dei tabacchifici, risalente al 1948, alla nuova gestione, quella dei tecnici e dei professori, che segnò anche nella zona l’avanzata dei ceti medi nella direzione della Dc (80). Questo trapasso non è stato l’inizio di un’accesa controffensiva contro le vecchie figure dei padroni locali delle industrie ma è stato il segno di un ricambio al vertice del partito, di un partito che deteneva il potere e che, gestendo il potere, utilizzava le casse dello Stato per concedere agli industriali privati i finanziamenti che li legavano a loro mantenendoli in una posizione subalterna.
    Il rapporto politico diretto dei funzionari dell’Ente con lo Stato non riuscì, invece, a far uscire la loro industria dalla crisi dato che il deficit di bilancio rimase costante (81) e di fronte ai problemi dell’industria dell’Ente le forze politiche e sindacali della sinistra ebbero un ruolo subalterno dato che non riuscirono ad elaborare una strategia alternativa rispetto a quella dei funzionari; esse ebbero fin dai primi anni ’60 un atteggiamento eccessivamente conciliante nei loro confronti a causa delle suddette significative innovazioni introdotte nel rapporto con gli operai e con i contadini (82) Tale atteggiamento fece venir meno la capacità di distinguere gli elementi positivi dagli elementi negativi dell’esperienza; esso impedì alle suddette forze politiche e sindacali di criticare adeguatamente sia la diffusa pratica del clientelismo sia la cattiva gestione finanziaria. E’ estremamente significativo ciò che accadde nell’estate del 1963; in questo periodo in cui i contadini della Piana del Sele ottennero per la prima volta, dopo giorni di lotta, la contrattazione del prezzo del pomodoro con gli industriali conservieri della zona il comportamento dei rappresentanti della sinistra si differenziò a seconda se si trattava di lottare contro gli industriali privati o contro l’industria dell’Ente. E’ stato sottolineato che “L’alleanza dei contadini guida la protesta contro gli industriali conservieri piuttosto che contro l’Ente di Riforma per timore di una generica protesta antigovernativa” (83).

    L’ascesa dei presidenti

    La gestione clientelare ed inefficiente della Riforma agraria fece emergere con sempre maggiore nettezza i limiti dell’esperienza e rese improcrastinabile la necessità e l’urgenza di “riformare la Riforma”; un grosso ruolo nell’opera di denuncia e di spinta al cambiamento l’ebbe la sinistra che, dopo i primi anni di sostegno all’esperienza, era andata facendosi sempre più critica nei confronti delle forze politiche responsabili della direzione degli Enti di Riforma (84). Una considerevole spinta al cambiamento nella gestione degli Enti ci fu negli anni ’60; essa ebbe il suo sbocco nel 1969 dato che in quest’anno ci fu la trasformazione dell’Ente di Riforma in Ente di Sviluppo e di conseguenza, tra l’altro, la modifica degli statuti delle cooperative agricole costituite nel corso della Riforma (85). La modifica degli statuti ebbe come risultato più importante una drastica riduzione del potere di intervento dei funzionari dell’Ente sulle cooperative agricole e, in particolar modo, sull’elezione dei presidenti delle cooperative stesse. Fino ad allora i presidenti erano stati in gran parte imposti dall’alto dai funzionari; il risultato era stato l’elezione di una serie di presidenti che erano quasi tutti allineati politicamente con gli orientamenti dei funzionari (86).
    A seguito della modifica degli statuti anche nella Piana del Sele alcuni assegnatari che avevano posizioni politiche di sinistra poterono essere eletti presidenti; questo nuovo elemento, unitamente alle modifiche apportate alla composizione del Consiglio d’amministrazione dell’industria dell’Ente, che prevedevano una rappresentanza più qualificata dei presidenti rispetto ai funzionari, determinò notevoli cambiamenti nella gestione dell’industria dell’Ente. I nuovi presidenti contestarono in primo luogo, agli inizi degli anni ’70, la gestione clientelare dei funzionari praticata attraverso le assunzioni degli operai stagionali e la contestazione fu efficace se si considerano le minacce cui furono sottoposti i nuovi presidenti e gli indubbi miglioramenti che ne conseguirono sulla moralità del gruppo dirigente dell’industria dell’Ente (87).
    Le critiche dei presidenti ebbero i loro effetti soprattutto a partire dal 1973 allorchè venne approvata una nuova normativa che, riconoscendo all’industria dell’Ente lo statuto di impresa agricola, stabiliva che potevano essere assunti come operai stagionali solamente coloro che erano iscritti nelle liste dei braccianti agricoli dell’Ufficio di Collocamento (88); ciò comportò una notevole selezione del numero dei potenziali aspiranti al lavoro stagionale nell’industria dell’Ente e, di conseguenza, una drastica riduzione dello spazio di manovra politica dei funzionari. Contemporaneamente, come già scritto, si registrò un notevole aumento del potere dei presidenti; essi assunsero un crescente ruolo politico grazie ai rapporti che strinsero con la nuova direzione politica regionale dell’Ente di Sviluppo. Ciò provocò un cambiamento positivo nel comportamento dei funzionari nei confronti degli operai stagionali e dei contadini ma non bastò a determinare cambiamenti decisivi nella gestione finanziaria dell’industria dell’Ente; continuò, infatti, l’accumulazione di un deficit considerevole frutto sia di una gestione finanziaria non rigorosa sia di una sostanziale subalternità nei confronti delle scelte commerciali delle altre industrie conserviere della zona. Un esempio di questa subalternità fu la conduzione di una politica commerciale non autonoma ma affidata a grandi società commerciali italiane e anglo-americane; in tal modo vennero trascurate le potenzialità di assorbimento dei prodotti dell’industria dell’Ente da parte del mercato italiano (89). In conclusione, quindi, la gestione finanziaria dei presidenti non fu molto più oculata rispetto a quella dei funzionari; parecchi dei problemi ereditati dalla precedente gestione si aggravarono e l’industria dell’Ente assunse un ruolo sempre più marginale rispetto alle altre industrie conserviere della zona.



    CAPITOLO QUINTO: IL PADRONATO PUBBLICO DEI TABACCHIFICI

    La gestione dei vecchi dirigenti

    La cessione, negli anni ’50, di cinque tabacchifici da parte della SAIM all’ATI, un’azienda pubblica (90), determinò grossi cambiamenti nella struttura dirigenziale di questi tabacchifici; tutti i dirigenti della SAIM furono sostituiti da alcuni vecchi manager pubblici, dirigenti dell’ATI fin dall’epoca fascista (91). Si passò da dirigenti scelti quasi esclusivamente sulla base dei legami familiari e politici esistenti tra di loro e il padrone a dirigenti scelti sulla base delle loro doti manageriali; ciò al fine di dotare i tabacchifici di una gestione economicamente razionale (92). Fu naturale, quindi, che i dirigenti locali fossero impreparati quando la dirigenza centrale dell’ATI intensificò i controlli sui bilanci e, più in generale, sulla loro attività mediante frequenti ispezioni negli stabilimenti; ma l’impatto dell’attività di controllo dei nuovi dirigenti nazionali sui dirigenti locali non fu traumatico dato che tra loro si raggiunse una sorta di compromesso basato su reciproche concessioni. Da un lato i dirigenti locali cominciarono a praticare una gestione economica più rigorosa degli stabilimenti tanto è vero che nel giro di pochi anni fu riassestato il bilancio finanziario (93), dall’altro lato i dirigenti nazionali permisero che i dirigenti locali continuassero a svolgere il loro ruolo di controllori politici della gestione della manodopera.
