MIRKO CONFALONIERA

Posts written by Liutprando

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    1 - Sono passati 9 anni da quella notte a Salonicco, durante quell’altro viaggio verso Istanbul di allora. Ma la luna nel cielo di Smirne, pardon, Cesma (letteralmente: "fontana"), piccola località balneare a 80 km dal capoluogo, è la stessa di allora. Parole e voci nella testa, ma dal tono calmo come il mar Egeo, che resta lì immobile senza onde, come un gigantesco lago salato. Volti di donne, diverse e lontane, nel tempo e nello spazio, pensieri in lingua italiana, l’unica che sento da quando sono arrivato in Turchia due giorni fa. Mi piace viaggiare da solo in questa parte di mondo anche per questo. Si zittisce la cacofonia di urla, suoni, schiamazzi, brusii e torni a essere soltanto uno sconosciuto che cammina in mezzo a tanti sconosciuti. Libertà.
    Antalya. Sud della Turchia. Un caldo afoso e umido nonostante siamo alla fine di settembre. Il taxi che mi porta verso l’hotel in centro città ha i finestrini alzati e l’aria condizionata sparata a mille. Fuori lo smog del traffico intenso delle cinque pomeridiane lungo le superstrade e le circonvallazioni che attenagliano la metropoli di 2 milioni di abitanti rendono il calore ancora più insopportabile. Non male per uno come me che odia le stagioni calde più di ogni altra cosa presente in tutto l’universo conosciuto.
    Il mare mi salverà.
    In realtà il centro cittadina sorge su un altro sperone roccioso, e il tanto agognato mare resta là sotto, giù dall’alta scogliera che si ammira dalle ringhiere dell’Ozcan Parki, piccolo e microscopico polmoncino verde in mezzo a palazzi e grattacieli che svettano verso l’alto fra il catrame e le strade di Antalya. Bella la vista sul porticciolo e sulla spiaggetta rocciosa di Mermerli, ma se voglio concedermi il primo bagno in mare di questa vacanza di fine settembre devo raggiungere la Konyaalti Plaj, una spiaggia che si trova nella parte occidentale della città e che si estende per 13 km di lunghezza. Molti siti di turismo la definiscono una delle spiagge più belle di tutta la Turchia. D’altronde le foto viste su internet non lasciavano alcun dubbio. Prendo un taxi, efficiente ed economico mezzo di trasporto per spostarsi in Oriente. Soprattutto nelle grandi città le vetture gialle pullalano a ogni incrocio, sfrecciano per ogni via o restano semplicemente parcheggiate ai bordi delle strade in attesa che qualcuno ci salga sopra. Per andare alla Konyaalti, che è parecchio fuori dal centro, pago qualcosa come 5 euro, calcolate al cambio della premunita lira turca. Arrivo quasi al tramonto, nella prima parte da dove iniziano praticamente i 13 km di riviera. La spiaggia è composta principalmente da sassi e ciottoli fini, ma presenta anche un po' di sabbia. L'acqua è meravigliosamente limpida e cristallina. La rinfrescata con il sole al tramonto e ormai sceso dietro le alte alture del Tauro, e la luna quasi piena che si innalza sullo sperone che sembra sorreggere la città vecchia di Antalya sullo sfondo è da cartolina di altri tempi.
    Di sera, passeggiando per Anafartalar caddesi, un elegante via pericentrica adobbata di negozi, minimarket, rosticcerie e quant’altro, mi accorgo quasi subito che non c’è traccia di alcolici. Il ragazzo che mi serve gentilmente un ottimo piatto turco a base di carne di ovino, verdure speziate e pane arabo mi dice che è possibile bere solo in alcuni “clup” (club). Ce n’è uno subito dall’altra parte della strada, tutto addobbato di lucine rosse e foto di ragazze mozzafiato che fanno subito intendere che tipo di club sia… Peccato che l’ingresso sia sorvegliato da tre tizi altri e grossi come gli armadi di casa mia e che a me, acconciato in maniera perennemente casual (capelli lunghi e spettinati, beretto portato all’indietro, orecchini, tatuaggi, t-shirt da serata in birreria con amici e pantaloncini corti da educazione fisica), non mi farebbero entrare neppure come zerbino d’ingresso. L’altra alternativa sono i piccoli mini-market aperti 24h, che vendono un po’ di tutto, dalle sigarette, agli alimentari, e a bottiglie di birre e superalcolici: te li mettono dentro sacchetti scuri e te li puoi solo portare in camera d’albergo per sbronzarti allegramente tutta notte da solo. Ottimo programma, magari se fosse in bella compagnia di qualche bella ragazza turca, soprattutto delle poche che sfilano per Anafartalar senza veli e anzi mostrando le grazie che la madrenatura d’Oriente ha regalato loro…
    No, non mi va.
    Mi manca il classico baraccio, di cui mi innamoro sempre, dove entro, mi siedo, ordino una birra, fumo una sigaretta, e faccio passare il tempo a combattere contro una notte calda e appiccicosa. Nel sud del Paese vigono ancora rigidi precetti islamici: niente alcool. Cammino un po’, incrociando i tanti e simpaticissimi gatti che abitano in questa città ad ogni angolo di via: sono tutti molto socievoli, si lasciano avvicinare e accarezzare. Compreso quello che staziona sempre davanti all’ingresso del mio M-Oda Otel. Meglio dormirci sopra, anche perché martedì è stata una giornata piena.
    Iniziata, con una abbondante colazione turca al Teras Café Bilardo, un locale all’aperto che si affaccia sulla scogliera che dà direttamente sul piccolo e raccolto porticciolo. Mi portano un vassoio pieno di ogni cosa, da carne a verdure a uova sode, che condivido per forza di cose con una masnada di gatti randagi che attratti dall’odore di cibo mi circondano e mi stringono d’assedio per tutto il tempo. Mi reincammino attraversando il Mehmetcik Park e il Tophane Parki, dove inizia praticamente il vero centro storico e dove c’è una grande statua di un uomo a cavallo a fianco di un pennone sulla quale sventola orgogliosamente la bandiera turca. Da qui inizia il bellissimo dedalo di viette piccole e strette dell’Old Bazaar, un labirinto di botteghe e negozi che vendono di ogni cosa, dall’artigianato locale, a cibi, spezie, indumenti, tappeti, ecc.. E’ bello smarrirsi in quest’atmosfera di altri tempi e soffermarsi ogni tanto ad ammirare una vetrina oppure le tante chincaglierie esposte. Le stradine in discesa finiscono dritte al porto, una circola struttura dove sono ormeggiati dai pescherecci, ai battelli che offrono mini-escursioni al largo della città a rifacimenti perfetti di navi pirata che sembrano uscite da film o da libri di Salgari. Giro tutto attorno e mi dirigo verso il porto canale meridionale, che separa dalla spiaggetta del Mermerli Plaj. Come detto, in realtà si tratta di scogli e rocce che danno direttamente sul mare, e l’unico lido attrezzato prende posizione su una piattaforma leggermente sollevata. Ombrelloni e sedie a sdraio ricoprono tutto lo spazio accessibile. La limpidezza dell’acqua di un mare cristallino e dai colori da favola permette, tuttavia, anche di spostarsi un po’, lungo gli scogli del porto canale. Così facendomi strada fra passanti, curiosi e pescatori appoggio lo zaino nei pressi del piccolo faro alla punta e mi concedo una mattinata di refrigerio nella chiare acque del Mediterraneo orientale.
    Dopo mezzogiorno ritorno su alla città vecchia, riattraversando il porticciolo nello stesso momento in cui dalla torre della piccola moschea di Iskele Camii parte l’adhan, la chiamata islamica alla preghiera, cantata dal Muezzin.
    "Allahu Akbar /
    Ashadu an la ilah illa Allah /
    Ashadu anna Muhammadan Rasul Allah"
    (traduz.: “suvvia alla salvezza spiriturale! (due volte) Allah è grande! (4 volte) Non v’è alcun Dio al di fuori di Allah! (2 volte)).
    In tempi come i nostri, dove spaventano molto le religioni e le culture diverse dal nostro vivere quotidiano, è comunque difficile restare indifferenti all’atmosfera mistica che si crea ogni qual volta i Muezzin dall’alto dei minareti delle moschee fanno partire queste preghiere in forma cantata.
    Pomeriggio in un lido alla Konyaalti Plaj, siturato a circa metà della sua lunghissima spiaggia, dove scopro che gli stabilmenti balneari almeno in questa parte di Turchia sono un po’ esclusivi, nel senso che non sono accessibili a tutti (la maggior parte dei turchi affolla le spiagge libere attorno), nonostante i prezzi decisamente irrisori per noi turisti (un ombrellone e due lettini a due passi dal bagnoasciuga a 150 lire turche – qualcosa come 5 euro). Serata, invece, dopo solita cena in un ristorante turco (i kebapp e i piatti turchi che mangiamo in Italia non hanno nulla a che fare…), trascorsa freneticamente fra le viuzze dell’Old Bazaar (quello sito in centro storico) per cercare un paio di souvenirs da portare in Italia. Troverò quello che cerco, ma solo dopo un girovagare assurdo e l’ennesima sudata della giornata.
    Oggi, infine, è stato un giorno dedicato quasi esclusivamente al viaggio da Antalya (sud) a Cesme, piccola cittadina a ovest di Smirne (Truchia occidentale). Uno spostamento di quasi 700 km, dal mar Mediterraneo al mar Egeo, non seguendo la costa ma attraversando le parti più selvagge e interne della penisola anatolica. Il mio bus diretto Antalya – Cesme, in realtà, è stato cancellato ieri pomeriggio grazie a un simpatico SMS arrivatomi dalla compagnia Kamil Koc, che senza troppe spiegazioni mi diceva (tradotto dal turco): “Gentile cliente, la informiamo che la sua corsa di domani per Cesme è stata annullata. Le auguriamo giorni di buona salute”.
    Grazie per l’augurio, ma grazie anche al caxxo: come ci vado a Smirne?
    Fortunatamente gli spostamenti in Turchia sono molto semplici da programmare via internet, per cui sono bastati pochi passi sul sito Flixbus, per riprenotare una corsa da Antalya (con partenza alle 7:00 di mattina) per Smirne. E poi per percorrere gli ultimi 80 km a Cesme, non ho trovato nulla e mi sono affidato a un caro vecchio modo di dire qui della zona: “Insciallah!” (se Allah lo vuole…).
    Gli Otogar sono grosse autostazioni dei bus, che però sorgono tutte fuori dai centri urbani. Quindi stamattina sveglia a un orario inumano, taxi preso praticamente al volo quasi buttandomi in mezzo alla strada e quasi facendomi stirare, e transfer di una bella ventina di minuti nella periferia estrema nord-orientale della città in mezzo a svincoli della tangenziale esterna. Ho dormito pareccho tempo, ogni tanto mi svegliavo e facevo qualche foto al paesaggio brullo esterno. Abbiamo incrociato acquazzoni e zone a temperature decisamente più basse dei 30 gradi rivieraschi, fatto soste in alcune città lungo il viaggio, dove scendevano e salivano persone in continuazione. Ci hanno fermato a tre posti di blocco, perché qua in Turchia funziona così, che fermano anche i pullman di linea, un poliziotto della Jendarme sale a bordo e controlla ogni documento di identità (io per tre volte ho esibito il mio passaporto). Ero l’unico occidentale a bordo, almeno fino a Denizli, dove è salito un gruppetto di ragazzi/e spagnoli. Siamo arrivati a Smirne puntuali alle 15:50, nonostante il fitto traffico incontrato da Aydin, la fermata appena precedente. Nel giro di pochi minuti e grazie a rapide informazioni allo sportello partiva una corsa per Cesme. Praticamente sono arrivato di corsa al marciapiede 141, ho pagato all’autista 160 lire turche, sono salito a bordo e siamo partiti. Nonostante mancavano solo 80 km il viaggio fino a Cesme è durato un eternità. Lunghe code sulla tangenziale esterna, almeno fino a quando non abbiamo superato le ultime propaggini della metropoli e siamo usciti dal golfo in direzione ovest. Qualche fermata, qualche sosta, insomma a Cesme siamo arrivati un’ora e mezza dopo, e anche qui dall’Otogar che sorge fuori città al centro prendi un taxi, corri in albergo, molla tutto in stanza, corri alla spiaggia più vicina, la carinissima Boyalik Plaj.
    Ci arrivo stremato e ormai quasi al tramonto, ma l’impatto è bellissimo. Il mare è una tavola piatta tipo lago, l’acqua è di un azzurro cristallino da favola. Quasi non si muova una sola onda sulla piccola spiaggetta sabbiosa. Lo sfondo è caratterizzato dalle montagne del promontorio di Cesme e dall’isola di Bandirma. Mi butto in acqua dopo essermi spogliato rapidamente. Il fondale è soffice e sabbioso e bisogna camminare un bel po’ prima di trovare l’acqua alta. Ci sono pochissimi bagnanti, per lo più ragazzotti che se ne stanno in riva al mare a godersi la frescura del tramonto. Tutto attorno villette estive, alberghi e solo più avanti le luci delle discoteche e dei locali del centro di Cesme. A un certo punto da una moschea lì vicino parte la preghiera del tramonto. Ecco, in quel momento in cui sono completamente immerso in un mare paradisiaco, pieno di pace e di tranquillità, con il canto del muezzin in sottofondo avverto finalmente quel senso di benessere che cercavo da troppo tempo immerso nel fango del caos occidentale.
    E che l’Oriente, come sempre, ha saputo darmi.

    2 - Riflessioni di viaggio: come sono i Turchi?
    Il Kimizi Pub di Cesme si aggiudica l'ingresso nella lista ufficiale dei miei "Worst East European Pub" (peggiori baracci dell'Est, in senso lato). Sono bar che trovo quasi telepaticamente in ogni viaggio, dove basta entrare e per certe atmosfere mi fanno sentire a casa. Non sono sempre bettole o pub "popolari", sono più locali con i quali si instaura subito un non so che di familiare e di complicità. Tra l'altro il Kimizi ha prezzi leggermente superiori alla media, ma la gestione giovanile, la location della zona del porto e le luci soffuse fra tavoli e bancone non hanno lasciato molti dubbi alla mia ricerca.
    A Cesme sto trascorrendo due giorni tranquilli. Nella giornata di oggi, giovedì, quarto giorno di viaggio, ho raggiunto due spiagge che sorgono nella zona nord di questa piccola penisola sulla quale sorge la città. Sorgono a 6 km dal centro cittadino, quindi è stato necessario prendere un taxi per arrivare in zona. La prima, vista stamattina, è la Kocakari Plaj, un’ampia spiaggia che crea un bel golfo fra il lungomare del quartiere e una zona verde e incontaminata. Ho trovato più bella, tuttavia, la successiva, ovvero la Palmiye Plaj, che anche se più piccola e raccolta in un lungomare urbanizzato, offre un mare molto più bello e cristallino. Siamo sul Mar Egeo, in un tratto di mare compreso fra l’isola di Chio e l’estremità della penisola di Smirne.
    In questi giorni in alcuni (più di uno) mi state chiedendo come sono i turchi e come mi trattano. Beh, spiace sempre un po' dirlo ma il fatto che siano turchi (o albanesi, rumeni, russi, ecc.) e non taluni italiani potrebbe già dare una buona risposta... La giusta cordialità è di casa, nella norma. L'altra sera ad Antalya un ragazzotto sui trent'anni che lavorava in uno di quei minimarket H24 che vendono un po' di tutto, e dove sono entrato a comprare un pacchetto di sigarette, mi ha chiesto in inglese di dove fossi.
    "Italy!"
    "Aaah, Italia! Spaghetti e Mafia!" e giù a ridere.
    Ho accompagnato la risata annuendo.
    D'altronde non è mica la prima volta che mi capitano scene di questo tipo. Purtroppo i nostri stereotipi sono arrivati sempre prima di me ovunque.
    "Italia: Berlusconi, mafia e signorine buonasera" dettomi anni fa da un poliziotto di dogana alla frontiera fra Georgia e Armenia.
    "Sei italiano e perché vieni in Albania a fare le vacanze? Trasporti droga? Perquisiamo auto!" al porto di Valona prima di imbarcarmi per Brindisi.
    "Italiani! Italiani! Scendere e controllare documenti e bagagli!" alla frontiera fra Albania e Macedonia del Nord (unici due perquisiti su un pulmino di linea con a bordo una trentina di passeggeri, di ogni nazionalità, anche europee).
    Noi siamo questi nel mondo o almeno in questa parte di mondo. Esportatori di mafia e di delinquenza. Almeno siamo questo cliché. Ma sicuramente non siamo un popolo che può sentirsi superiore a nessun altro.
    È vero che ho scritto che spesso il mio look mi fa un po' confondere con i popoli dell'Est, soprattutto quando una decina d'anni or sono riuscivo a dire due o tre frasi di senso compiuto in lingua rumena senza sbagliare parole, declinazioni e generi. Ma alla fine che sono italico un po' viene sempre fuori. Eppure mi hanno sempre trattato se non bene con una tranquilla indifferenza. Anzi, in un paio di casi, in Romania e in Russia, emeriti sconosciuti sono addirittura accorsi in aiuto nel semplice momento di avermi visto in difficoltà. Da sincera commozione.
    E noi occidentali come siamo? Abbiamo ancora questa umanità da qualche parte? Io credo che sia questo che dovremmo chiederci prima di sapere come sono turchi, albanesi, rumeni, ecc...
    Per concludere, i turchi, quelli incrociati finora, mi sembrano brava gente. Chissà se anche noi italiani lo siamo: cliché turchi cattivi contro italiani mafiosi. Chi ha ragione allora?

    3 - Il mio primo viaggio a Istanbul fu alcuni anni fa, esattamente nel 2014. Io e Anthony, un mio compagno di viaggio di vecchia data, atterrammo con un volo di linea a Tirana, e dopo un paio di giorni nella capitale albanese decidemmo di raggiungere la città turca attraversando la parte meridionale dei Balcani. Quello fu un viaggio sicuramente più avventuroso, partiti senza prenotare alcuno spostamento, ma basandoci di volta in volta sulle possibilità che c’erano. Così, trovammo un pullmino da dieci posti che ci portò a Skopje, in Macedonia, poi, dopo due giorni, un pulmino di linea che andava a Salonicco, e da lì finalmente il bus notturno per Istanbul. La Grecia all’epoca stava vivendo una profonda crisi economica, le ferrovie erano ferme da anni e trovare informazioni su internet prima di partire fu pressoché impossibile.
    Il viaggio di questi giorni, invece, l’ho pianificato e organizzato tutto on line, così da facilitare gli spostamenti, e gli eventuali “piani B” in caso di cancellazione delle corse, come nel caso dell’altro giorno, ma il tutto è avvenuto tramite tempestiva comunicazione. Da qualche anno la compagnia Flixbus è sbarcata anche in Turchia, anche se non opera direttamente ma si appoggia alla locale Kamil Koch, un’azienda di trasporto pubblico che sulla penisola antalica opera da un secolo.
    Per percorrere i quasi 650 km di distanza da Cesme a Istanbul ci impieghiamo praticamente tutto il giorno. L’unico bus giornaliero diretto verso la città del nord al confine con l’Europa parte alle 11:00 di mattina, e arriva a destinazione alle otto di sera. Percorre un itinerario “interno”, dapprima in direzione di Bursa, città settentrionale adagiata sul bacino del Mare di Marmara, e poi tutto il lungocosta rimanente fino allo stretto del Bosforo, quando appare così quasi dal nulla Istanbul, una megalopoli di 15 milioni di abitanti. Sospesa fra due continenti, e fra passato futuro. Enormi grattacieli futuristici, tangenziali, superstrade, moschee, palazzi antichi e un formicaio di esseri umani in perenne movimento. Dall'autostazione di Dudullu, parte asiatica, prendo un taxi e attraverso l'intera città per recarmi dall'altra parte, sulla zolla europea. Un lungo tunnel che passa sotto il Mar di Marmara, che separa e tiene insieme un non luogo del quale è difficile cogliere ogni infinito aspetto. L'imponente Moschea Blu, le viette dei vari centri, spegnere il navigatore sul cellulare e lasciarsi smarrire fra le mille atmosfere e sensazioni di una notte di luna piena sul Bosforo. Un chai bevuto seduto fuori da una bottega che vende di tutto, gatti randagi, persone che vanno, donne col velo, qualcuna col burqa. E poi scoprire il lungomare pieno di luci all'orizzonte. Questo solo assaggio di Istanbul s'è meritato l'intero viaggio, dall'Italia a qui, dal Sud al Nord della Turchia, attraverso le sue sfaccettature, i suoi mari, la sua gente, la sua storia. Il mio viaggio finisce idealmente qui, sul lungomare di Emononu, in un venerdì sera che non ha voglia di dormire, confutando la vita passata, quella che passa e quella che verrà. Ero già stato a Istanbul nel 2014 per alcuni giorni, e restarci solo una notte mi ha dato le stesse suggestioni di allora. Ero alla ricerca di qualcosa che riempisse un po' i vuoti, i pensieri, la stancante routine di sempre. E l'Oriente, come sempre, non è stato da meno. Come sempre. In queste sere ad ammirare una luna piena su Smirne o le stelle sul mare di Antalya tanti pensieri affollavano la mia mente. Ora è finalmente sgombra, qui, davanti a questa meravigliosa bellezza del creato e dell'uomo. Che infinita nostalgia....
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    nbts-viaggi-tunisia-deserto-sahara

    "Dimmi solo che mi vorresti qui,
    quando vagherai da solo là fuori,
    fra quelle colline di polvere e quei venti che soffieranno forte,
    solo in quell’oceano bianco e arido,
    solo e perduto in mezzo al deserto.
    Seduto con te in un cerchio di fuoco
    io dimenticherò i giorni andati via,
    proteggerò la tua anima e il tuo corpo
    dai miraggi e dalle illusioni che vedrai
    solo e perduto in mezzo al deserto.
    Se le tue speranze si disperderanno
    come la polvere lungo il tuo cammino,
    io sarò la luna che brillerà sul tuo sentiero,
    se il sole accecherà i nostri occhi,
    io pregherò i cieli lassù
    che la neve cada sul Sahara.
    Se quello sarà l’unico posto dove potrai lasciare i tuoi problemi,
    io sarò lì con te e sarò la tua via d’uscita,
    e se bruceremo insieme
    io pregherò i cieli lassù
    che la neve cada sul Sahara…"
    (Snow on the Sahara, Anggun)