    Il ruolo politico dei dirigenti locali cambiò, rispetto a quando al vertice dell’azienda c’era il padrone, e si accentuò; quando, infatti, a comandare era soprattutto il padrone essi erano inseriti nelle ultime fila di un sistema piramidale nel quale avevano scarse possibilità di poter svolgere un ruolo autonomo mentre con i nuovi dirigenti centrali, che invece erano poco interessati ad un’utilizzazione politica dei tabacchifici, i dirigenti locali ebbero la possibilità di muoversi più liberamente anche se nei primi anni della gestione ATI furono ancora politicamente legati al padrone.
    Determinante per l’assunzione di questo nuovo ruolo da parte dei dirigenti locali fu l’utilizzo dell’Ufficio di Collocamento (94). Durante la gestione SAIM l’Ufficio di Collocamento, pur facendovi annualmente ricorso il padrone per l’assunzione della manodopera stagionale che doveva lavorare il tabacco, non svolse un ruolo decisivo per affermare il suo potere nei confronti degli operai da assumere; esso servì più che altro a sancire il potere di veto nei confronti di chi aveva idee politiche diverse. La massa di operai da assumere era talmente grande (circa una decina di migliaia) da rendere praticamente inutile il ricorso a strumenti clientelari per garantirsi il consenso politico e le preferenze elettorali necessarie; il consenso era dato spontaneamente al “benefattore” di migliaia di famiglie della Piana del Sele (95). Con la gestione ATI il numero degli operai da assumere diminuì considerevolmente; per questo motivo la scelta degli operai da assumere diventò un’occasione importante, da parte dei dirigenti locali, per ottenere il consenso politico. Col tempo la gestione dell’Ufficio di Collocamento assunse un ruolo rilevante nel rapporto tra i dirigenti locali dei tabacchifici e il personale politico locale di origine piccolo-borghese che, nel frattempo, si era impadronito del potere politico (96).
    Anche il rapporto tra i dirigenti centrali dell’ATI e gli operai fu caratterizzato sia da elementi di continuità che da elementi di cambiamento rispetto alla gestione SAIM; il rapporto fu, anche in questo caso, autoritario anche se l’autoritarismo della gestione SAIM era venato di paternalismo, data la figura di grande imprenditore e uomo politico rappresentata dal padrone mentre l’autoritarismo dei nuovi dirigenti centrali (97) era del tutto privo di atteggiamenti paternalistici, presumibilmente a causa del loro mancato svolgimento nella zona di una specifica attività politica (98). Un altro elemento di continuità fu il comportamento nei confronti delle organizzazioni sindacali; in entrambi i casi ci fu un atteggiamento ostruzionistico nei confronti della CGIL e un rapporto collaterale con la CISL (99). Anche i nuovi dirigenti centrali non rispettarono i contratti nazionali di categoria e quindi non corrisposero agli operai nè i salari né le spettanze previdenziali previste dalla legge; essi, però, procedettero ad un notevole miglioramento tecnologico degli impianti sostituendo quelli più obsoleti con altri più moderni. Ciò nel giro di pochi anni provocò una rilevante eccedenza di manodopera e per questo motivo parecchi operai stagionali non furono riassunti (100).
    Il rapporto tra i dirigenti centrali e gli operai divenne sempre più teso fino alla rottura completa, che avvenne nel 1969, a seguito della minaccia di chiusura di uno degli stabilimenti di Battipaglia; ci furono mesi di sciopero (coincidenti con i cosiddetti moti di Battipaglia) ai quali seguì, nel 1970, un accordo con il quale furono sottoscritte parecchie concessioni e un nuovo tipo di rapporto tra dirigenti e operai, un rapporto che fu ereditato dai dirigenti dell’EFIM, subentrata all’ATI nel 1971 (101).


    La gestione dei nuovi dirigenti

    La suddetta cessione dei cinque stabilimenti di proprietà dell’ATI all’EFIM (102), uno degli enti di gestione delle partecipazioni statali, comportò un grosso cambiamento nel gruppo dirigente; molti nuovi dirigenti furono portatori di idee innovative all’interno dei tabacchifici dato che avevano una mentalità molto più avanzata e meno autoritaria rispetto a quella dei loro predecessori oltre ad una formazione tecnica più moderna. Essi, che si trovarono ad operare in un momento storico in cui, dopo lo scontro del 1969 e l’accordo del 1970, i rapporti politici e sociali erano più aperti (103), attribuirono un’importanza crescente al miglioramento delle tecniche finanziarie per il controllo dei bilanci e alla professionalità dei dirigenti locali; ciò comportò l’aumento delle assunzioni di queste figure tramite concorso e il progressivo abbandono dei vecchi metodi clientelari (104).
    Inoltre ci furono concessioni reciproche sia da parte dei nuovi dirigenti che da parte delle organizzazioni sindacali (105); i nuovi dirigenti concessero il blocco dei licenziamenti massicci, il riconoscimento pieno delle organizzazioni sindacali, un livello salariale corrispondente a quello stabilito dal contratto nazionale di lavoro, l’eliminazione della retribuzione solo stagionale mediante l’istituzione della Cassa integrazione nei periodi di stasi della produzione, il blocco dell’ulteriore meccanizzazione degli impianti mentre il sindacato concesse il blocco di nuove assunzioni, la corresponsabilizzazione nella gestione delle problematiche interne agli stabilimenti e un’attenzione particolare al buon andamento del bilancio aziendale (che avrebbe comportato, tra l’altro, il ricorso a fermate della lavorazione quando l’azienda avrebbe dovuto smaltire un surplus della produzione) (106).
    I rapporti collaborativi instauratisi all’interno dei tabacchifici dopo l’avvento dell’EFIM portarono alla riduzione pressochè totale della conflittualità ma se le molte novità introdotte nelle relazioni industriali risolsero molti problemi esse ne provocarono altri. L’abbandono dei principi della razionalità economica per far posto alla filosofia della non conflittualità provocò notevoli problemi di bilancio (107); essi derivarono dalla scarsa concorrenzialità all’interno di un settore sempre più agguerrito. Gli altri tabacchifici della Campania, non solo quelli privati, si avvantaggiarono della possibilità di rimanere strettamente legati alla stagionalità della lavorazione oltre che di non utilizzare personale in sovrannumero (108); è significativo che un dirigente di primo piano abbia criticato l’eccessiva politica che era stata fatta all’interno dei tabacchifici (109).
    Altre conseguenze dell’eliminazione della stagionalità dai tabacchifici della Piana del Sele furono la fine della funzione politica dei dirigenti locali (110) e la rottura del legame tra gli uomini politici locali e quest’industria; i dirigenti locali non potettero più utilizzare in modo clientelare le assunzioni per rafforzare il loro legame con gli uomini politici locali esterni agli stabilimenti mentre il rapporto degli uomini politici esterni con i tabacchifici non fu più basato su un interesse clientelare di tipo diretto ma su un interesse generale a salvaguardare l’occupazione per evitare gli effetti negativi che la sua eventuale diminuzione avrebbe provocato nella sua zona elettorale.




    NOTE

    1) Per una ricostruzione delle lotte contadine nel Salernitano nel primo dopoguerra vedi MARCO BERNABEI: Leghe bianche, leghe rosse e lotte per la terra nel Salernitano nel primo dopoguerra, in PIETRO LAVEGLIA (a cura di): Mezzogiorno e Fascismo, vol. I, ESI, Napoli 1978.
    2) LUIGI GRAZIANO: Clientela e politica nel Mezzogiorno, in PAOLO FARNETI (a cura di): Il sistema politico italiano; Il Mulino, Bologna, 1973, p. 226. Ora anche in LUIGI GRAZIANO: Clientelismo e sistema politico; Franco Angeli, Milano, 1980, p. 143.
    3) Intervista – Eboli, 27/5/1978.
    4) Sulla storia della SAIM vedi DIOMEDE IVONE: Carlo Petrone: un cattolico intransigente del Mezzogiorno; Libreria Internazionale Editrice, Salerno, 1973 (in particolare il capitolo IV: La SAIM e la polemica con Carmine De Martino).