    1 - Non è Pasqua oggi a Tunisi, come non lo è mai in un Paese mussulmano. Oggi, domenica 9 aprile, qui è la Festa dei Martiri, giornata di proteste e di commemorazioni che ricordano il 9 maggio 1938, quando la nazione era sotto il colonialismo della Francia, e si celebra l'84esimo anniversario degli scontri tra gli indipendentisti e gli occupanti, a cui i primi chiedevano riforme e un Parlamento per segnare un nuovo passo verso l'indipendenza, ma almeno 21 tunisini morirono a causa della repressione delle forze armate francesi. Nel pomeriggio di oggi sono scesi in piazza quelli del Fronte di Salvezza Nazionale che davanti al Teatro Municipale hanno protestato contro il presidente Saied chiedendo la sua destituzione e il rilascio dei prigionieri politici.
    Già da ieri pomeriggio, al mio arrivo, l’avenue Habib Bourguiba, il grande viale a due carreggiate e con un’allea al suo centro, che scorre orizzontalmente da ovest a est unendo la Medina con la superstrada per il porto de “La Goulette”, era presidiato da uomini della polizia e dell’esercito. Transenne sono state piazzate per limitare il traffico a una sola carreggiata (quella che dalla stazione di Tunisi Marina corre verso la Porta di Francia), e anche il marciapiede del lato meridionale a un certo punto era sbarrato e non si poteva proseguire. Numerose camionette dell’anti-sommossa stazionano ogni tot. metri e c’è un forte dispiegamento di forze dell’ordine e di militari. Gruppetti sparsi, che stazionano qua e là e osservano tutto ciò che succede. Alcuni soldati imbracciano fucili con mirini ad alta precisione.
    Fa un po’ impressione vedere questo scenario, che non è nuovo nelle memorie dei miei viaggi e che mi riporta alla Kiev del 2014 (durante l’occupazione dei paramilitari dell’immediato post-Maidan), ma se sposto lo sguardo altrove la vita pare “normale”, nella valutazione che può dare uno come me, giunto per la prima volta in questo Paese del Nord Africa: locali e negozi aperti, gente che viene e che va, traffico intenso di auto, taxi e bus in ogni direzione. In questi giorni c’è ramadam, periodo dell’anno in cui si pratica il digiuno dall’alba al tramonto, in commemorazione della prima rivelazione del Corano al profeta Maometto. Durante il giorno nei bar e nei ristoranti si vedono solo turisti, mentre l’alcool non si vede proprio, neanche una goccia da quando sono arrivato. Il costo della vita è veramente basso, anche se ho notato che qualcuno, vedendo che sono occidentale (e sono da solo), cerca di arrotondare un po’ verso l’alto, ma poca roba. Pago quello che mi dicono e lascio anche un po’ di mancia. Ieri sera per una cena al Cafè Panorama (appena dietro l’angolo del mio albergo, il Confort Hotel Tunisi) ho pagato la pochezza di 45 dinari tunisini (poco più di 13 euro) per un abbondante “combo” di antipasto + secondo di pesce, più acqua minerale, più l’immancabile thé arabo con foglia di menta. Ieri la corsa del taxi dall’aeroporto a rue de Marseille, dove sorge il mio hotel, mi è costata 5,50 dinari (1,50 euro). Prezzi che nel mondo occidentale sono assolutamente inimmaginabili.
    L’arrivo in aereo (volo diretto con la compagnia TunisAir da Milano Malpensa) è stato caratterizzato da lunghi controlli subito dopo l’atterraggio. Al controllo passaporti la zelante ufficiale dietro lo sportello (con il velo attorno al viso, come tutte le donne, anzi, qualcuna indossa addirittura i burqa integrali...) ha voluto sapere quasi tutto di me: da dove venivo, che lavoro faccio in Italia, il motivo per cui sono in Tunisia, quanto tempo ho intenzione di fermarmi, dove sono diretto oltre a Tunisi e in che albergo avrei alloggiato. Le ho dovuto mostrare la prenotazione stampata dal sito booking.com.
    Faccio qualche passo in avanti verso l’uscita e un altro controllo: un altro poliziotto vuole vedere il passaporto. “Prego”. “Come mai a Tunisi?” “Turismo”. “Cos’ha nello zaino?” “Oggetti personali”. “Tipo?” “Magliette, pantaloni, un tablet e dei libri”. “Ok, vada”. Parlo un po’ in francese e l’altro po’ in inglese, laddove non arrivano i miei ricordi del français sperduti nei lontani anni delle scuole medie e superiori, prima che venisse scalzato dal più amato español all’università e dal più recente autodidatta român.
    In Nord Africa c’ero già stato, nel 2016, con il moi amico Petrus, in Marocco, e come allora ho constatato subito che per un turista europeo è pressoché impossibile riuscire a vedere la Medina (la cittadella antica) senza essere placcato subito da un poliglotta locale che fa l’amicone della vita e che vuole ‘solo’ accompagnarti in giro per dividere un caldo pomeriggio primaverile con te. Il mio nella fattispecie si chiamava Abdul e qualcos’altro, ha vissuto a Brescia, ha visto anche Milano, adesso lavora qui a Tunisi in un negozio che vende oli per il corpo. Mi parla che è tempo di ramadam, che oggi è la Festa dei Martiri, e che è meglio evitare Place de la Victoire per raggiungere il centro perché è imballata di bancarelle e quant’altro (per via di una tipica ‘Fiera’ di questo periodo dell’anno).
    Bab El Bhar, detta appunto Porta di Francia o anche Porta del Mare (effettivamente è rivolta verso il porto), è un gigantesco arco che separa la Medina dalla città moderna. In effetti pensare di passare oltre è fuori discussione, così la mia volontaria guida ci fa prendere una vietta secondaria, dove ci immettiamo subito nel Suq che domina gran parte del centro storico. I suq, detti talvolta bazar, indicano i mercati arabi e sono caratterizzati da una serie di bancarelle e negozi tutti attaccati agli altri, spesso locati in stretti vicoletti coperti. Si vende di tutto, dalle spezie alle stoffe, alle pelli, a ogni cosa possibile, ecc..
    La compagnia di Abdul effettivamente è d’aiuto perché frena un poco i mercanti dal propormi di comprare di tutto. Dopo avermi portato in un sedicente ‘Museo del Tappeto’ (in realtà un grosso negozio di tappetti dove un ragazzotto furbetto che parla tutte le lingue del mondo, prima mi fa esplorare liberamente tutto l’edificio da terra al terrazzo, poi cerca di vendermi un prezioso arazzo per 4.000 dinari tunisini - promettendomi di spedirmelo a casa e che ‘ci pensa tutto lui’...), il piano di Abdul si concretizza nel trascinarmi nella ‘sua’ bottega di oli e profumi, gestita in realtà da un suo giovane amico. Mi viene il dubbio che Abdul viva di questo : agganciare turisti, trascinarli in più posti e poi ricevere commissioni sugli affari che i suoi amici riescono a concludere…
    Dopo aver rifiutato una boccia di Olio d’Argan, spacciatami per un olio da corpo super-miracoloso (“Ha pure un potentissimo effetto afrodisiaco”, “Sono in Tunisia da solo…”, “Ma con questo conquisti tutte le donne che vuoi appena uscito da qui”…) a un prezzo che corrisponde a un paio di cento euro, mi accordo per quattro più modeste ed economiche fialette da 20 cl. l’una, di oli alle fragranze di ‘cactus’, ‘jasmine’, ‘la maison’ e ‘nuit de Carthage’. Speriamo di riuscire a farle passare al controllo scanner quando dovrò riprendere l’aereo per tornare a casa, anche se ne dubito, visto i controlli meticolosi dell’arrivo…
    Vabbè, la computo come una piccola tassa di soggiorno, che non mi è costata neanche troppo, per salutare ‘mon ami Abdul’ ed essere finalmente libero di vedere la Medina da solo. Ma subito dopo me ne pento, perché una volta da solo e senza più la mia ‘guida’, sarà un continuo assalto di venditori che cercano di vendermi qualsiasi cosa, perfino quadri e vasi in ceramica che non saprei nemmeno dove mettere.
    - Italiano ? Italiano ? Buongiornooo, prego amico, comprare!
    Niente da fare, si vede che non ho più quell’aria est-europea che nei primi viaggi nella mia cara Europa Orientale mi faceva mimetizzare così bene. Ma qui riuscirebbero a capire da che parte del mondo arrivi solo vedendoti camminare e leggendoti la nazionalità sulla tua faccia.
    Fra migliaia di ‘no, grazie!’, ‘no, merci!’, ‘no, thanks!’, la Medina la giro in fretta, un po’ seguendo la mappa incorporata nella mia guida, un po’ perdendomi per i suoi vicoletti. Certo, l’atmosfera sarebbe un po’ più rilassata se si evitasse di passare dagli assalti dei venditori alle vie sgombre dai suq dove a ogni passo e a ogni incrocio di sguardo mi sento squadrato dalla testa ai piedi.
    Niente da fare, così è impossibile raggiungere i quartieri a nord del centro. Tanto le varie moschee non posso manco visitarle, perché l’ingresso nelle moschee in suolo africano è consentito solo ai mussulmani (con tanto di cartello affisso fuori) - le uniche moschee che ho visto in vita mia, infatti, sono quelle dei paesi dell’Est Europa, tipo Bosnia e Albania). Mi metto il cuore in pace e mi butto sulla lunga rue Jamaa Ezzitouna, la principale arteria pedonale che collega la Grande Moschea con la Porta di Francia. Passo attraverso un’atmosfera quasi cinematografica d’altri tempi, dove incrocio chiunque (anche altri turisti come me) e dove, ovviamente, vengo continuamente fermato e invogliato a comprare qualsiasi cosa.
    Nella giornata di quella che in Italia sarebbe “Pasquetta” ho preferito, invece, spostarmi da Tunisi e andare a vedere la mitica Cartagine. Della antica città di Annibale oggi restano molte cose interessanti da vedere, come il Parco Archeologico, il Museo Nazionale e altri monumenti tipo il Teatro Romano. L’ingresso a ogni area costa 12 dinari (3,60 euro), si può scegliere di avere una guida (con un sovrapprezzo) oppure accedere liberamente.
    Cartagine sorge a 20 km in direzione nord-est di Tunisi, e si affaccia sulle acque del bellissimo e cristallino Golfo di Tunisi (mar Mediterraneo). Per arrivarci ci sono frequenti treni che partono dalla stazione di Tunisi Marina con una frequenza di 20-30 minuti, dalla mattina fino a sera inoltrata. Non è una ferrovia gestita dalla Societé National Des Chemins de Fer Tunisiens, ma è una linea a scartamento ridotto, comunque elettrificata e a doppio binario. Il materiale rotabile è di tipo leggero (ricorda molto una nostra ‘metropolitana’), generalmente composto da due vagoni attaccati fra loro. Ci mette pochi minuti a percorrere tutta la tratta. L’atmosfera è un po’ più ipotesa, essendo ‘Carthage’ un luogo generalmente bazzicato solo da turisti, anche se appena fuori tassisti e soliti venditori di bancarelle cercano sempre di racimolarti qualsiasi cosa.

    2 - Non è un bel boccale di birra ghiacciata quello che tengo fra le mani, che mi piacerebbe tanto tracannare con gusto nello stesso tempo. Non tocco alcool da 72 ore, qui in Tunisia, praticamente da quando sono arrivato. Nei caffé di città o lungo le strade verso il Grande Sud si serve solo caffè arabo o il famoso thé con foglie di menta. C’è di bello, e quello sì, che il Café Nomade sorge proprio su suolo desertico e che di fronte a me si alza la “grande duna” dalla cui cima si osserva un mondo vuoto e stupendamente desolato.
    Sono a Douz, “la porta del Deserto”, 520 km a sud di Tunisi, percorsi oggi con il più lungo spostamento di questo tour. Avrei dovuto prendere un pullman di linea della società di trasporti “SNTRI”, che dall’autostazione di Bab Aliwa (poco a sud del centro storico) collega la capitale con praticamente tutta la parte meridionale del Paese. Il pullman partiva stamattina alle ore 11:00 e sarebbe arrivato a Douz, dopo svariate fermate, alle 19:45, in piena “notte”. A proposito, qui siamo un’ora indietro rispetto all’Italia, ma non per via di un fuso orario differente, ma semplicemente perché in Tunisia non c’è l’ora legale. Quindi il sole sorge prestissimo alla mattina e tramonta altrettanto presto di sera, e il Ramadam - che si sta religiosamente osservando in questi giorni - dura per tutta questa fascia oraria solare.
    Dicevo, sarei arrivato tardi, con il sole già tramontato dietro le alture occidentali dell’Algeria, per cui ho preferito dare retta a un consiglio che sabato pomeriggio Abdul mi aveva confidato: non esistono solo i pullman a lunga percorrenza, ma ci sono dei “furgoncini” da nove posti che partono per ogni destinazione (delle sorte di taxi collettivi). Non hanno orari, semplicemente partono quando il furgoncino ha a bordo otto passeggeri (più ovviamente l’autista). Sono diretti in un’unica meta, non fanno fermate intermedie e di conseguenza sono molto più veloci.
    Stamattina mi reco, quindi, di buon’ora alla “Gare Routiere Sud” per cercare questi “mini-van”, ma una volta in loco mi spiegano che questi mezzi un po’ alternativi partono da un’altra autostazione, quella della Moncef Bay. Un autista tunisino, vedendomi scendere dal taxi, aggirarmi da solo sperduto in un mondo che non conosco, e chiedendo queste informazioni con tono disperato, si offre di accompagnarmi a piedi per un pezzo. Sarebbe dall’altra parte di un trafficatissimo mega-svincolo (Tunisi è piena di superstrade a più corsie, con incroci, sopraelevate, uscite, ingressi, e a parte la zona centrale è impossibile spostarsi a piedi: prendete il taxi o la metrotranvia che sono economicissime) e per arrivarci farei prima quasi a prendere un altro taxi per farmi portare a neppure 800 metri di distanza. In linea d’aria, perché a piedi dovrei fare un giro assurdo e allungare di 2 chilometri e mezzo per evitare di finire probabilmente stirato da bolidi che corrono uno dietro l’altro sul mega-svincolo fra la statale N1 e l’avenue de Carthage.
    Il signore tunisino di mezza età mi guida attraverso una scorciatoia fra stretti passaggi di pullman, pulmini, cabine, uffici e quant’altro e ci arrampichiamo un po’ fuori pista sul cavalcavia della ferrovia della Gare de Tunis. Una volta oltrepassato, mi scorta fino a un semaforo e mi fa cenno di proseguire dritto fin dove gira quella “voiture à la droite”. Ringrazio di cuore e obbedisco alle sue istruzioni.
    Arrivo alla stazione di Moncef Bay, che alla fine è un gigantesco capannone pieno imballato di questi furgoncini bianchi con una striscia rossa orizzontale al centro; è affollata (molto più dell’altra) di passeggeri in partenza per ogni dove. E’ inutile citare il fatto che – dopo una rapida carrellata con lo sguardo – mi accorgo di essere l’unico occidentale in loco, ma questo a parte qualche occhiata di curiosità non desta altre preoccupazioni. Mi metto in fila davanti al gabbiotto dove si fanno i biglietti. Il prezzo di sola andata per Douz è di 42 dinari tunisini, che corrispondo a 12,60 euro (non male per 500 e passa km di distanza). Mi indicano che i furgoncini per Douz partono in fondo, dalla parte opposta del mega parcheggio coperto.
    Devo continuamente chiedere, perché i cartelli esposti sui parabrezza dei veicoli sono scritti esclusivamente in alfabeto arabo. Finalmente trovo il mio mini-van, fermo nella sua piazzola, e con il suo autista seduto lì vicino che chiacchiera con alcuni colleghi.
    - Douz? - domando per l’ennesima volta.
    - Sì, è questo.
    - A che ora parte?
    - Quando siamo in otto.
    - Okay. Quanto tempo ci mette?
    - Cinque ore e mezza se non facciamo ritardo.
    Faremo una mezz’oretta di ritardo e ce ne metteremo sei di ore. Il problema è che non si parte davvero finché il furgoncino non è pieno. Al mio arrivo a bordo ci sono solo una donna seduta nella fila posteriore, un’altra con due bambini che occupano tutta quella centrale. Entrambe le donne indossano il velo. Mi accomodo in fondo, accanto alla donna da sola, che per rompere il ghiaccio mi chiede dove solo diretto, se è la prima volta, se ho mai visto il Deserto, ecc..
    Passa un bel po’ di tempo, più di un’ora, e arrivano un signorotto senza bagaglio, che scenderà a Kebili (poco prima di Douz, lungo la strada) e un giovane con uno zainetto in spalla. Si attende ancora e vanamente l’arrivo dell’ottavo passeggero. Un po’ stufo di quella attesa imprecisata, scendo e chiedo se posso andare a prendermi un caffè. Domando gentilmente all’autista se ne vuole uno anche lui, ma mi risponde con una risata e poi mi ricorda che è ramadam e che non può bere nulla. Rimango colpito da una così rigida osservanza di questi precetti religiosi.
    - Excusez moi, je ai oublié – rispondo sinceramente.
    Vicino alla biglietteria c’è un piccolo chioschetto bar. Prendo un succo di frutta e un tubetto di biscotti ripieni di crema. Li divoro in un attimo, perché uscendo presto dall’hotel non ho fatto neppure colazione; ho anche tempo di fumare una sigaretta.
    Convintosi del fatto che non saremo mai in otto, finalmente l’autista decide di partire. Sono le 10:30 di mattina e con un rapido calcolo capisco che arriverò a Douz ben prima del tramonto. Ottima mossa.
    Il viaggio dura 6 ore come accennato, con due velocissime soste, una per fare rifornimento a una stazione di servizio, l’altra (dove non saprei dire con esattezza) per scendere a sgranchirci le gambe una manciata di minuti. Durante il viaggio un po’ dormicchio, un po’ osservo dal finestrino il paesaggio esterno che nei già citati 500 e passa chilometri subirà notevoli trasformazioni.
    Innanzitutto imbocchiamo una superstrada veloce e dritta che nel giro di pochi minuti ci fa passare dai quartieri a ridosso del centro alle periferie meridionali della metropoli. Mi addormento la prima volta e al mio risveglio, verso mezzogiorno, stiamo percorrendo un paesaggio tipico della macchia mediterranea, con boschi di uliveti a perdita d’occhio inframezzati da lunghe file di fichi d’india. La “malefica” autostrada a pedaggio arriva fino a Gabès, seguendo la litoranea e toccando città come Hammamet, Monastir e Sfax. Quando mi risveglio la seconda volta l’abbiamo abbandonata (credo proprio a Gabès), siamo su una strada a carreggiata unica e il paesaggio è completamente diverso. Un panorama arido, brullo, fatto di terra bruciata: è come correre su un suolo marziano, di colore rossastro, dove gli unici punti di riferimento sono alture distanti. Per miglia e miglia non si scorgono paesi, città, niente di niente. Attraversiamo pochi centri urbani, senza fermarci, a parte quella sosta veloce accanto a un piccolo negozietto: ognuno dei passeggeri prende qualcosa da mangiare e da bere, che però conserverà per dopo il tramonto, ovviamente.
    Avrei fame, ma mi adeguo. I due bambini della fila centrale alternano per tutto il viaggio lunghe pause di silenzio a momenti dove diventano due pesti vivaci e insopportabili. Non toccano cibo neppure loro, mentre la madre cerca vanamente di tenerli a bada.
    Il primo grosso centro attraversato per intero è Kebili, dove la nostra strada P16 prosegue per Tozeur, mentre noi prendiamo una diramazione per Douz, uno degli ultimi avamposti della regione sud-occidentale della Tunisia. Pochi minuti ci separano dal capolinea, la stazione degli autobus della cittadina saharaiana di quasi 30 mila abitanti. E’ conosciuta come “la Porta del Deserto”, perché qui finisce la terra arida che ci sta accompagnando da Gabès e iniziano le vere e proprie dune di sabbia. Il capoluogo è tuttavia circondato da una rigogliosa oasi di palme da dattero, che caratterizza soprattutto tutta la parte meridionale, quella che porta a Ghilissia, diciamo il quartiere “turistico”, pieno di alberghi e da dove partono i tour organizzati (ma anche non organizzati…) che si avventurano a bordo di dromedari o di moto quad fra le sabbie del Sahara.
    Dalla stazione dei bus al “Sahara Douz Hotel” dove ho prenotato una notte, ci arrivo a bordo di un taxi (5 dinari). L’albergo è bellissimo, fin troppo per me, un quattro stelle strappato all’irrisoria cifra di 40 euro a notte: per la prima volta in vita mia mi capita una cosa che finora avevo visto soltanto nei film. Ho un accompagnatore che mi fa strada verso il primo piano e la mia stanza. Mi apre la porta, mi accende le luci, apre le finestre, mi chiede se la stanza è di mio gradimento. E’ una camera grande quanto un monolocale, con bagno privato, e una gigantesca finestra dalla quale filtra luce solare e la frescura dell’oasi circostante. Mi viene da ridere pensando alle tante bettole dove mi sono accontentato di dormire per risparmiare un po’ durante i miei viaggi del passato... Alla fine della presentazione rispondo che la stanza è “très jolie” e gli offro una gradita mancia.
    Sono le cinque di pomeriggio, ma qui il sole picchia molto più forte di Tunisi. Le temperature esterne dicevano 20 gradi, ma le previsioni le danno in aumento per i prossimi giorni. C’è molta escursione termica, quello sì, perché appena cala il sole il calore crolla a picco, ma non fa “freddo” come molti pensano: si scende attorno ai 12-13, non di più.
    Se attraverso la strada, di fronte al mio hotel, c’è il Café Nomade, e subito dopo un sentiero che si arrampica su una grande duna. Fa la sua impressione vederla lì, anche se la zona è battuta da un bel via vai di gente che arriva e passa o a cavallo, o in sella a qualche moto o a bordo di fuoristrada. Non è ancora il vero deserto da questa parte, è ancora terra arida, dove non cresce un filo d’erba, ma dalle sembianze scure e argillose. Quando finalmente sono lassù, invece, eccolo lì davanti ai miei occhi lo spettacolare “Erg” (che si chiama così), il deserto vero e proprio formato da sabbie disposte a dune. Non sono alte come quelle che avevo visto a Merzouga, durante il mio precedente viaggio in Marocco di sette anni fa, ma il colpo d’occhio è davvero entusiasmante: finalmente davanti a me l'infinito mare di sabbia e polvere, dove riposare il corpo e smarrire la mente, il Deserto del Sahara!
    Resto lassù a guardare questa sconfinata distesa che si protrae verso l’eternità. Scendo, cammino un po’ intorno, percorro la strada fino alla “Porta del Sahara”, una costruzione ad arco che simboleggia proprio la fine della terra e l’inizio di questo mondo senza confini (tra l’altro ogni anno da novembre a dicembre sotto questo monumento viene svolto il "Festival del Sahara" che richiama le tribù nomadi di tutto il Nord Africa).
    Lungo la strada corrono un sacco di motorini, con a bordo anche due o tre persone. A un certo punto, dall’altro lato del boulevard, due ragazzotti accostano la moto a bordo marciapiede. Quello dietro ha in mano un fucile nero con canna lunga e un calcio grande quasi quanto le mie due scapole. Si mette a mirare un paio di uccelli che appollaiati sul filo della luce si godevano un po’ di pace. I volatili, disturbati dai due tizi, si alzano in volo e scappano via. Il tipo dietro li segue per qualche secondo per la mira e penso che stia per spare un colpo, ma poi desiste. Si voltano verso di me guardandomi con due ghigni poco rassicuranti (in un baleno mi immagino che sarò derubato, fatto fuori e seppellito sotto qualche cunetta di sabbia per l’eternità). Rimettono in moto il motorino e se ne vanno guardandomi e sghignazzando in maniera poco amichevole. Poco più avanti ci sono tanti gruppetti di ragazzini che invece girano in bicicletta. Alcuni mi salutano con cordiali “Bonjour monsieur!”, altri mi chiedono gentilmente se posso dare loro qualche monetina, altri mi chiedono la stessa cosa ma in maniera non per niente gentile...
    Okay, mi sono stufato, dietro-front e torno sulla grande duna, ma c’è ancora tanto casino: turisti, avventurieri, vacanzieri a dorso di dromedario che vengono e che vanno. Allora, preferisco tornarci più tardi. Dopo la cena nel ristorante appena sotto il mio hotel e dopo il thé arabo tonificante che bevo al Café Nomade.
    - Vuoi andare sulla Grande Duna a vedere il deserto di notte? - mi domanda il ragazzo alla cassa dopo avermi dato il resto dei miei 10 dinari.
    - Sì, volevo andarci prima di andare a dormire! – ammetto.
    - Vai pure, non c’è problema. Nel deserto non ci sono pericoli e non devi avere paura.
    E chi ce l’ha paura? Penso fra me.
    Ho molta più paura di altre cose che ci pressano nel nostro piccolo mondo occidentale: la routine di tutti i giorni, la sveglia al mattino, la coda in auto di ogni mattina lungo la strada per Pavia, timbrare i cartellini, ripetere meccanicamente le stesse cose, passare le giornate con la sensazione di gettarle via senza aver fatto niente di veramente importante. E senza dimenticare la paura più grande, quella di innamorarsi puntualmente di donne sbagliate.
    L’amore, le sue illusioni, le sue conseguenze...
    Il deserto di notte non potrà mai farmi più paura di tutto questo, perché una volta che sono ancora là in cima alla “grande duna”, ma stavolta da solo, avvolto dal silenzio e dal buio di un bellissimo cielo stellato, allora non penso più a niente.
    Solo che è bello stare qui, e che ne è valsa davvero la pena esserci arrivato.

    3 – Non è ancora il vero deserto quello che inizia a Douz, subito dopo la “Porta del Deserto” o la “Grande Duna” alla fine della stradina del Cafè Nomade. Il vero Sahara è più avanti, verso sud, e per addentrarsi veramente nel senso “di deserto” come lo intendiamo nella nostra cultura di massa ho scelto di raggiungere il Camp Wad Erramal a dorso di dromedario, che sorge a due ore di “cavalcata” a sud dalla città.
    Il mio appuntamento è alle 9:00 di martedì mattina, fuori dall’Hotel Sahara Douz, dove un ragazzotto a bordo di un fuoristrada mi passa a prendere puntualmente. Facciamo poca strada. Molto prima della “Porta del Deserto”, sul lato sinistro della strada che costeggia le prime dune di sabbia, c’è un bar/café a cui ero passato davanti ieri pomeriggio. Qui scendo e una volta entrato nella sua graziosa veranda con vista deserto, come da indicazioni nel cortile, ad attendermi c’è un camelliere di nome Marzug (un uomo di mezza età, alto, scuro, vestito con un lungo velo che gli avvolge la testa e vesti arabe che gli cascano lungo tutto il corpo. Parla quasi esclusivamente arabo e pochissime parole in francese.
    I nostri dialoghi saranno più o meno tutti così:
    “ça va?”
    “Très bien!”
    E nulla più.
    Con lui ci sono tre dromedari, pronti per la traversata. E sfatiamo subito un altro luogo comune per chi non lo sapesse: i cammelli vivono in Arabia Saudita e in Asia, mentre in Nord Africa ci sono i dromedari. Sono bestioni enormi, dal pelo chiaro e giallognolo, con due occhi giganteschi che sembrano palle di biliardo scure infilate nelle orbite, un collo a zig-zag che forma una curiosa “esse”, due ginocchia per zampa negli arti inferiori (che permette loro di piegare le gambe in due punti) e una bocca lunga e pronunciata, con la quale masticano in continuazione qualsiasi cosa che raccattano dalla sabbia lungo il cammino e, quando invece soffia loro il vento in faccia, è come se fischiassero un fastidioso cigolìo tipo quello di un cardine arrugginito.
    Poche presentazioni e si parte. Marzug comanda a bacchetta i tre animali: a un suo verso gutturale e molto simile a un raschio in gola, il bestione si alza. Quando, invece, lo tira per la corda e lo tocca sui gomiti anteriori, emettendo un verso più cavernoso e profondo, quello si siede e si accovaccia per terra come un bambino ubbidiente a cui è stato detto di sedersi e di stare fermo. Sono tutt’altro che bambini, però, questi giganteschi e mastodontici camelidi, grossi come grossi cavalli di razza, ma effettivamente più docili, anche se ogni tanto qualcuno, particolarmente seccato da continui ordini e contrordini, emette un verso simile a gorgoglii che sembrano evocare i versi dei draghi sputafuoco delle fiabe di una volta. Le selle sono molto diverse da quelle dei cavalli, ovviamente, formate invece da imbragature con comodi cuscini e da un apposito reggimano a cui aggrapparsi quando sei là in alto a più di due metri dal suolo.
    Partiamo, direzione sud, verso il grande Sahara che dalla Grande Duna di ieri sembrava sconfinato e infinito. E lo è davvero. Nell’immaginario collettivo il deserto è una grande distesa di dune, più o meno piccole, di sabbia, dove non cresce un filo d’erba e che si districa così fino all’equatore. Non è proprio così. Ci sono “macchie” dove le classiche dune e dunette rapiscono lo sguardo e fanno credere sia molto facile arrampicarvici e superarle anche a piedi (altro falso mito…), ma ci sono altri tratti dove invece crescono cespugli xerofiti più o meno grandi, qualcuno abbastanza da poterci infilare sotto e ripararsi dalla potente arsura.
    Arrivo a Camp Wad Erramal alle undici passate di mattina. E’ un campeggio formato da tende a casetta (con dentro comodi letti matrimoniali), la cui disposizione in fila indiana disegna il perimetro nel lato sud ed est. Una fila di canne di bambù, ingiallite dall’aridità, invece, segna gli altri lati. Al centro vi è una grande capanna di legno, con un bel porticato sul lato meridionale, sorretto da grossi tronchi e il tetto modellato da bambù rinsecchito. Un gruppo di giovani gestisce l’area, fra chi si occupa dell’accomodamento in tenda e chi invece lavora nel ristorante, che si trova all’interno della struttura (un grosso salone con tavoli di legno massiccio e panchine disposte ai lati). Sul retro della struttura, sorgono i bagni, una baracca più piccola dotata di cessi e docce in comune.
    Dopo aver appoggiato i miei bagagli nella tenda, ho il tempo per pranzare dentro il locale e accorgermi che al momento sono l’unico ospite. Chiedo se ci sono altri “guest” e un ragazzo, in francese, mi risponde che stasera saremo in tre, mentre fino a ieri notte c’erano una trentina di ragazzi spagnoli che sono venuti fin qui per passare Pasqua e Pasquetta in maniera molto alternativa.
    Dopo pranzo mi leggo i primi capitoli di uno dei tre romanzi di Joe Lansdale che mi sono portato da casa per riempire gli eventuali tempi morti. Si intitola “Cielo di Sabbia” e il tema calza a pennello. Non crediate che di giorno nel deserto picchi un sole spietato senza un filo d’aria. Ieri e oggi, per tutto il pomeriggio, ha soffiato una brezza (a tratti anche moderata) molto fresca, che però alzava in continuazione sabbia e polvere, e che inevitabilmente finivo prima o poi di ingoiare e di riempirmi dappertutto.
    Nel tardo pomeriggio Marzug mi viene a svegliare nella mia tenda urlando qualcosa in arabo che ovviamente non comprendo. Io capisco solo che è l’ora di fare un’escursione attorno al Camp. Partiamo per una piccola gira di un paio d’ore a dorso di dromedario, girando più che altro sulle cime delle dune di sabbia che sorgono verso sud: il colpo d’occhio è incantevole. La sabbia, dapprima di colore chiaro, man mano che proseguiamo in direzione della palla solare, diventa giallognola, come quella che tipicamente si vede in molti film di avventura. La prendiamo comoda, ci fermiamo ogni tanto, mi invita a fare foto e immortalare tutto ciò che vediamo – anche se il paesaggio è sempre monotono, resta sempre davvero affascinante e vorrei scattare una foto ogni secondo. Mi fa anche delle foto lui da terra, con il mio cellulare, immortalandomi in pose epiche, tipo io a dorso di dromedario con la kefiah rossa sul volto e attorno alla testa, che più che un Lawrence d’Arabia sembro più un mujaiddin scappato di casa.
    Torniamo al campo verso sera e noto che ci sono due ospiti in più. Sono madre e figlia di origini italiane (siciliane per la precisione), che però vivono in Francia da anni e, infatti, lei parla benissimo in francese. Dopo aver assistito al tramonto (i tramonti nel deserto sono bellissimi: l’enorme palla di fuoco rossa scende e si inabissa perfettamente dietro questo orizzonte piatto e lineare) ci ritroviamo a cena. La madre della ragazzina, che si chiama Carmela, mi invita al loro tavolo. Dopo una zuppa di verdure, servono a me della carne di ovino alla brace con contorno di patata, mentre per loro due cous-cous vegetariano.
    Ci scambiamo racconti di viaggio. Loro stanno girando in auto con un autista tunisino che sta facendo da guida e stanno vedendo un sacco di cose interessanti. Per tutti è comunque la prima volta in Tunisia.
    Dopo cena ci riuniamo al centro del cortile, fra la baracca-ristorante e le prime dunette di sabbia. C’è un enorme braciere a forma circolare e davanti sono state disposte, sempre in modo da formare un cerchio, panche di legno. Ci sediamo lì, ma l’improvviso calo delle temperature (nel deserto l’escursione termica è ancora più forte) ci spinge a sederci proprio sul muretto del bordo. Restiamo ipnotizzati dalle fiamme che si sprigionano verso l’alto e dal caldo che si proietta verso i nostri corpi.
    Antoine, il loro autista, parla un italiano molto fluido. E’ stato in un sacco di posti, tant’è che che conosce perfino la zona da cui provengo io (cita testualmente: Pavia, Voghera, Tortona). Ci racconta che la primavera è la fine dell’alta stagione turistica per chi viene nel deserto, perché la punta si ha nei periodi invernali. D’estate, l’eccessivo caldo, rende la sabbia più friabile e scivolosa, e non adatta a ogni tipo di escursione (dromedari, quad, fuoristrada). In più, ricorda che proprio nei mesi di dicembre-gennaio a Douz si tiene ogni anno un gigantesco “Festival del Sahara”, dove arrivano le tribù nomadi di tutto il Nord-Africa. Bancarelle di ogni tipo sono esposte lungo la strada, mentre si balla al ritmo di danze tribali che vanno avanti tutta la notte.
    A proposito di notti: il cielo stellato del Sahara è una cosa indescrivibile. Temevo che la luna calante di questi giorni mi avrebbe tirato un brutto scherzo, invece, fortunatamente, il nostro satellite è rimasto dall’altra parte del mondo a litigare con il sole, così da non sorgere nelle prime ore di oscurità. Quando noi in Italia vediamo un cielo stellato scorgiamo solo le stelle più luminose e in mezzo fra loro il nero più nero dello spazio profondo. Nel deserto, invece, quello spazio nero è riempito da decine e centinaia di altre stelline che brillano lassù assieme a quelle più grandi. Lo spettacolo, come detto, è semplicemente meraviglioso. Vado a dormire coprendomi bene, nel letto della tenda c’è un piumone e altre due coperte. Non fa freddissimo come molti pensano; però si sta bene coperti così.