    5) Cfr. DIOMEDE IVONE: Carlo Petrone, cit.
    6) Intervista – Napoli, 9/6/1978. Sull’analogo atteggiamento dei proprietari terrieri in Italia nei confronti dell’operazione di bonifica integrale cfr. VALERIO CASTRONOVO: La storia economica, in AA. VV.: Storia d’Italia, Vol. IV, tomo I: Dall’Unità ad oggi; Einaudi, Torino, 1975, pp. 276 e segg. e JORDIN S. COHEN: Un esame statistico delle opere di bonifica intraprese durante il regime fascista, in GIANNI TONIOLO ( a cura di): Lo sviluppo economico italiano. 1861-1940; Laterza, Bari, 1973.
    7) Cfr. AA. VV.: Ecco Salerno – Il Capoluogo e la Provincia nel loro continuo divenire; Editrice Agenzia “Servizi Giornalistici”, Salerno, 1958.
    8) GIUSEPPE ACOCELLA: Aspetti del movimento sindacale cattolico nel primo e nel secondo dopo guerra a Salerno, in PIETRO LAVEGLIA (a cura di): Mezzogiorno e fascismo, cit., Vol. II, p. 17.
    9) Sul rapporto tra agrari e fascismo in provincia di Salerno vedi GIUSEPPE ACOCELLA; Aspetti del movimento sindacale cattolico, cit., p. 18.
    10) Intervista – Eboli, 29/5/1978.
    11) Per il rapporto tra gli agrari e lo Stato dopo l’Unità d’Italia vedi EMILIO SERENI: Capitalismo e mercato nazionale; Editori Riuniti, Roma, 1966.
    12) Intervista – Napoli, 9/6/1978. Per una descrizione delle modalità con le quali avvenne l’usurpazione degli usi civici su scala nazionale vedi GIUSEPPE ORLANDO: Progressi e difficoltà dell’agricoltura, in GIORGIO FUA’ (a cura di): Lo sviluppo economico in Italia. Storia dell’economia italiana degli ultimi cento anni, Vol. III; Giuffrè, Milano, 1969, p. 22.
    13) Intervista – Napoli, 9/6/1978.
    14) Intervista – Eboli, 29/5/1978.
    15) Quest’interpretazione dei rapporti tra agrari e Stato fascista nella Piana del Sele contrasta con l’interpretazione dei rapporti tra agrari e fascismo in Italia data da PIER LUIGI PROFUMIERI: La “battaglia del grano”: costi e ricavi, in “Rivista d’agricoltura”, n. 3, 1971.
    16) Intervista – Eboli, 29/5/1978.
    17) SALVATORE CASILLO: Sviluppo economico e vicende politiche in una provincia meridionale: il caso del Salernitano, in “Basilicata”, nn. 7-12, 1973, p. 4.
    18) Intervista – Napoli, 9/6/1978.
    19) SALVATORE CASILLO: Sviluppo economico, cit., p. 4.
    20) Sulla riforma agraria in Italia vedi GIUSEPPE BARBERO: Riforma agraria italiana. Risultati e prospettive; Feltrinelli, Milano, 1960; GIOVANNI ENRICO MARCIANI: L’esperienza di riforma agraria in Italia; Giuffrè, Milano, 1966; PAOLO PEZZINO: La riforma agraria in Italia dal 1950 al 1965, in “Monthly Review”, ed. italiana, giugno-settembre 1972; ID.: La riforma agraria in Calabria; Feltrinelli, Milano, 1979; MANLIO ROSSI-DORIA: La riforma sei anni dopo (1957), in ID.: Dieci anni di politica agraria nel Mezzogiorno; Laterza, Bari, 1959; EMILIO SERENI: Vecchio e nuovo nelle campagne italiane; Editori Riuniti, Roma, 1956.
    21) Intervista – Napoli, 9/6/1978.
    22) Sull’alleanza tra rendita e profitto dopo l’Unità d’Italia vedi EMILIO SERENI: Capitalismo e mercato nazionale, cit.
    23) Intervista – Eboli, 27/5/1978.
    24) Intervista – Napoli, 9/6/1978.
    25) Intervista – Battipaglia, 27/11/1978.
    26) Intervista – Eboli, 29/5/1978.
    27) Intervista – Eboli, 29/5/1978.
    28) SALVATORE CASILLO: Lo sviluppo economico, cit., p. 4.
    29) In DIOMEDE IVONE: Carlo Petrone, cit. vi sono tutte le notizie relative all’ascesa di Carmine De Martino e all’andamento economico della SAIM.
    30) SALVATORE CASILLO: Sviluppo economico, cit., p. 4.
    31) Sul mancato contrasto degli interessi padronali da parte dei sindacati cattolici della provincia di Salerno negli anni ’50 vedi GIUSEPPE ACOCELLA: Aspetti del movimento sindacale, cit., p. 27. Sul paternalismo industriale vedi JOHN W. BENNETT: Paternalism, in DAVID L. SILLS (ed.): International Encyclopedia of the Social Sciences, Vol. 11, Macmillan, New York, 1968.
    32) Intervista – Salerno, 29/4/1978.
    33) Intervista – Salerno, 9/4/1979.
    34) Intervista – Battipaglia, 18/9/1978.
    35) Sul rapporto tra Chiesa cattolica e contadini nel Mezzogiorno durante la ricostruzione postbellica vedi AA. VV.: Operai e contadini nella crisi italiana del 1943/1944; Feltrinelli, Milano, 1974.
    36) Intervista – Salerno, 18/5/1978.
    37) SALVATORE CASILLO: Sviluppo economico, cit., p. 4.
    38) Sul rapporto tra padronato industriale e Stato in Italia vedi GUIDO BAGLIONI: L’ideologia della borghesia industriale nell’Italia liberale; Einaudi, Torino, 1974, pp. 18 e segg. Per un inquadramento più generale del suddetto rapporto vedi JAMES O’CONNOR: La crisi fiscale dello Stato (ed. or. 1973); Einaudi, Torino, 1977, pp. 101 e segg.
    39) DIOMEDE IVONE: Carlo Petrone, cit., cap. IV.
    40) DIOMEDE IVONE: Carlo Petrone, cit., cap. IV.
    41) SALVATORE CASILLO: Sviluppo economico, cit., p. 4.
    42) SALVATORE CASILLO: Sviluppo economico, cit., p. 4. Intervista – Napoli, 9/6/1978.
    43) SALVATORE CASILLO: Sviluppo economico, cit., p. 5. Sulla svolta della DC a metà degli anni ’50 si vedano GIORGIO GALLI – PAOLO FACCHI: La sinistra democristiana; Feltrinelli, Milano, 1962; ALFIO MASTROPAOLO: I partiti e la società civile, in PAOLO FARNETI (a cura di): Il sistema politico italiano; Il Mulino, Bologna, 1973; PAOLO UNGARI: Dal centro-destra al centro-sinistra, in MATTEI DOGAN – ORAZIO MARIA PETRACCA (a cura di): Partiti politici e strutture sociali in Italia; Comunità, Milano, 1968; GIORGIO GALLI: Fanfani; Feltrinelli, Milano, 1975; RUGGERO ORFEI: L’occupazione del potere. I democristiani ’45/’75; Longanesi & C., Milano, 1976.
    44) Sul ricambio nella direzione del partito democristiano in provincia di Salerno negli anni ’60 si veda MAURO CALISE: Il sistema DC; De Donato, Bari, 1978, pp. 14 e segg.
    45) Intervista – Salerno, 18/5/1978.
    46) Su un analogo atteggiamento da parte di altri esponenti democristiani si veda VALERIO CASTRONOVO: La storia economica, cit., p. 392.