    4 - Nel deserto, se si va a dormire presto, giocoforza ci si sveglia anche presto, per cui stamattina alle 7 ero già in piedi da parecchio e il sole mi aveva preceduto di almeno un paio d’ore. Dopo una veloce colazione sono pronto per una nuova escursione in compagnia di Marzug e i suoi tre dromedari, che stanotte hanno dormito tutti qua al campo.
    Partiamo in direzione sud-est, percorrendo prima un sentiero terroso che scivola fra dune più o meno grandi. Il paesaggio diventa molto “saharaiano” proprio come lo è nell’immaginario collettivo, anche se in lontananza si intravedono piccoli arbusti qua e là. Passiamo davanti a un edificio diroccato, e poco più avanti a un’abitazione circondata da alte mura merlate e poco distante da una piccola torre. Ci arrampichiamo sulle prime dune e ci avventuriamo nell’erg sabbioso. Avanziamo un po’ a dorso di dromedario, un po’ a piedi trascinando con noi i tre docili bestioni.
    Arriviamo a quello che è un pozzo artesiano vero e proprio. E’ un artefatto moderno, posso solo immaginare a che serva nel bel mezzo del deserto, ma è inconfondibile già da lontano. Sulla piccola piattaforma di cemento è installato un archetto di ferro sulla cui sommità è appesa una carrucola. Una botola chiude il profondissimo pertugio: Marzug mi fa avviciare, scopre la botola e mi fa ammirare un pozzo che si getta nel buio più assoluto. Nascondere qualcosa qui non la faresti trovare a nessuno neppure fra mille ere geologiche. E’ comunque un buon punto di riferimento al centro di un infinito mare di sabbia e polvere.
    Dopo aver superato il pozzo risaliamo il crinale di una grossa duna, ma non prendendola per il dritto, bensì girandoci un po’ attorno e compiendo un quasi vorticoso itinerario a “U”. In linea d’aria ci spostiamo di poco, ma ci mettiamo comunque un bel po’. Dall’altra parte del crinale il paesaggio cambia stranamente. La vista del deserto continua la sua infinita distesa verso l’irraggiungibile orizzonte, ma il paesaggio è caratterizzato da grossi cespugli che di frequente spuntano qua e là. Alcuni sono piccolini, altri sono veri e propri cespuglioni di salsola. I dromedari vanno molto ghiotti delle loro foglie e dei loro rametti, tant’è che ne strappano in continuazione per poi masticarli e ruminarli per ore.
    Marzug fa segno di fermarci nei pressi di un grande cespuglio. C’è molta ombra sotto di esso e, anche se indosso la kefiah che mi ripara tutta la testa, un po’ di ombra dopo già due ore di escursione è cosa molto gradita. Ci accampiamo qui e ci restiamo quasi tutto il giorno. Raccogliamo un po’ di “secco” (alcuni cespugli col tempo si sono trasformati in scheletri giallognoli) con il quale appicciamo un bel fuoco. Nel frattempo il cammelliere, usando i tappetini che formavano la sella dei dromedari e le corde che li tenevano insieme, crea un sorta di “riparo” sotto alcuni grossi rami.
    Mi accuccio là sotto per primo, seduto con un grosso asciugamento accovacciato sulla sabbia, mentre Marzug crea la brace per cuocere il pane. Da una sacca appesa a uno dei tre dromedari, estrae un impasto di farina e lo deposita in un piccolo buco scavato fra la brace; poi lo ricopre di brace e sabbia. La sabbia, a quella temperatura, sembra quasi diventare liquida. Dopo qualche minuto estrae il pane cotto sotto brace e sabbia, e dopo averlo pulito per bene, lo spezza e ne passa un po’ anche a me. Molto, ma molto buono.
    Mangio solo io, un’insalata di verdure con l’ottimo pane cucinato alla maniera berbera. Poi, un paio di datteri come chiusura del pasto.
    Visto che ho finito il pacchetto di sigarette comprate a Tunisi, me ne offre lui una. Sono di una marca sconosciuta, non saprei dire quale, un pacchetto bianco con le righine azzurre e le scritte tutte in arabo. Sono forti come il catrame disciolto, se potessi dare un paragone il più azzeccato possibile. Dopo solo un paio di tirate, il filtro della sigaretta è già nero come una miniera di carbone di notte, ma in mancanza d’altro…
    Ci appisoliamo un po’, la brezza del deserto e l’ombra del cespuglio rendono quel piccolo giaciglio un posto davvero piacevole. Ma mentre il mio amico Merzug dorme a russa alla grande, io faccio fatica a prendere sonno. Penso a tante cose, ad altri viaggi, a un altro viaggio, di anni fa, sempre nel deserto. Penso a troppo a volte, lo so, è un difetto che non riuscirò mai a sbrogliare. Ma è impossibile affogare nelle proprie menate in un posto così fiabesco e lontano dai soliti modi di vivere, così, dopo aver scacciato finalmente morsi e rimorsi del passato, chiudo gli occhi e mi addormento anche io…
    Al mio risveglio, i dromedari sono spariti. Seppure Marzug aveva legato loro le zampette anteriori, piano piano, camminando a piccoli passi, i camelidi se la sono squagliata. Mi alzo e mi metto a cercarli, ma dei dromedari non c’è manco l’ombra. Mi arrampico sulla cima della duna più grande, mentre il vento sembra adesso soffiare più forte e alzare tanta di quella sabbia che temo una tempesta ci sorprenda e ci porti via. Dall’altro crinale si vede il pozzo artesiano dove stamattina avevamo fatto la piccola sosta, ma attorno solo dune di sabbia, di qua spoglie e gialle, di là bianchicce e puntellate di cespugli. Non si scorge anima viva, tanto meno dromedari.
    Sveglio Marzug e cerco di spiegargli la situazione, un po’ parlando in francese, un po’ gesticolando. Capisce che sono preoccupato per la scomparsa dei camelidi, ma cerca di rassicurarmi. Li va a scovare, camminando a piedi scalzi sulla sabbia fresca e asciutta del Sahara. Torna dopo una mezz’oretta abbondante, tirando i primi due alla corda e con il terzo, leggermente dietro, che lo segue come un cucciolone. Di cespuglio in cespuglio s’erano allontanati pian piano e s’erano andati ad accovacciare chissà dove. Tra l’altro, l’ipotesi di dovercela fare a piedi per tornare al Camp, balenata per qualche istante nella mia testa, sarebbe stata a dir poco folle. Perché un altro falso mito del deserto sono le distanze, che sembrano vicine, ma che in realtà non sono.
    Dalla cima della duna vedo sì il pozzo artesiano poco distante, ma poi nient’altro. L’orizzonte è un uniforme cumulo di sabbia che si protrae all’infinito a 360 gradi. Per tornare alla base bisognerebbe andare indicativamente verso nord-ovest, ma a parte il pozzo non avrei alcun altro punto di riferimento. Né la torretta, né il tetto della baracca, né la ancora più distante città di Douz. Niente di niente.
    Ci mettiamo un’abbondante ora e mezza per tornare all’accampamento, e anche quando da lontano intravedo finalmente la baracca e le tende del campeggio, dobbiamo ancora salire e scendere dune su dune prima di essere finalmente là. A piedi mi sarei sicuramente perso e avrei vagato per il Sahara per giorni. Alternativa che, comunque, una volta rientrato nella mia routine avrei comunque un po’ rimpianto di non averlo fatto.
    Arrivo alla tendopoli giusto in tempo per una doccia gelata, sistemare un paio di cose e godermi un altro fantastico tramonto sull’orizzonte piatto del Sahara, prima che il buio e le stelle dipingono il cielo e tutto quanto attorno.

    5 - Terminato di mangiare l’ottimo e abbondante cous-cous preparatomi dal cuoco del Camp Wad Erramal, sono andato subito in tenda a finire di leggere il romanzo di Lansdale, “Cielo di Sabbia”. Era buio, ormai notte fonda, e ho saputo che i tre dromedari erano scappati ancora e il povero Marzug, armato di torcia e tanta pazienza, era partito alla disperata ricerca dei tre bestioni. Ho notato da lontano il piccolo fascio di luce della sua torcia elettrica baluginare nel nero della notte, ma pian piano è scomparso avvolto dalle tenebre e dal vuoto del deserto. Non l’ho più visto, né lui, né Alì, Mustapha e Moahmed (i nomi dei tre dromedari con i quali avevo condiviso le avventurose escursioni dei due giorni nel Sahara). Avrei voluto salutarlo con più affetto di quel semplice “très bien” che continuavo a ripetere ai suoi soventi “ça va?”, per chiedermi se era tutto a posto. Sapeva dire solo quello, per il resto parlava solo in arabo. Gran parte delle volte comunicavamo a gesti, ma a un certo punto s’era creata una bella sintonia, quando abbiamo organizzato il piccolo bivacco a un’ora e mezza a sud-est del campo in mezzo all’erg sahariano. L’ho aiutato a raccogliere i ramoscelli secchi di quegli enormi cespuglioni che crescevano qua e là per accendere il fuoco, e lui tutto contento che avevo capito quello che aveva intenzione di fare, senza riuscire a spiegarmelo a parole, mi aveva abbracciato forte sorridendo e dicendomi:
    “Oui! Oui! Mon amì!”
    In quel momento aveva capito che era una brava persona, e che anche se sembrava un vecchio brontolone, che ogni tanto perdeva la pazienza e sbroccava parole incomprensibili dietro a quegli stupidoni dei suoi dromedari, voleva loro un gran bene. E amava tantissimo il deserto, il suo lavoro e la vita che faceva. Mi è seccato molto andar via senza rivederlo. Anzi, senza salutarli, compreso i tre camelidi.
    Mi sono svegliato, casualmente, la prima volta verso le quattro e mezza di mattina, che era già l’aurora. Così ne ho approfittato: mi sono infilato gli scarponcini e solo indossando la felpa e il pigiama mi sono arrampicato su una dunetta vicino al campo per vedere sorgere il sole. L’alba nel deserto, al pari del tramonto, è una cosa spettacolare. Ma forse il sorgere del solo ha qualcosa in più. Dal piatto orizzonte si vede sbucare la gigantesca palla rossa, perfettamente rotonda, che pian piano si eleva su un mondo infinito ed eterno. Soffiava una bella brezza piacevole, che dava tutt’altro che fastidio. Sono tornando in tenda contento come un bambino che aveva fatto per la prima volta nella sua vita un giro sull’autopista e ho ripreso a dormire fino alla sveglia delle 7:30.
    Dopo una veloce colazione al campo ho saluto l’unico ragazzo presente e mi sono raccomandato di salutarmi molto Marzug. Mi è venuto a prendere in auto un altro ragazzo di Douz, che mi avrebbe dovuto accompagnare alla stazione degli autobus. Abbiamo percorso a bordo del suo quattroruote un sentiero terroso che scivolava fra le dune di sabbia per parecchi chilometri, prima di imboccare una strada asfaltata che ci ha portati dritti in città. Per caso all’orizzonte ho visto un cammelliere con tre dromedari che avanzavano lentamente nella mia stessa direzione. Ho immaginato che fosse Marzug con i suoi Alì, Mustapha e Mohamed, e che stesse andando a prelevare un altro me stesso al Café Douar Selma e a riportarlo al campo come in un gioco infinito di scatole cinesi che si ripetono perpetuamente.
    L’autista della jeep che mi stava scortando verso Douz mi ha proposto, tuttavia, una buona offerta. Anziché prendere il pullman della SNTRI, cambiare a El Hamma du Jerud, attendere due ore di coincidenza, prendere un altro pullman per Tozeur, arrivare alla stazione dei bus e prendere un taxi per il nuovo albergo, mi ha proposto il servizio di un suo amico tassista, che in cambio di 200 dinari tunisini mi avrebbe portato direttamente a destinazione. Non è stato solo la comodità in sé a farmi accettare, bensì anche l’offerta di fermarsi a circa metà strada per una mezz’oretta per farmi vedere un posto molto particolare del Grande Sud della Tunisia.
    Così, una volta arrivati al Cafè Douar, scendo dalla jeep, e attendo il nuovo veicolo per andare direttamente a Tozeur. Arriva Thomer, un ragazzone alto, con due spalle grandi quanto un armadio a due piani, e due braccia grosse come i tronchi di una quercia. Parla poco francese, tanto meno italiano, anche se riesco a capire che ha amici italiani che vivono in quel di Brescia. Guida uno dei tanti taxi gialli urbani che sfrecciano in continuazione per le strade della Tunisia. Ma per portarmi così lontano (Tozeur dista 120 km da Douz) toglie dal tetto del veicolo la targa recante l’immatricolazione taxi numero 016. Mi sono venuti in mente le parole di Antoine dell’altra sera, davanti al grande falò al campo: “I taxi urbani non possono uscire dalla città, devi per forza prendere un autobus per andare a Tozeur”.
    Fatto l’ostacolo, trovata la via di fuga.
    Partiamo. La prima sosta la facciamo a Kebili, cittadina che dista una trentina di chilometri a nord di Douz, importante crocevia stradale e dei tanti bus e minivan che partono verso la capitale. Thomer mi fa segno di scendere e di seguirlo in un piccolo negozietto di alimentari, dove lui compra qualcosa da mangiare, ma da portare via (e che toccherà solo dopo il tramonto). Io chiedo se ci sono delle sigarette, ma l’anziano bottegaio mi fa segno di no. Allora Thomer mi porta a un tabaccaio poco più avanti. Ci sono le più classiche delle marche estere, ma siccome da anni colleziono pacchetti di sigarette (le marche più strane, ovviamente, vengono dall’Est Europa), prendo un pacchetto di Oris (una confezione bianca con la scritta “Oris” al centro di una “O” concentrica piazzata in alto) e uno di Caravanes (sulla cui confezione, gialla, ci sono disegnate le sagome di tre dromedari con in sella tre uomini).
    Ripartiamo in direzione ovest, verso Zaouia, scartando quindi la P16 per Gabès che avevo percorso in senso inverso arrivando con il mini-bus da Tunisi. A Zaouia c’è mercato, con tantissime bancarelle di ogni genere disposte lungo la strada principale. Avanziamo lentamente. Poco dopo si apre un luogo assolutamente incantato.
    La P16 attraversa, da est a ovest, il Chott el-Jerid, un lago salato, o meglio quello che ne resta, un’enorme distesa sabbiosa di oltre 5.000 km quadrati. Sono asciutti per la maggior parte dell’anno e ricevono acqua solo in inverno. La caratteristica più intrigante è che questi “sciott” mostrano un fondale sabbioso e argilloso cosparso di cristalli di sale. La cristallizzazione è dovuta all’intensa vaporizzazione dell’acqua. Il paesaggio è incredibilmente “marziano” (poiché comunque la sabbia rossastra ricopre gran parte delle “saline”). All’orizzonte si scorgono soltanto le alture della regione di Sfax, mentre tutto attorno è piatto deserto terroso con una strada asfaltata, che leggermente sopraelevata, ci corre in mezzo. A circa metà, più o meno al confine fra il governatorato di Kebili con quello di Tozeur (ci sono dei cartelli stradali che lo indicano) accostiamo a una piccola improvvisata area di sosta. Ci sono delle piccole baracche di legno, al cui interno uomini e donne vendono grossi cristalli di sale ai turisti di passaggio. Dall’altre parte della strada, appena giù dal terrapieno, si possono ammirare alcuni blocchi di sale, alte circa un metro l’uno, una piccola pozza di acqua salata che funge da salina a cielo aperto, e qualche futile attrazione per turisti come i resti di una barca di legno con la scritta “Titanic”. Il fondale del lago corre uniforme verso le lontanissime montagne rosse marziane, pardon, tunisine. Ma ben prima di quelle, ammiro incredulo ed estasiato il magico fenomeno della “Fata Morgana” (quello omonimo della canzone dei Litfiba), ovvero l’illusione di vedere all’orizzonte racchiuse in una stretta fascia delle inesistenti distese d’acqua. I tanto decantati “miraggi del deserto”, tanto cari a opere di letteratura, cinematografia, fumettistica e altro ancora. D’estate, con ancora più caldo, l’effetto pare sia molto più marcato. Insomma, un posto davvero ai confini della realtà. Se non fosse per il traffico, l’area di sosta “attrezzata” e la famigliola italiana intenta in acquisti di souvenir, potrei benissimo dire che io e Thomer siamo due esploratori spaziali e che stiamo esplorando per la prima volta qualche luna di Giove o di Saturno, tanto il paesaggio circostante ha così tanto dell’incredibile e poco del “terrestre”.
    Ripartiamo per Tozeur, senza più soste. Ci vuole ancora un’abbondante mezz’oretta, anche se il mio autista anziché passare per la città di El Hamma, taglia per una scorciatoia che passa in mezzo alla grande oasi di Alwad Majid. Ci rimettiamo sulla strada maestra e in pochi minuti raggiungiamo la città tanto cara al compianto Franco Battiato per i suoi “treni per Tozeur”. La ferrovia gestita dalla SNCF tunisina è ancora integra, ma purtroppo da tempo i collegamenti ferroviari sono limitati a Mètlaoui, cittadina a 55 km più a nord. Per cui, sfortunatamente, l’idea di tornare verso Tunisi con i treni citati nella famosa canzone dell’artista siciliano era tramontata già prima di partire, e di Tozeur possono restare solo “in vecchie miniere distese di sale / e un ricordo di me, come un incantesimo / e per un istante ritorna la voglia di vivere a un’altra velocità” (cit.).

    6 - Un cartello all’ingresso della città di 33 mila abitanti, capoluogo dell’omonimo governarato, recita in francese “se vieni a Tozueur, torni a vivere”. Allora, tagliamo subito la testa al toro così non ci giriamo troppo attorno. A Tozeur ci sono un sacco di attrazioni, soprattutto appena fuori città, e credo che un plebiscito di turisti ci venga solo per andare a vedere i naturali set cinematografici dove negli anni ‘70 George Lucas girò alcune scene del suo celeberrimo “Guerre Stellari” (le sequenze iniziali, dove il giovane Luke Skywalker vive con gli zii sul pianeta desertico di Tatooine). Scartando subito questa opzione, perché non ho voglia di vedere delle location cinematografiche di un film, seppur bello e pietra miliare del cinema, per vedere un ambiente riconfezionato e reimpacchettati per turisti europei (e infatti il Deserto, quello vero di Douz, l’ho assaporato come volevo io…), ho eletto Tozeur come tappa di transito lungo il mio ritorno verso Tunisi, per perdermi nelle viette della sua piccola e graziosa Medina, e per godermi un po’ di frescura della sua bella Oasi.
    Con il suo splendido palmeto, l’Oasi di Tozeur occupa oltre 1.000 ettari di superficie con un diametro di circa 3 km. E’ irrigata da circa 200 sorgenti, le cui acque unite al Ras el-Aioun (dove sono visibili i resti di un’antica diga) formano un vero e proprio fiume. All’interno dell’oasi, c’è il piccolo villaggio di Bled el-Hader, sorto probabilmente su una preesistente città romana. Capisco che girarlo a piedi è fuori discussione, e alla cieca avrebbe poco senso, così accetto l’offerta di Jamal di salire sul suo carretto trainato da un cavallo, che per soli 30 dinari mi porta a spasso per l’oasi con un giro di due ore e parecchie soste. Lo becco appena fuori dal mio albergo una volta che mi sono sistemato e complice il fatto che parla molto bene l’italiano, riesce a convincermi in fretta.
    Peccato che ne succedono di ogni, tipo bambini che saltano a bordo del carretto, che non se ne vogliono più andare e lui deve minacciarli con il frustino, intrufolarci in porzioni di proprietà privata per ammirare alcune piante di banane, rubare di nascosto delle rose da un’aiuola fiorita per regalarle a sua figlia, fuggire dall’abbaiare di cani inferociti, quasi capottarci con il suo carretto lungo una discesa ripida, restare sul calessino messo di traverso lungo la strada, mentre lui scende a comprare del pane e del fieno, lasciando me in balia di occhiatacce di autisti di motorini e di auto. Ma il giro “guidato” si rivela azzeccato: dopo avermi raccontato della sua vita (ha girato per lavoro mezza Europa e ora si gode questo mestiere) mi racconta che molti italiani vengono per turismo a Tozeur e alcuni negli anni si sono addirittura comprati una seconda casa.
    Torniamo in città, proprio davanti al Residence El Rich (il mio albergo), puntuali come la preghiera del tramonto che magicamente si diffonde dalle torri delle moschee di tutta la città.