    47) NINO FRANCO: Ricordo di Carmine De Martino; L’Arte tipografica, Napoli, 1964, p. 13.
    48) NINO FRANCO: Ricordo di Carmine De Martino, cit., pp. 12-13.
    49) SALVATORE CASILLO: Sviluppo economico, cit., p. 5.
    50) Sugli effetti del “decreto Visocchi” in Campania e nel Salernitano si veda MARCO BERNABEI: Leghe bianche, leghe rosse, cit., p. 195.
    51) Sulle consistenti somme spese per la bonifica in provincia di Salerno vedi JORDIN S. COHEN: Un esame statistico delle opere di bonifica, cit., p. 358.
    52) Intervista – Battipaglia, 5/5/1978.
    53) Intervista – Salerno, 29/4/1978.
    54) Intervista – Battipaglia, 5/5/1978.
    55) Intervista – Battipaglia, 13/4/1978. Intervista – Salerno – 18/5/1978.
    56) GAETANO DI MARINO: Il problema dell’industria in provincia di Salerno e la recente lotta alla M.C.M., in “Cronache Meridionali”, n. 9, settembre 1955.
    57) Intervista – Eboli, 27/5/1978.
    58) Intervista – Battipaglia, 5/5/1978.
    59) Intervista – Eboli, 27/5/1978. Sui contratti di compartecipazione nella Piana del Sele vedi PASQUALE VILLANI: La provincia di Salerno: società e politica, in PIETRO LAVEGLIA (a cura di): Mezzogiorno e Fascismo, cit., p. 263; SERGIO ALINOVI: Problema contadino, cit., p. 27; LUIGI GRAZIANO: Clientelismo e sistema politico, cit., p. 139. Sulla compartecipazione in Italia cfr. GIORGIO GIORGETTI: Contadini e proprietari nell’Italia moderna; Einaudi, Torino, 1974, p. 468.
    60) Intervista – Salerno, 29/4/1978.
    61) Intervista – Battipaglia, 5/5/1978.
    62) Intervista – Napoli, 9/6/1978.
    63) Per la politica dei sussidi alle piccole industrie del Mezzogiorno vedi AUGUSTO GRAZIANI (a cura di): L’economia italiana 1945-1970; Il Mulino, Bologna, 1972, p. 67.
    64) Per la prevalenza odierna della politica di sviluppo del Mezzogiorno basta sul criterio dell’efficienza piuttosto che su quello della difesa dei livelli occupazionali si veda AUGUSTO GRAZIANI (a cura di): L’economia italiana, cit., p. 68.
    65) Intervista – Salerno, 29/4/1978. Sul nuovo personale politico democristiano vedi MAURO CALISE: Il sistema Dc, cit., pp. 163-164.
    66) Intervista – Eboli, 29/5/1978.
    67) Sulla nascita della categoria del fornisore vedi MAURO CALISE: Il sistema Dc, cit., pp. 103 e segg.
    68) Intervista – Battipaglia, 13/4/1978. Su un analogo fenomeno nell’agro nocerino-sarnese cfr. MAURO CALISE: Il sistema Dc, cit., pp. 105 3 segg.
    69) Intervista – Nocera Inferiore, 8/7/1978. Si veda MANLIO ROSSI-DORIA: La riforma sei anni dopo, cit., p. 130.
    70) Intervista – Pagani, 21/7/1978.
    71) Intervista – Battipaglia, 20/7/1978. Vedi anche la relazione dell’Ente di sviluppo della Regione Campania intitolata “La situazione attuale del Concooper Sele d’Or-Ortofrutticoli salernitani associati di Battipaglia a venti anni dalla sua costituzione e prospettive a breve e medio periodo”; Regione Campania, giugno 1978.
    72) Intervista – Pagani, 21/7/1978.
    73) Intervista – Nocera Inferiore, 8/7/1978
    74) Intervista – Battipaglia, 14/7/1978
    75) Intervista – Pagani, 21/7/1978
    76) Intervista – Battipaglia, 20/7/1978
    77) Intervista – Nocera Inferiore, 8/7/1978
    78) Vedi la relazione dell’Ente di sviluppo della Regione Campania su citata.
    79) Sull’utilizzo democristiano dell’industria pubblica in Italia vedi EUGENIO SCALFARI - GIUSEPPE TURANI: Razza padrona; Feltrinelli, Milano, 1974.
    80) Su questo argomento vedi GIANNI BAGET-BOZZO: Il partito cristiano al potere; Vallecchi, Firenze, 1974.
    81) Intervista – Nocera Inferiore, 8/7/1978.
    82) Su un analogo atteggiamento della CGIL nei confronti dell’industria di Stato vedi ARIS ACCORNERO: Per una nuova fase di studi sul movimento sindacale, in ARIS ACCORNERO -ALESSANDRO PIZZORNO - BRUNO TRENTIN - MARIO TRONTI: Movimento sindacale e società italiana; Feltrinelli, Milano, 1977, p. 113.
    83) Il prezzo del pomodoro in provincia di Salerno, in “Cronache meridionali”, n. 9, 1963, p. 89.
    84) MANLIO ROSSI-DORIA: La riforma sei anni dopo, cit., p. 136.
    85) Intervista – Pagani, 21/7/1978.
    86) Intervista – Nocera Inferiore, 8/7/1978.
    87) Intervista – Pagani, 21/7/1978.
    88) Intervista – Battipaglia, 20/7/1978.
    89) Intervista – Nocera Inferiore, 8/7/1978.
    90) Sull’impresa pubblica in Italia si vedano i saggi di ANDREW SHONFIELD: L’impresa pubblica: modello internazionale o specialità locale? e FRANCESCO FORTE: L’impresa: grande, piccola, pubblica, privata, in FABIO LUCA CAVAZZA - STEPHEN R. GRAUBARD: Il caso italiano, 2 volumi; Garzanti, Milano, 1974.
    91) Intervista – Battipaglia, 21/9/1978.
    92) Per riscontrare un’analoga ideologia in tutte le imprese pubbliche italiane vedi ANDREW SHONFIELD: L’impresa pubblica, vol. 2, cit., pp. 270-291.
    93) Intervista – Pontecagnano Faiano, 28/10/1978.
    94) LUIGI GRAZIANO: Clientelismo e politica nel Mezzogiorno, cit., pp. 226-227 e ID.: Clientelismo e sistema politico, cit., p. 143.
    95) Intervista – Salerno, 29/3/1979
    96) Intervista – Salerno, 5/10/1978
    97) Intervista – Salerno, 5/10/1978
    98) Intervista – Battipaglia, 18/9/1978.
    99) Sul rapporto tra la CISL e il padronato in Italia vedi ARIS ACCORNERO: Per una nuova fase di studi sul movimento sindacale, cit., pp. 98 e segg.
    100) Intervista – Salerno, 5/10/1978.
    101) Intervista – Battipaglia, 18/9/1978.
    102) Sull’EFIM vedi FRANCESCO FORTE: L’impresa, cit., p. 357.
    103) Per un’analisi del centro-sinistra in Italia vedi GIUSEPPE TAMBURRANO: Storia e cronaca del centro-sinistra; Feltrinelli, Milano, 1971.
    104) Intervista – Battipaglia, 21/9/1978.
    105) Intervista – Battipaglia, 18/9/1978.
    106) Intervista – Battipaglia, 21/9/1978.
    107) Intervista – Pontecagnano Faiano, 23/10/1978. Si veda
    108) ARNALDO BAGNASCO – SALVATORE CASILLO –
    109) GIUSEPPE BONAZZI: L’organizzazione della marginalità. Industria e potere in una provincia meridionale; L’industria, Torino, 1972.
    110) Intervista – Pontecagnano Faiano, 23/10/1978.
    111) Intervista – Pontecagnano Faiano, 23/10/1978.