    7 - “Nei villaggi di frontiera guardano passare i treni / le strade deserte di Tozeur / da una casa lontana tua madre mi vede / e si ricorda di me, delle mie abitudini / e per un istante ritorna la voglia di vivere a un'altra velocità / Passano ancora lenti i treni per Tozeur…” (cit.).
    Purtroppo, come già raccontato in precedente paragrafo di questo diario di viaggio, i treni non passano più per Tozeur, vecchio capolinea della linea ferroviaria da Tunisi. Il traffico ferroviario è limitato a Mètlaoui, cittadina di confine del governatorato di Gafsa a oltre 50 km a nord della città che ispirò nel 1985 la celebre canzone di Franco Battiato. Tra l’altro, perfino da Mètlaoui vi arriva e vi parte un solo treno al giorno, perché la maggior parte dei convogli ferroviari tunisini si attestano al massimo a Sfax e a Gabès (lungo la costa), a circa 90 km dall’isola di Djerba, verso il confine libico. Ieri mi sono recato a piedi alla vecchia “gare des trains”, ma trovandola in stato di desolante abbandono. Su una panchina del primo binario un uomo, che indossava una camicia bianca con la scritta “sécurité”, me l’ha confermato.
    - Y a-t-il un train pour Tunis demain matin?
    - Non, monsieur! Ni demain, ni après-demain, ni plus. Il n’y a pas de trains d’ici! Dois aller à la gare routiere (=’stazione dei pullman’).
    Il sito delle ferrovie tunisine (www.sncft.com.tn/) nella sezione “Grande Lignes” mette (ancora) una vecchia partenza di un unico treno alla mattina alle 6:30 per Tunisi. Ma guardando meglio nella sezione “Transport voyaguer / Horaires” il quadro della linea Tunis – Sousse – Monastir – Sfax – Tozeur fa terminare inequivocabilmente la circolazione dei treni a Mètlaoui. Non so come mai: traendo semplici ipotesi posso immaginare che i costi di manutenzione per una ferrovia che corre in mezzo a un deserto (per ovviare allo smussamento della massicciata su un terreno argilloso e friabile, alle rotaie che si dilatano per l'eccessivo calore, ecc...) siano fuori portata per la Societé Nationale des Chemins de Fer Tunisiens, che ha preferito devolvere l’offerta di trasporto pubblico ai tanti pullman che fanno nord-sud e viceversa. Resta un vero peccato, perché attraversare il deserto a bordo di un treno sarebbe stato a dir poco fiabesco.
    E' stato meno fiabesco farlo in pullman, ma ugualmente bello.
    Alle 7 in punto un taxi mi porta alla “stazione dei bus”, che sorge poco distante dalla vecchia e ormai in disuso stazione ferroviaria. C’è già molta gente del posto a quest’ora che parte per svariate destinazioni. Chi verso la costa, chi come me aspettava il bus della SNTRI per la capitale. Acquisto un biglietto di sola andata per 30 dinari (meno di 10 euro) per compiere 440 km verso il nord della nazione.
    Il bus parte mezzo vuoto e lascia la città in direzione di El Hamma du Jerid. Il deserto ci accompagna per parecchi chilometri e il paesaggio fuori dal finestrino è davvero affascinante. Il sole cade a picco lungo la piccola strada P3 che costeggia per lunghi tratti le vecchie rotaie abbandonate in direzione di Mètlaoui. Percorriamo un itinerario diverso da quello che avevo fatto per raggiungere prima Douz e poi Tozeur, lasciando le alture di Dghoumès (quelle colline di colore rossastro che sullo sfondo dello “Sciott” del Jerid avevo definito “marziane”) alla nostra destra. Fino a Gafsa lo scenario è questo: non è l’Erg sabbioso di Douz, ma è comunque un vero e proprio deserto di terra bruciata dal sole e dove non si vede un solo artefatto umano. Ma dalla cittadina capoluogo del suo governatorato le cose cambiano. Già qui sale parecchia gente, che affollerà il bus fino al capolinea. Il deserto resta alle nostre spalle e magicamente il territorio circostante inizia a mutare, con la terra assume un colore più scuro e spuntano sempre più frequentemente uliveti e file di fichi d’india lungo la strada percorsa.
    Per mia grande gioia evitiamo l’autostrada che costeggia la litoranea mediterranea, preferendo percorrere strade interne che attraversano paesini e cittadine di medie dimensioni. Ammiro di tutto: mercati in strada, motorini che portano a bordo due e anche tre persone per volta, macellerie che espongono appese fuori grossi pezzi di carne di manzo (e in maniera più macabra anche teste di povere mucche…), murales e scritte sui muri che inneggiano alla politica (volti di Arafat, bandiere della Palestina, ecc.) o alla cultura “hooligans” locale: quello che mi colpisce di più è che molte di queste sono scritte in italiano, tipo “Siamo solo noi”, “Curva Sud”, ecc.. Una sorta di imitazione del modello italico (come noi, invece, copiamo da toponimi anglosassoni per dire “ultras”, “hooligans”, “fans”, ecc.).
    Il tassista che mi porterà dalla gare routiere di Tunisi Sud verso l’albergo – e che parla un italiano davvero fluente – mi racconterà che in Tunisia il calcio italiano è molto seguito (lui stesso tifa l’Inter, per esempio), anche se da loro il club con più sostenitori è l’Esperanza (diminutivo di Espérance Sportive de Tunis), squadra che milita nella massima serie del campionato di calcio tunisino e che gioca le partite casalinghe allo stadio olimpico “Radès” (65.000 posti di capienza). Nella sua lunga storia, che inizia nel 1919, l’Esperanza si è confermata la piazza più titolata del Paese, sfoggiando nel proprio palmarès 32 scudetti, 15 Coppe Tunisia, 4 Champions League d’Africa, 3 Champions League arabe, e svariati altri titoli continentali. Oltre a essere la più grande squadra tunisina, è anche fra le più forti di tutto il continente africano. Il tifo organizzato si raccoglie attorno alla Z.E. (acronimo di Zapatista Esperanza): da nord a sud della nazione mi sono spesso imbattuto in scritte sui muri del tipo “Z.E.09”, viste perfino a Douz, nel profondo Sud del Paese, a testimonianza che è davvero la squadra calcistica più seguita e osannata.
    Tornando al mio viaggio, dopo aver lasciato Gafsa, proseguiamo inizialmente verso est, ma senza raggiungere mai la città marittima di Sfax, perché a un certo punto puntiamo verso nord, esattamente a Qayrawan. Facciamo una breve sosta davanti a un bar/cafè: un po’ di gente scende per sgranchirsi le gambe o acquistare qualcosa da mangiare per questa sera dopo il tramonto. Il paesaggio ormai si è fatto molto diverso, adesso siamo immersi in un ambiente da tipica macchia mediterranea, contornata da uliveti a vista d’occhio. Verso la successiva cittadina di Enfida, a oriente, si inizia a intravedere anche l’azzurro Golfo di Hammamet.
    In aperta campagna, di punto in bianco, l’autobus si accosta a bordo strada e salgono due controllori. Controllano i biglietti a tutti i passeggeri, me compreso: siamo tutti in regola. I due tizi scendono e il pullman può ripartire. Non passiamo dentro ad Hammamet, ma la tagliamo fuori andando a prendere soltanto il tratto finale della A1, che by-passa il promontorio e la penisola di Capo Bon. Mi addormento (dopo lunghe cinque ore e mezza di viaggio) e quando riapro gli occhi il pullman sta entrando dentro la “gare routiere sud” di Tunisi. Qui l’autostazione è davvero affollata, piena di pensiline, marciapiedi, bus in partenza, bus in arrivo, viaggiatori che salgono e scendono, e file enormi davanti alle biglietterie all’interno dell’edificio.
    Mi aggancia subito un ragazzotto sui trent’anni, che come tanti altri tassisti, sembrava lì ad aspettare me. A tornare all’Hotel Tunisie Confort di rue Marseille ci mettiamo davvero tanto, imbottigliati in un traffico molto più intenso dello scorso fine settimana. L’autista – che come già detto parla un ottimo italiano – mi dice che è venerdì pomeriggio (sono passate le ore 15:00 da poco) e che in tempo di Ramadam tutti smettono di lavorare più o meno a quest’ora e quindi, di conseguenza, le strade vengono prese d’assalto dai pendolari che tornano a casa. Poiché la pratica islamica impone il digiuno dall’alba al tramonto (lo “Sawm”, “come guida per gli uomini e prova chiara di retta direzione e salvezza”, cit.) la giornata lavorativa è dimezzata per tutto il mese lunare. Il giovane mi dice che durante il giorno non si può bere, non si può mangiare, non si può neanche fumare una sigaretta. Solo dopo il calare del sole, “uno può fare tutto ciò che gli piace fare nella vita” mi risponde.
    - E’ molto dura? - chiedo ingenuamente.
    - Adesso, in questa stagione, no. E’ molto più difficile quando cade in estate: qua ci sono 50 gradi e stare tutto il giorno senza bere un solo goccio d’acqua, beh, lì sì che è molto dura.
    Ho già notato, comunque, già dai primi giorni dopo il mio arrivo in Tunisia che l’osservazione di tutti i precetti islamici è molto forte e raccoglie pressoché l’assoluta totalità delle persone. Non ho visto molte donne con il burqa integrale, ma molte – perfino le bambine che a Tozeur uscivano dalle scuole a mezzogiorno – indossano il velo o un foulard intorno alla testa, che scopre loro solo il viso. Chi non indossa il velo è spesso una turista di passaggio. Durante il giorno i locali, i bar e ristoranti sono pressoché vuoti: si serve da mangiare e bere solo ai viaggiatori occidentali come me. In località non turistiche, come nei paesi attraversati da Tozeur a Tunisi, i fast-food o i ristoranti hanno le serrande abbassate: in quelli aperti la gente entra solo per comprare del cibo da asporto (e che non mangerà prima del tramonto). Non ho trovato un goccio d’alcool, nemmeno l’ombra di una birra, in questo girovagare da nord a sud, a ovest e poi ancora a nord, perché le bevande alcooliche in terre mussulmane sono bandite.
    Tunisi vive tutte queste pratiche nella massima normalità, le vie della capitale sono un brusio continuo di rombi di motori, di schiamazzi di bambini, un formicaio di gente che passeggia e parla fra loro, o chatta con i telefonini, e così pure lo è la rue de Marseille che osservo dall’alto del balcone del terzo piano del mio albergo. Ma quando cala il sole, puntualmente, le TV e le radio nazionali trasmettono tutte la “preghiera del tramonto”, e la città si svuota e si zittisce di ogni piccolo bisbiglio, e in un surreale silenzio, forse paragonabile solo a quello che c’era in mezzo al deserto di Douz, echeggiano unicamente i canti dei Muezzin dalle moschee di tutta quanta questa sconfinata metropoli. La città tornerà presto a riempirsi di gente e di voci, ma per il momento, adesso, là fuori mi sembra di essere ancora nel Grande Erg del Sud.
    Ed è già nostalgia, una tremenda nostalgia, per domani, quando un volo aereo mi riporterà nel mio Paese. E una volta a casa di tutto questo straordinario viaggio in fondo al mio zaino resteranno soltanto tre pacchetti di sigarette, un paio di banconote con un po' di spiccioli di dinari tunisini, dei biglietti da visita, le quattro fiale di olio per il corpo comprate nella Medina di Tunisi, una pietra raccolta fra le dune dell'erg (che mi aveva regalato Marzoug), un po' di sabbia e già tanta nostalgia.
    Ma nella mia testa, invece, vivranno anche così lontani i ricordi indelebili dei cieli stellati del Sahara, della genuinità delle persone conosciute, dei chilometri di strada affrontati in treno, in minibus o in sella di dromedario, degli ipnotici canti dei muezzin delle moschee al tramonto, del sorgere del sole nel Grande Deserto, e soprattutto del senso di pace e benessere provato in quell'infinito mare di meravigliosa solitudine e vera libertà.
  3. .


    L'OLMO (periodico a cura della Biblioteca Comunale di Castelletto di Branduzzo) n. 25
    Rubrica - Castelletto Viaggia


    Malta è lo Stato membro più piccolo dell'Unione Europea. Più che un’isola (del Mar Mediterraneo), è tecnicamente un arcipelago, in quanto è formato da due isole principali (Malta e Gozo), l’isola minore di Comino e una ventina di isolette/rocce/atolli disabitati. Si trova vicinissima alle coste italiane, in quanto la distanza dalla Sicilia è di soli 80 km (in giornate serene dall’isola di Gozo si riesce a vedere la Sicilia e viceversa). Per arrivarci esistono dei comodi (ed economici) voli aerei che collegano sia lo scalo di Malpensa (Ryanair) che quello di Milano-Linate (Air Malta) con l’aeroporto internazionale di Malta-Luqa. Un altro modo, decisamente più avventuroso, per raggiungerla è il traghetto, che quotidianamente salpa giornalmente da Pozzallo (Ragusa) – stagionalmente anche da Catania - e che ci impiega un paio d’ore: è utile per chi vuole imbarcare il proprio autoveicolo a bordo e portarlo con sé, ma decisamente scomodo e lontano almeno per noi turisti del Nord. L’isola è molto piccola, ma offre praticamente di tutto: scogliere a picco sul mare oppure spiagge sabbiose, città piene di vita o paesini tranquilli, opere d’arte ricche di 5000 anni di storia e manifestazioni culturali sparse per tutto l’anno. Insomma, un connubio perfetto di mare, natura, relax, cultura, night-life e ovviamente buona cucina. Se si scarta l’idea di noleggiare un’automobile in loco (attenzione perché a Malta si guida sulla sinistra come in Inghilterra!), la prima cosa da fare appena atterrati all’aeroporto è acquistare (a una delle tante macchinette self-service) la “Tallinja Card”, una carta di viaggio che costa sui 20 euro e che dà diritto per 7 giorni di fila a usare illimitatamente qualsiasi autobus urbano o extraurbano. Esistono tante opzioni, ma sicuramente la “Explore – Unlimited travel for 7 days” è la migliore. I mezzi pubblici a Malta funzionano bene attraverso una rete capillare e molto diffusa di bus che conducono ovunque (per info consultare il sito www.publictransport.com.mt). Come avrete già intuito, data la sua storia e il suo passato di ex colonia britannica, l’inglese è la lingua ufficiale della Repubblica di Malta. Il “maltese” è la seconda lingua, che deriva da un dialetto siculo-arabo, mentre l’italiano è comunque compreso e capito dalla maggior parte della popolazione.
    Il “centro” di Malta è rappresentato dalla capitale La Valletta e da tutto il suo smisurato hinterland di sobborghi urbanisticamente attaccati (Paceville, Floriana, Paola, Tarxiene, La Isla, Vittoriosa, Sliema, ecc.), che danno l’impressione di girare per una metropoli sterminata e affacciata sulle coste settentrionali. Oltre a scorci artistici, tutta la zona de La Valletta e annessi offre un’atmosfera brulicante di vita (bar, ristoranti, pub, disco-pub, ecc.) e un litorale con innumerevoli spiagge, insenature, piscine e stabilimenti balneari. La Valletta sorge su una piccola penisola incuneata fra due bracci di mare. Si entra attraverso il poderoso “City Gate” che immette sul corso principale (Republic Street) e la camminata a piedi fra le sue piazze e il suo reticolato di vie offre la visita ai numerosi monumenti e luoghi di interesse, che hanno valso alla città il titolo di “patrimonio dell’umanità” assegnato dall'UNESCO: la Concattedrale di San Giovanni, il Palazzo del Grande Maestro (che ha ospitato gli uffici del Parlamento), la Chiesa di Nostra Signora del Carmelo (con la sua imponente cupola), il Forte di Sant’Elmo, il Museo Nazionale di Archeologia, il Museo Nazionale di Belle Arti e, fra i giardini, il Lower Barrakka Gardens (che offre una bella vista sul Porto Grande). Passeggiando per il centro della Valletta ci si può imbattere in un rivenditore di “Pastizz” e assaporare questo tipico cibo maltese: il “Pastizz” è uno snack salato, un tipico street-food locale che si consuma durante la mattinata, fatto di sfoglia croccante (come la sfogliatella napoletana) e ripieno di piselli o ricotta. Non c’è solo La Valletta, comunque: uno dei punti di forza di Malta sono i numerosi piccoli “centri storici” affacciati fra porticcioli e insenature di mare. Uno dei più interessanti è sicuramente quello di Vittoriosa (“Birgu”): lungo le banchine del Waterfront si possono ammirare yacht da 50 metri, ma anche bar e ristoranti che danno la possibilità di sedersi praticamente a pelo d’acqua. L’urbanistica della vecchia capitale maltese ricorda molto i paesi del Sud Italia, impreziosita da monumenti sparsi qua e là (Fort St. Angelo, Museo Malta at War, Palazzo dell’Inquistiore, ecc.). Di sera il focus si sposta sui sobborghi del divertimento, ovvero St. Julian e Paceville, che sono le indiscusse capitali della movida notturna del Mediterraneo. Tutte le sere d’estate e ogni fine settimana nel resto dell’anno i due sobborghi brulicano di vita e movimento attorno ai tantissimi locali di ogni genere e per ogni età: si va dalle discoteche e dai “club” (il cui ingresso nella maggior parte dei casi è libero) ai pub e alle birrerie “a tema”, come il Blackbull pub, il Cork’s irish pub e il London pub. I prezzi di birre, alcolici e shorts rientrano nella norma. Per fare serata a Paceville il servizio bus è assicurato fino alle 2:00 del mattino.
    Spostandosi dal “centro” e dirigendosi verso sud, una tappa imprescindibile è sicuramente Medina-Rabat: la prima è la cittadella antica dove risiedeva la nobiltà maltese ai tempi dei Cavallieri (Palazzo Falson, Palazzo di Piro, musei, ecc.), la seconda è l’attigua cittadina (12.000 abitanti) di contadini e operai dove si assapora l’autentica quotidianità maltese (da non perdere la Domus Romana, ma soprattutto un giro nelle catacombe sotterranee!).
    Per le spiagge più belle bisogna raggiungere la parte nord-occidentale dell’isola: la baia di Tal Ghadira e quella di St. Paul’s iniziano già a far vedere lo spettacolare scenario di acque limpidissime, ma penso che il mare più bello (e quello più noto) di Malta sia la leggendaria Blue Lagoon: spiaggette strette e rocciose, sempre affollate, con acque chiarissime e (poca) sabbia dorata. Si trova sull’isolotto di Comino (non ci sono centri urbani e l’unico edificio presente – a parte i chioschi-bar - è la torre di controllo…), sembra veramente di stare ai Caraibi e si raggiunge solo via mare (in traghetto dal porto di Cirkewwa).
    Se invece cercate scenari d’altri tempi, come barchette colorate sul molo e pescatori che riparano le reti, allora dovete visitare Marsaxlokk (“Marsa Scirocco”), cittadina posta nella parte sud-orientale dell’isola. Dominano il paesaggio di questo caratteristico villaggio di pescatori di appena 3.000 abitanti i numerosi ristoranti di pesce sul lungomare, le bancarelle del mercato sul molo, le case bianche, la grande cupola e il campanile del locale santuario dedicato alla Madonna di Pompei. Molti pescatori organizzano giornalmente escursioni in barca nelle bellissime Bajja ta' Marsaxlokk e Kalanka's Bay. I giri in barca di solito conducono fino al St. Peter’s Pool, una piccola insenatura rocciosa poco fuori dal paese (raggiungibile anche a piedi), paradiso balneare per chi ama tuffarsi da svariate altezze in un mare dal colore azzurrissimo.
    Situata in mezzo al Mediterraneo e da sempre crocevia di scambi commerciali, Malta è sempre stata turisticamente sottovalutata, probabilmente per una scarsa promozione, e per la vicinanza e la concorrenza di mete più attrattive come la Sicilia, la Sardegna e la Grecia. Ma ecco dei buoni motivi per visitarla: è estate 9 mesi all’anno (da aprile fino a novembre inoltrato e si può sempre fare il bagno!), il mare ha un colore ovunque meraviglioso, in due ore di volo da Milano la si raggiunge comodamente, è ideale per vacanze “smart” di 4-5-6 giorni - ma anche per veloci weekend “mordi e fuggi”, la terra è ricca di storia, arte e cultura, i maltesi sono molto ospitali (soprattutto con noi italiani!), i prezzi medi per vitto e alloggio sono alla portata e c’è una vita notturna intensissima e molto eterogenea. Insomma, è una meta “completa”, che accontenta chiunque, di qualsiasi fascia di età e per ogni preferenza. Provare per credere! Malta vi aspetta!