    112) Intervista – Battipaglia, 21/9/1978.

    Edited by Franco Pelella - 29/3/2023, 09:11
  7. .
    Il direttore del Corriere del Mezzogiorno Enzo D’Errico ha dedicato una parte di un suo articolo alle primarie del Partito democratico. Egli ha scritto, tra l’altro: “…Bonaccini ha stretto accordi di ferro con Emiliano e De Luca (chiamando addirittura il figlio di quest’ultimo a coordinare la sua mozione da Roma in giù): pensate davvero che, una volta eletto, cambierebbe qualcosa al Sud? Scommettereste un centesimo sulla radicale trasformazione di un partito che qui resterebbe saldamente nelle mani dei soliti noti? Lo stesso discorso, per altri versi, riguarda Schlein, che non è scesa a patti ma del Mezzogiorno sa poco o nulla (infatti ne parla molto di rado) e gode del supporto di Dario Franceschini e Andrea Orlando, figure senza dubbio stimabili e tuttavia non provenienti certo da mondi alieni”. (Le primarie dei soliti gattopardi; Corriere del Mezzogiorno, 24/2/2023).
    Non sono d’accordo. E’ vero che Elly Schlein sa poco del Mezzogiorno e che non ne ha parlato molto ma quel poco che ha detto è stato significativo: ha detto che non condivide il modo di fare politica di Vincenzo De Luca e che bisogna smetterla con i signori delle tessere e con i potentati. Inoltre non sottovaluterei il suo rifiuto della proposta (venuta non a caso da Michele Emiliano) di un ticket da realizzare dopo le primarie per i due contendenti (uno segretario e l’altro vicesegretario). Rifiutare il consociativismo mi sembra un bel segnale. E’ vero, inoltre, che a sostenere Elly Schlein sono personaggi come Dario Franceschini e Andrea Orlando, i quali sono dirigenti storici del Pd. Ma si sa che essi hanno sempre giudicato male i notabili meridionali e che se sono scesi a compromessi con loro è stato perché hanno ritenuto che non ci fossero concrete alternative. Sicuramente essi hanno le loro colpe perché hanno tollerato troppo a lungo i comportamenti scorretti di questi personaggi ma il fatto che si siano schierati con Schlein e non con Bonaccini lascia sperare che questa scelta sia anche il frutto di una riflessione autocritica sui loro comportamenti passati. Naturalmente il fatto di votare per Elly Schlein alle primarie del Pd non è una garanzia che se lei vincesse i notabili meridionali sarebbero totalmente fuori dal partito. Ma votarla significa aggrapparsi a quella che rimane, forse, l’unica speranza di avere in futuro un Pd rinnovato anche e soprattutto per questo aspetto.

    Edited by Franco Pelella - 24/2/2023, 19:02
  8. .
    Michele Serra ha scritto un corsivo dedicato alle primarie del Partito democratico (Le due metà della politica; La Repubblica, 22/2/2023). Ecco il suo contenuto: “Parecchi amici che condividono con me una incomprensibile eppure tenace affezione per le primarie del Pd mi dicono: non so chi votare tra Bonaccini e Schlein. Ovvero (semplifico) non so scegliere tra tradizione e “salto d’epoca”, tra solidità e sfida. Non ricordo uguale incertezza nelle precedenti primarie. E’ un incertezza che condivido: deciderò, credo proprio, a pochi passi dal voto. La scelta non è facile proprio per la sua per la sua quasi perfetta “binarietà”. Di genere, di età, di mentalità politica (lui più partitico, lei più movimentista), di sguardo istintivo (lei la piazza, lui le carte con i numeri), di alleanze (lui più in grado di parlare al centro, lei alla sinistra)…Un partito di massa (se il Pd vuole essere questo) non può essere solo pragmatismo o solo identità, solo governo o solo opposizione, solo realtà o solo immaginazione. Deve essere tutte queste cose insieme, altrimenti rischia di perdere un bel pezzo della sua funzionalità…”.
    Il problema è che le scelte non sono solo quelle elencate da Michele Serra. Nel corso del confronto delle scorse settimane tra Schlein e Bonaccini sono emerse anche altri rilevanti differenze. La scelta è anche tra chi non vuole che all’interno del Pd i notabili del Sud (Vincenzo De Luca e Michele Emiliano in particolare) continuino ad avere un ruolo rilevante e chi si vuole alleare con loro, tra chi non tollera che un notabile come De Luca possa agire del tutto indisturbato comportandosi da dittatore (continuare ad insultare i dirigenti del proprio partito, far eleggere deputato il figlio, allearsi con le forze politiche di destra e con i notabili di altri partiti, accaparrarsi tutte le tessere che vuole, pretendere di fare un terzo mandato come presidente della Campania, ecc. ecc.) e chi invece fa capire che continuerà a lasciargli tutto lo spazio che vuole. Bonaccini addirittura ha promesso a De Luca che nel caso in cui egli fosse eletto nuovo segretario del Pd il figlio Piero sarebbe il suo riferimento per tutto il Mezzogiorno. In definitiva il voto delle primarie è un’occasione storica per eleggere come segretario del Pd una persona che vuole tagliare il rapporto perverso, che esiste da decenni, tra il suo gruppo dirigente e Vincenzo De Luca. E’ un’occasione che non bisogna lasciarsi sfuggire.
  9. .
    La mia convinzione è che parecchi elettori di sinistra non sono andati a votare in occasione delle elezioni regionali in Lazio e Lombardia anche perché sono convinti che molti dirigenti del Partito democratico si ispirano molto poco ai tradizionali ideali della sinistra. Essi avvertono che il Pd è condizionato troppo dalla logica clientelare e affaristica degli amministratori, coloro che sono iscritti al partito e che in tutto il Paese gestiscono molti Comuni e alcune Regioni; la logica degli amministratori si avvicina a quella di Matteo Renzi, che non a caso prima di fare il segretario del Pd e il Primo Ministro è stato Presidente dell’Amministrazione provinciale fiorentina e poi sindaco di Firenze. Tutti sanno che nel Pd ci sono ancora consistenti elementi di renzismo sia nel senso dei comportamenti sia nel senso della presenza di uomini e donne che hanno condiviso la leadership renziana.
    Il gruppo dirigente attuale del Pd (Letta, Orlando, Franceschini, Zingaretti, ecc.), quello che adesso sostiene Elly Schlein, ufficialmente ha detenuto il potere ma il potere reale è nelle mani degli amministratori, quelli che sostengono Stefano Bonaccini. Ciò si è visto chiaramente, ad esempio, quando questo gruppo dirigente ha dovuto scendere a patti con Vincenzo De Luca per ottenere buoni posti in lista in occasione delle recenti elezioni politiche. Gli stessi esponenti di Articolo 1 (Roberto Speranza, Pierluigi Bersani, Massimo D’Alema, ecc. ecc.) dicono di essere sono contro il renzismo ma non si sono quasi mai scontrati apertamente con gli amministratori.
    Gli amministratori del Pd, che ragionano soprattutto in termini di potere e di consenso clientelare, non si sono scandalizzati quando per anni la destra leghista ha insistito per attivare l’autonomia differenziata delle regioni. Stefano Bonaccini e gli altri amministratori del Pd (compreso perfino Vincenzo De Luca e Michele Emiliano) hanno guardato al maggior potere che essi avrebbero gestito nel caso in cui fosse andata in porto questa riforma piuttosto che ai grossi e ulteriori squilibri che essa avrebbe comportato nel rapporto tra il Nord e il Sud del Paese.
    Non è un caso che Vincenzo De Luca, il quale oramai da molti anni insulta regolarmente i dirigenti nazionali del Pd, non viene espulso né sanzionato. Il motivo reale per cui il gruppo dirigente nazionale del Pd (e i gruppi dirigenti delle altre formazioni politiche eredi del Pci che lo hanno preceduto) non hanno mai potuto prendere in considerazione l’ipotesi di espellere dal Pd Vincenzo De Luca e gli altri notabili del Sud è perché essi sono sostenuti dagli amministratori del Centro-Nord; questi amministratori evidentemente non sentono i notabili meridionali lontani da sé stessi e dai loro comportamenti.

    Edited by Franco Pelella - 16/2/2023, 21:44
  10. .
    Si sta discutendo molto negli ultimi mesi dell’autonomia differenziata delle regioni e del rischio che una maggiore autonomia delle regioni penalizzi le regioni meridionali rendendo quelle settentrionali più forti economicamente di quello che già sono adesso. Il dibattito è molto acceso e le posizioni sono contrastanti. I governatori delle regioni del Nord rassicurano sul fatto che l’autonomia differenziata non penalizzerebbe le regioni meridionali ma l’opinione pubblica meridionale è giustamente diffidente.
    Ma sono contrastanti anche le opinioni sul regionalismo dato che stanno aumentando coloro che danno un giudizio negativo sull’esperienza regionalistica. Essi si basano soprattutto sulla cattiva prova data da molte regioni nel momento in cui la crisi Covid 19 si è fatta più acuta. Ma io penso che la situazione delle regioni italiane non sia molto diversa da quanto riscontrato dal sociologo statunitense Robert Putnam nel 1993, quando scrisse il famoso libro Making Democracy Work: Civic Traditions in Modern Italy (tradotto in italiano con il titolo La tradizione civica nelle regioni italiane). Quello che verificò Putnam, e che credo sia sostanzialmente verificabile anche adesso, è che le regioni del Nord di solito funzionano meglio di quelle del Sud per varie ragioni ma che fondamentalmente il loro funzionamento è migliore perché nel Nord c’è un senso civico più sviluppato che nel Sud.
    Ciò che, però, non può essere messo in discussione è l’anomalia derivante dal potere abnorme di cui stanno godendo i presidenti delle regioni. Tale peculiarità è emersa soprattutto durante la crisi del Covid 19, quando essi si sono autoattribuiti un potere (quello di gestire un’emergenza sanitaria nazionale) che la Costituzione attribuisce al governo centrale e che il governo centrale non è stato in grado di strappare loro. Ma il potere abnorme era emerso già in altre occasioni. Ad esempio quando il presidente del Veneto Luca Zaia è riuscito a fare (imponendo al Consiglio regionale veneto la modifica dello Statuto) un terzo mandato che la Costituzione non prevede oppure quando il presidente della Campania Vincenzo De Luca ha preso decisioni fortemente contrastanti con quelle del governo nazionale o ha offeso più volte i componenti del governo senza essere sanzionato.
    Ha fatto bene, perciò, il sociologo Sergio Marotta (Moderne signorie crescono; Corriere del Mezzogiorno, 7/12/2022) a sottolineare l’abnorme potere di cui godono oggi i presidenti delle regioni richiamando quanto sostenuto dal magistrato Michele Oricchio (che ha pubblicato nel 2020 il libro La questione istituzionale nell’Italia delle nuove Signorie) e dal compianto costituzionalista Gianni Ferrara.
    Questi aveva individuato l’origine del cortocircuito istituzionale tra Stato e Regioni, non tanto e non solo nella sciagurata riforma del Titolo V della Costituzione, avvenuta nel 2001, bensì nella doppia matrice della legittimazione politica dei quindici presidenti delle regioni a statuto ordinario rispetto a quella del governo nazionale. Questa doppia matrice fu malauguratamente introdotta con la riforma costituzionale del 1999 che estese ai presidenti delle regioni la legge sull’elezione diretta dei sindaci. Il testo dell’articolo 122 della Costituzione, come modificato nel 1999, prevede infatti che i presidenti delle giunte regionali possano essere eletti a suffragio universale mentre il nuovo testo dell’articolo 126 prevede che soltanto la mozione di sfiducia nei confronti del presidente della giunta eletto a suffragio diretto può provocare lo scioglimento del Consiglio regionale che, quindi, è un organo necessariamente subordinato al presidente, salvo suicidio politico.
    Secondo Sergio Marotta Gianni Ferrara definiva il nuovo assetto dei poteri dei presidenti delle regioni a Statuto ordinario come un vero e proprio «feudalesimo elettivo», perché l’incremento del potere delle regioni è in realtà un incremento del potere dei presidenti delle giunte regionali, non temperato da nessun altro. Insomma se il Titolo V del 2001 era, secondo Ferrara, un monumento all’«insipienza giuridica e politica» — dove per insipienza deve intendersi «ignoranza, stoltezza intellettuale o morale, ottusità di spirito» —, la coesistenza tra la riforma del 1999 e quella del 2001 ha dato luogo a un unicum nei sistemi costituzionali degli Stati unitari occidentali che pone i presidenti delle regioni in un potenziale conflitto politico permanente con il governo nazionale.
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    Quelli della mia generazione sono cresciuti con una certa idea della sinistra e dei partiti che la rappresentavano; per noi la sinistra era una parte politica che difendeva i valori della libertà, della democrazia, dell’uguaglianza, della pace e della solidarietà. Era facile schierarsi perché era tutto molto chiaro. Ma con l’andare del tempo le cose si sono complicate; c’è stata una mutazione genetica all’interno del maggiore partito della sinistra. Sono stati tollerati e acclamati personaggi che non avevano niente a che fare con i valori tradizionali. L’ascesa alla segreteria del Pd e poi alla Presidenza del Consiglio di un personaggio come Matteo Renzi (un personaggio arrivista, accentratore e a caccia di potere) è stato un segnale preciso della suddetta mutazione genetica. Ma essa era già in atto da tempo. Una cartina di tornasole inequivocabile è l’atteggiamento che i vari segretari del Partito Comunista Italiano, poi Partito democratico della sinistra, poi Democratici di sinistra e poi Partito democratico (Enrico Berlinguer, Alessandro Natta, Achille Occhetto, Massimo D'Alema, Walter Veltroni, Piero Fassino, Dario Franceschini, Pier Luigi Bersani, Guglielmo Epifani, Matteo Renzi, Matteo Orfini, Maurizio Martina, Nicola Zingaretti, Enrico Letta) hanno avuto nei confronti di Vincenzo De Luca. Hanno tutti tollerato che egli (segretario della Federazione del PCI di Salerno dal 1975 al 1985, sindaco di Salerno dal 1993 al 2001 e dal 2006 al 2015, presidente della Regione Campania dal 2015): 1) facesse il bello e cattivo tempo; 2) fosse autoritario, arrogante e volgare sia nei confronti degli avversari interni di partito che nei confronti degli avversari politici esterni, dei giornalisti, dei funzionari amministrativi, ecc.; 3) si comportasse in modo chiaramente clientelare. Hanno tutti accettato l’idea che fosse possibile avere all’interno del partito un personaggio che si comportava peggio dei classici notabili meridionali. Enrico Letta, per la verità, sembrava volersi distinguere dai suoi predecessori. Quando De Luca ha appoggiato l’elezione a sindaco di Benevento di Clemente Mastella egli è andato a sostenere il candidato del Pd e quando De Luca ha escluso dalla direzione della Fondazione Ravello lo scrittore Antonio Scurati egli lo ha invitato alla Festa dell’Unità nazionale. Ma quando si è trattato di fare le liste elettorali delle ultime elezioni politiche Enrico Letta ha fatto pubblicamente un accordo con De Luca consentendogli di candidare il figlio Piero a Salerno in una posizione sicura per l’elezione alla Camera dei deputati. Non si distingue dai suoi predecessori Stefano Bonaccini, quello che sarà, molto probabilmente, il prossimo segretario del Pd. Anche lui ha stretto un accordo con De Luca promettendogli che il figlio Piero sarà il referente del Pd nazionale per tutte le questioni che riguardano il Mezzogiorno. Mi sarei aspettato che Elly Schlein, l’avversaria di Bonaccini nella corsa alla segreteria del Pd, fosse cosciente della grossa anomalia che rappresenta per il Pd la presenza di uno come De Luca e che dicesse parole chiare contro di lui ma questo non è avvenuto. Anzi ha nominato come suo portavoce Francesco Boccia, un personaggio che è stato colui che concretamente ha siglato l’accordo tra la segreteria nazionale del Pd e De Luca prima delle ultime elezioni politiche. Ma, ciò che è peggio, lo ha nominato senza che facesse nessuna autocritica per i suoi stretti legami sia con De Luca che con Emiliano.
  12. .
    Il senatore Francesco Boccia è un vecchio sostenitore del notabile Michele Emiliano, presidente della Giunta regionale pugliese. Nel 2021 egli è stato nominato Responsabile Autonomie Territoriali ed Enti Locali della Segreteria nazionale del Partito democratico e nel 2022 commissario del Pd in Puglia e Campania. In qualità di commissario regionale ha gestito l’indecente accordo elettorale tra il Pd e Vincenzo De Luca che ha portato, tra l’altro, alla rielezione come deputato di Piero De Luca, figlio del presidente della Giunta regionale campana. Il senatore Boccia, che è stato appena nominato coordinatore della mozione Schlein, ha rilasciato un’incredibile intervista (GIOVANNA VITALE: Boccia: Schlein è il futuro. Coordinerò la sua campagna e ricuciremo con il M5S; La Repubblica, 21/12/2022). Ecco i punti, secondo me, più rilevanti: 1) Elly Schlein rappresenta la speranza di un cambiamento epocale che la sinistra aspetta da tempo. Con lei alla guida del Pd torneremo ad essere il primo partito dei progressisti e, ricucendo con il M5S, riusciremo a battere le destre. 2) Sostenere Draghi insieme alla destra è stato un errore fatale. Ha rivinto la logica del potere anziché le ragioni della sinistra. 3) Dopo la caduta del governo Draghi bisognava andare uniti al voto con il M5S. Se fosse successo la Meloni non sarebbe a palazzo Chigi. Una scelta presa dall’intero gruppo dirigente del Pd, me compreso, che sono stato travolto anch’io dalla sicumera di chi diceva che il Paese si sarebbe indignato per la caduta di Draghi. Le mie risposte alle affermazioni di Francesco Boccia sono le seguenti: 1) Dire che Ella Schlein rappresenta la speranza di un cambiamento epocale che la sinistra aspetta da tempo e non dire una parola contro i notabili Emiliano e De Luca è intollerabile. Significa non ammettere che la presenza dei due governatori all’interno del Pd è il principale elemento di sottomissione del Pd alla logica dei gruppi di potere e dell’affarismo. Tra l’altro egli non ha risposto neanche a Vincenzo De Luca che pochi giorni fa, il 19 dicembre, ha chiamato miserabili e anime morte i dirigenti del Pd degli ultimi 15 anni (quindi anche lui). 2) Il governo Draghi non è nato per rispondere a logiche di potere. Dopo le dimissioni del governo Conte 2, avvenute il 26 gennaio 2021, e al termine di un giro di consultazioni, il Presidente della Repubblica Sergio Mattarella ha conferito al Presidente della Camera dei Deputati Roberto Fico un mandato esplorativo per verificare l'esistenza di una solida maggioranza tra M5S, PD, LeU, IV e EU-MAIE-CD, che ha avuto esito negativo. Il 3 febbraio il Presidente della Repubblica ha allora convocato al Quirinale Mario Draghi per conferirgli l'incarico di formare un nuovo governo. Draghi ha accettato l'incarico. Il 13 febbraio 2021 l'esecutivo ha prestato giuramento, entrando ufficialmente in carica. Mattarella in quell’occasione ha spiegato che era meglio evitare di fare campagna elettorale e organizzare nuove elezioni in un periodo cruciale per l’Italia. In vista del voto l’attività del governo in carica sarebbe stata ridotta, dato che i partiti sarebbero stati impegnati nella campagna elettorale: secondo Mattarella questa circostanza sarebbe stata dannosa. Un governo ad attività ridotta non sarebbe stato in grado e non avrebbe potuto occuparsi di questioni importanti come la campagna vaccinale contro il coronavirus, la fine del blocco dei licenziamenti prevista per marzo e le trattative con la Commissione Europea per l’uso dei fondi del Recovery Fund. 3) All’indomani della caduta del governo Draghi e l’indizione delle elezioni politiche Letta aveva due alternative: o allearsi con le forze politiche del centrosinistra che avevano sostenuto Draghi o allearsi con i Cinquestelle che avevano contribuito a farlo dimettere. Non era possibile allearsi con tutte queste forze politiche perché Carlo Calenda aveva fatto capire chiaramente che era contrario ad un’alleanza con i Cinquestelle. In quel momento i sondaggi davano a Calenda e al Terzo Polo un consenso quasi uguale a quello dei Cinquestelle (intorno al 10%). Inoltre, per allargare il campo dei consensi, Letta ha sottoscritto un accordo elettorale con Sinistra Italiana e Verdi, che sono state forze politiche contrarie al governo Draghi. Si potrebbero imputare a Letta due eventi che sono accaduti dopo la caduta del governo Draghi: la rinuncia all’alleanza col Pd da parte di Calenda e la risalita nei consensi da parte dei Cinquestelle. Ma erano eventi effettivamente prevedibili? Io penso di no, anche tenendo conto del carattere volubile di Calenda e della furbizia politica populista di Giuseppe Conte.

    Edited by Franco Pelella - 17/1/2023, 20:00
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    L'architetto Fausto Martino (ex Soprintendente alle belle arti e al paesaggio di Cagliari, Oristano, Carbonia-Iglesias, Medio Campidano e Ogliastra) mi ha girato la seguente lettera:

    Replica al negazionismo di Sergio Costa.
    Gent.le on.le Sergio Costa,
    per replicare alle sue perentorie affermazioni e rendere comprensibile il dialogo, sono costretto a pubblicare lo screenshot del breve scambio intercorso su questa pagina perché, certamente per errore, ha disabilitato i commenti alla sua risposta.
    Ho lavorato per quarant'anni nel Ministero dei beni culturali e ho fatto il Soprintendente. Mi sono - sempre - battuto per il "paesaggio", peraltro conseguendo apprezzabili risultati fin dall'emanazione della legge Galasso (anche per la tutela del patrimonio boschivo a lei caro, in Sardegna) al punto da ricevere da Italia Nostra e ne sono onorato - l'ambitissimo premio nazionale Zanotti Bianco 2019. Dunque, mi creda., conosco la materia.
    Sappiamo tutti che l'isola d'Ischia è interamente sottoposta a vincolo paesaggistico e pertanto, per ottenere il condono edilizio, è sempre necessario acquisire "il parere favorevole delle amministrazioni preposte alla tutela del vincolo stesso", da individuarsi - in Campania - nei Comuni (che vi provvedono previo parere della Soprintendenza).
    Credo però sappia che le tre leggi di condono edilizio (47/1985, governo Craxi - 724/1994, governo Berlusconi - 326/2003 - governo Berlusconi) non sono identiche, tutt'altro.
    Dopo la legge 47/1985 (la più permissiva), le ulteriori leggi - per evitare censure di incostituzionalità - hanno fatto registrare sensibili "restrizioni". La 724/1994, per esempio, ha imposto limiti volumetrici e la 326/2003 ha, di fatto, escluso che potessero condonarsi abusi edilizi nelle aree sottoposte a vincolo paesaggistico.
    Come osservato dalla Corte Costituzionale (cfr. per tutte, sentenza n. 181/2021 ) «[...] la stessa normativa relativa al terzo condono prevede, all’art. 32, comma 27, del d.l. n. 269 del 2003, come convertito, che "le opere abusive non sono comunque suscettibili di sanatoria, qualora: […] d) siano state realizzate su immobili soggetti a vincoli […] qualora istituiti prima della esecuzione di dette opere, in assenza o in difformità del titolo abilitativo edilizio e non conformi alle norme urbanistiche e alle prescrizioni degli strumenti urbanistici."»
    Converrà dunque che, prima del provvidenziale intervento legislativo che lei sminuisce, nell'Isola d'Ischia, come in tutte le altre aree del nostro disgraziato Paese sottoposte a vincolo paesaggistico, la legge 326/2003 (c.d. terzo condono) NON avrebbe potuto consentire di "sanare" i fabbricati abusivi né tantomeno di erogare contributi statali per risarcire i danni da calamità.
    A questa "pecca" pose rimedio il sig. Luigi Di Maio, allora potente ministro del governo di Giuseppe Conte che, per quanto riportato dalla stampa, si fece promotore della norma infilata di soppiatto nel "Decreto Legge Genova": il famigerato e criptico art. 25 di cui ancora oggi si discute.
    L'operazione, condotta con il consueto (ed osceno) modo di legiferare cui è difficile assuefarsi, doveva essere poco appariscente, così da evitare che montassero proteste e che, in sede di conversione, si svegliasse qualche parlamentare. E tuttavia la norma doveva consentire di portare a casa il bottino: il condono edilizio degli abusi non condonabili e, quindi, anche per essi, l'erogazione dei contributi statali per il risarcimento dei danni da sisma.
    Et voilà. Il gioco di prestigio è tutto nel primo comma dell'art. 25 del D.L. Genova, poi convertito nella legge 130/2018.
    Glielo riporto, così da evitare fraintendimenti:
    "Al fine di dare attuazione alle disposizioni di cui al presente capo, i Comuni di cui all'articolo 17, comma 1, definiscono le istanze di condono relative agli immobili distrutti o danneggiati dal sisma del 21 agosto 2017, presentate ai sensi della legge 28 febbraio 1985, n. 47, della legge 23 dicembre 1994, n. 724, e del decreto-legge 30 settembre 2003, n. 269, convertito, con
    modificazioni, dalla legge 24 novembre 2003, n. 326, pendenti alla data di entrata in vigore del presente decreto. Per la definizione delle istanze di cui al presente articolo, trovano esclusiva applicazione le disposizioni di cui ai Capi IV e V della legge 28
    febbraio 1985, n. 47.
    Dovrebbe essere chiaro, no? Le istanze di condono edilizio presentate ai sensi della legge 326/2003 che - per le disposizioni della legge stessa, più volte chiarite dalla Corte Costituzionale e dalla Giustizia Amministrativa, avrebbero dovuto essere denegate con conseguente ordine di demolizione e impossibilità di erogare i contributi per i danni da sisma - sarebbero state esaminate ai sensi della più permissiva legge 47/1985.
    Questa leggina da azzeccagarbugli - che, per la sua storia, farebbe bene a non difendere - è un nuovo condono?
    Stricto iure, forse no. Non c'è, infatti, una nuova legge rubricata come "Condono edilizio degli immobili abusivi di Ischia al fine di consentirne la riparazione a spese dello Stato". Messa così, non sarebbe mai passata. E dunque ha ragione, tecnicamente non è un nuovo condono. Ma, dia retta, ci somiglia moltissimo. E, soprattutto, le conseguenze sono le stesse.
    Un cordiale saluto.
  14. .
    Nei giorni scorsi Macron e Biden hanno detto che vorrebbero organizzare una conferenza di pace per porre fine alla guerra in Ucraina ma Putin ha subito risposto che è interessato ad essa se si accetta il principio che la Russia non rinuncia ai territori occupati. Cosa emerge da questo scambio di opinioni? Che la situazione è bloccata perché il governo russo non intende rinunciare ai territori per entrare in possesso dei quali ha attaccato l’Ucraina (Donetsk, Luhansk, Zaporizhzhia e Kherson) e che ha formalmente annesso il 30 settembre scorso. Il problema di fondo qual è? Che la Russia è recidiva perché nel 2014 ha annesso la Crimea, che faceva parte dell’Ucraina, senza che nessun organismo internazionale abbia riconosciuto la validità del referendum che ha decretato l’annessione. Per questo motivo, per non legittimare ulteriormente la prepotenza, gli ucraini non possono accettare di cedere i territori annessi dai russi quest’anno. Se il governo russo avesse fatto capire che era disposto a rinunciare a tali territori accontentandosi della Crimea probabilmente (al di là della formale non rinuncia alla Crimea da parte degli ucraini) ci poteva essere a breve una soluzione pacifica al conflitto ma nel momento in cui il governo russo fa capire che non vuole fare alcuna rinuncia territoriale allora la soluzione pacifica diventa molto difficile. Mi chiedo se questo scenario è chiaro a coloro che insistono perché le nazioni occidentali si impegnino a trovare a breve una soluzione pacifica al conflitto. Mi chiedo anche se essi ritengono moralmente ipotizzabile una rinuncia, anche parziale, da parte degli ucraini a Donetsk, Luhansk, Zaporizhzhia e Kherson. Significherebbe legittimare la forza bruta senza avere alcuna considerazione per gli ucraini che dovrebbero rinunciare ad altri territori, dopo la Crimea, dopo essere stati barbaramente attaccati e massacrati.
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    Michele Serra, rispondendo sul Venerdì di Repubblica del 25 novembre al lettore Francesco Loseto, ha scritto che “…grava sul partito di Conte una specie di stigma che li qualifica come populisti, e tanto basta per liquidarne la presenza come un ostacolo insensato alle magnifiche sorti progressive del centrosinistra liberal”. Ma il populismo è stato fin dalla nascita, e continua ad essere, il marchio principale del M5S. Essi hanno innanzitutto avversato il professionismo politico. Beppe Grillo nei suoi comizi e nei suoi spettacoli ha sempre portato avanti l’idea che tutti possono fare politica e che non è necessario possedere particolari conoscenze. Ma tutti i Cinque Stelle hanno sempre sostenuto che per governare non era indispensabile militare per diverso tempo in un partito o conoscere i meccanismi governativi, legislativi ed economici. Il risultato ultimo di questi ragionamenti è stato il rifiuto di concedere il terzo mandato ai loro parlamentari. Inoltre essi hanno sempre instillato l’idea che non bisognava credere alla scienza, in particolare alla scienza medica. Beppe Grillo ha sostenuto che l’aumento di bambini autistici era correlato all’uso di farmaci, vaccini, inquinamento ambientale e alimentare; nel 2009 ha scritto sul suo blog che si era informato su internet sulla necessità di vaccinarsi all’influenza suina e ha chiesto ai suoi utenti: «ne uccide più il virus o il vaccino?». Nel corso, poi, della pandemia del Covid 19 molti esponenti dei Cinque Stelle hanno insinuato dubbi sulla validità dei vaccini e hanno solidarizzato con i no vax. Ma il loro populismo emerge anche dal modo in cui affrontano le tematiche economiche. La loro tendenza è quella di proporre misure economiche in favore di vaste fasce della popolazione, misure che sicuramente procurano benefici diffusi, ma senza preoccuparsi minimamente se l’attivazione di queste misure provoca delle truffe o degli squilibri nei conti pubblici. Questo è successo sia con il reddito di cittadinanza che con il bonus 110%. Eppure il rischio di truffe, quando si distribuiscono ingenti somme, dovrebbe essere sempre presente nella mente di chi fa il legislatore in Italia.
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