    Edited by Liutprando - 22/2/2023, 20:36
  4. .
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    GIORNO 1 - #LARNACA

    "Holidays?"
    "Yes!"
    "Where are you from?" mi domanda la barista del Meeting Pub.
    E' un bel bar, di quelli che piacciono a me. Forse non troppo smarzo per entrare nella lista dei miei “baracci dell'Est Europa”, ma vagando per il lungomare di Larnaca mi ha colpito e ci sono entrato per bere due birre e uno shottino di jagermeister.
    "Italy! - rispondo, mandando giù il sorso di jager con ghiaccio e una sfiziosa fetta di arancia dentro - Northern Italy!"
    "Italy?" e scoppia a ridere. La battuta seguente è più o meno: "Sei italiano e vieni a Cipro a fare le 'holidays'? Come dire: con tutti i posti stupendi che avete in Italia, tu vieni qui?"
    "Why not?" le rispondo con una faccia di tolla, bella quanto il lungomare di Larnaca di notte.
    Cipro, fuso orario +1 rispetto alla madre patria italica, ma in realtà sarebbe un +2. Se guardate sulla mappa geografica qui di europeo c'è ben poco, a parte le bandierine dalla U.E. che ti accolgono all'aeroporto e che ti ricordano che Cipro (ma solo quella del Sud) fa parte dell'Unione, che si paga in valuta Euro, che c'è qualche scritta italiana qua e là (e che in TV in camera d'albergo si prendono i canali RAI), con l'unica differenza terrificante che in strada si guida sulla sinistra.
    Divertente aver preso il taxi dall'aeroporto ed essere stato trasportato nella zona balneare sud di Larnaca, dove sorge il "San Remo Hotel" (notare il nome italico), guidando - per me - "contromano". Volante a destra, tutto alla rovescia, è un po’ come aver attraversato lo specchio di Alice ed essere finito nel Paese delle Meraviglie. E che meraviglie! Una bella mezza settimana su un'isola del Mediterraneo che è europea solo per convenzione, geograficamente attaccata alla zolla asiatica, confinata sotto la Turchia e non molto distante dalle coste del Medio Oriente ma soprattutto - e qui viene il bello - divisa in due da un Muro e da una "green line", che taglia in due "l'Isola Che Non C'è". A sud, la parte greco-ortodossa che fa parte della U.E.. A Nord, oltre il Muro, la parte turco-islamica, una repubblica "de facto" dagli anni '70, riconosciuta solo dalla Turchia che l'ha occupata militarmente. L'Unione Europea arriva fino al Muro di Nicosia, poi è terra di nessuno. Difficile, improbabile, ai limiti dell'impossibile e sconsigliatissimo atterrare al di là: non esistono ambasciate, consolati, rappresentanze diplomatiche di alcun genere. Mi limiterò a girare per Cipro Sud? Manco per idea! Ci proviamo ad andare al di là del Muro, ma non oggi.
    Per la seconda volta di fila il mio viaggio rischia di saltare, stavolta per uno sciopero dei voli.
    "Dicono che il volo è cancellato perché non c'è l'equipaggio!"
    Siamo in fila da un'ora all'imbarco Easy Jet di Malpensa e qualcuno mormora questo nel cataclisma di parole, illazioni, dubbi, pensieri, atroci presentimenti. Un'umanità varia, non solo italioti che prendono il mio volo ma anche ciprioti e grecofoni che vogliono tornare a casa.
    No, vabbè, adesso me ne torno a Milano e giuro prendo il primo treno per la Sicilia o per la Puglia. E' incredibile la nemesi personale che mi sta perseguendo e che mi impedisce di raggiungere questa isola mediterranea.
    A marzo ero stato bloccato all'aeroporto di Bergamo da una zelante dipendente della RyanAir.
    "Passaporto?"
    "Eccolo!"
    "Biglietto?"
    "Eccolo!"
    "Green pass?"
    "Eccolo!"
    "Cyprus flight pass?"
    "Che cosa?"
    Una seccatura on line che bisognava compilare in quei tempi e che è stata abolita pochi giorni dopo la mia mancata vacanza.
    Giuro.
    Adesso puoi arrivare per caso in aeroporto, dire che sei lì per berti una birra e all'ultimo decidere di farti una scappata a Paphos per rimorchiare una bella greca e ti fanno salire con sorrisi, abbracci e auguri di buon volo. All'epoca, invece, mi hanno guardato in faccia e mi hanno lasciato giù.
    Maledetti.
    In altri tempi l'avrei raggiunta in ogni modo, Cipro, in nave, in barca, a nuoto, mettendoci un mese se fosse stato il caso. Invece, così sconsolato, optai per rifugiarmi in Puglia, a meditare su quanto sono stronze e inflessibili le belle dipendenti in giacca blu e camicetta bianca della Ryan Air che lavorano al gate di Orio al Serio.
    Cazzo, anni fa ho passato una frontiera terrestre turco-georgiana alle tre notte a bordo di un bus, dove ero l'unico italiano (e probabilmente l'unico occidentale). Un'altra volta mi hanno rinchiuso in un garage al porto di Valona, a me e alla mia Matiz Chevrolet per perquisirmi perfino i pneumatici e i ribaltabili posteriori dell'autovettura ("Cosa sei venuto a fare in Albania, Mirko?" "Turismo", "Come mai?", "Mi piace l'Est Europa", "Davvero?", "Sì, davvero", "O vieni per comprare della droga?", "Non scherziamo, non ho droga", "Mah... Con quei capelli lunghi lì, quegli orecchini e quei tatuaggi? Facciamo un piccolo controllo?"...). Insomma, il mio passaporto è il romanzo più avvincente e bello che ho mai "scritto". Come osa questa piccola Cipro lasciarmi a terra per ben due volte? Oh, adesso o mai più, giuro!
    "Ci imbarcano! Ci imbarcano! E' arrivato l'equipaggio!" urla una ragazza che si fionda dallo sportello del gate fino ad avvisare i suoi amici che erano in fondo alla coda insieme a me. Giuro che avevo appena messo lo zaino in spalla e mi stavo dirigendo fuori da quell'inferno a prendere il Malpensa Express e poi da Milano un cazzo di pullman notturno per il Sud Italia.
    Applausi e qualcuno fa partire anche cori da stadio. Sembra una trasferta di calcio e che stiamo andando tutti a vederci una partita dell’ex Coppa UEFA contro l'Omonia Nicosia FC.
    Meglio tardi che mai.
    Partiamo con un'ora di ritardo. E rapido calcolo mentale: Cipro è +1 dall'Italia, in realtà +2 come già detto, insomma arriveremo che il sole sta tramontando e indi fra una cosa e l'altro niente bagno in mare per benedire la terra cipriota che finalmente ha spalancato i suoi cancelli per accogliermi! Beh, tutto rimandato a domani.
    Per stasera ho giusto il tempo di un taxi, arrivare al San Remo Hotel, farmi una doccia, assaporare il caldo umido dell'estate asiatica, infilarmi in un fast-food all'angolo e mangiare un bel piattone di pesce grigliato all'irrisoria cifra di 10,50 euro con tanto di contorno e salsa greca agrodolce. A parte: una birra Keo, uno shot di ouzo (un distillato simile alla grappa molto diffuso nelle terre greche) e la compagnia di simpatici gatti randagi che stazionano sul marciapiede dell' "H Banìa". Qualcuno si scanna per mangiare i miei scarti che depongo per terra, altri sono lì solo per fare presenza e per ricevere qualche coccolosa carezza.
    Mi incammino verso il centro e subito dopo il piccolo castello milleduecentesco che sorge in riva al mare inizia il vero cuore cittadino, ovviamente preso d'assalto da locali in un sabato sera estivo e tranquillizzante. Lungomare pieno di locali, ristoranti, pub e anche bar che offrono musica dal vivo: niente robe complesse, bastano anche solo un duo di artisti (una chitarra acustica e una voce microfono) ad attirare tanta gente seduta ai tavoli oppure ad ascoltare in piedi. Ma il vero "movimento" è in Kleanthi Kalogera, una viuzza pedonale (parallela al lungomare) che sorge nei pressi dell'incantevole Chiesa di San Lazzaro, gioiello del IX secolo assolutamente da vedere, anche solo esternamente: trasmette un'atmosfera davvero indescrivibile.
    Dal sacro al profano: eccomi nella movida larnachese. Adocchio qualche bar che potrebbe essere il "mio", poi ne scelgo stranamente uno sul lungomare che per i miei standard potrebbe anche essere un po' fighetto, ma va bene così. Due birre, uno shottino e chiacchiere con la barista.
    "Starai molto qui a Larnaca?"
    "No, domani mi sposto a Nicosia!"
    "Oh, a Nicosia fa molto caldo! - mi dice - Essendo nell'entroterra le temperature sono molto 'hot'!"
    Sopporteremo anche quello. Stasera si sta bene, temperatura adeguata, una bella arietta arriva dal mare calmo del Mediterraneo. Domani spiaggia e assoluto relax, soprattutto nelle ore più calde del giorno; poi bus per Nicosia, la capitale. Le due città distano circa 50 km e i pullman ci mettono un'oretta o giù di lì. E' là che c'è il confine, il "border", quello che mi interessa attraversare per andare oltre, a Nicosia Nord, nella repubblica turca. Fino a pochi anni fa c’erano parecchie restrizioni e limitazioni e i cittadini di Cipro non potevano oltrepassarla, né quelli del nord né quelli del sud. Oggi c’è molta più libertà di passaggio e sui turisti, dicono, chiudono un occhio. Curioso come un "Muro" esista ancora nel 2022 nella “democraticissima” Unione Europea e nell'indifferenza di un mondo “pacifista” solo quando gli conviene. Vediamo cosa accadrà.

    GIORNO #2 – NICOSIA

    La benzina a Cipro costa 1,80 (sto girando in bus, ma i prezzi segnalati ai distributori di carburante lungo le strade indicano almeno 20 centesimi al litro in meno rispetto all’Italia). Si guida a sinistra, come già detto. Le prese elettriche sono quelle tripolari, tipo quelle che ci sono in Russia – e quindi NON quelle rotonde che ci sono nei Balcani o nell’Est Europa: ci vuole proprio un adattatore triangolare con le tre spine - a proposito di Russia, a Cipro ci sono un sacco di turisti russi e molti ci vivono per lavoro. Altre cose: il confine che taglia e divide in due l’isola e la città di Nicosia non è un’unica linea divisoria, ma sono due e corrono più o meno parallelamente: in mezzo ci sono alcune centinaia di metri di “zona neutrale”, che non sono né di Cipro né della repubblica turco-cipriota. E’ una striscia di terra “cuscinetto” che non è di nessuno (in teoria è sotto il controllo dall’ONU): sta lì e basta. Gran parte del “Muro” è in realtà formato da recinzioni e divisori di vario tipo (cancelli, reti metalliche, barili di petrolio), comunque assolutamente invalicabili (cintati ogni centimetro da filo spinato). Ci sono solo un paio di varchi pedonali da Nicosia Sud a Nicosia Nord, che collegano il centro storico, la cittadella antica cintata da antiche mura veneziane, ma solcata da ovest a est da questa lunghissima cicatrice. Le auto e gli altri mezzi devono fare, invece, un giro molto più lungo per passare di qua e di là.
    Ho visto il check point di strada Ledra, l’arteria principale del centro storico: un’elegante via pedonale piena di negozi, locali, ristoranti, affollata ovviamente all’inverosimile in una bella e non troppo calda domenica sera d’estate. Peccato che poi, quasi sul più bello, finisca proprio davanti a un confine di Stato messo lì quasi a finzione scenica per un film. Ma non è un film: c’è una dogana vera e propria, due piccoli fabbricati sono stati eretti in mezzo alla strada e si passa soltanto in stretti corridoi, dopo aver mostrato i documenti (passaporto o carta di identità valida per l'espatrio) alla polizia di frontiera. Non sarà il vecchio Muro di Berlino, ma non è neanche l'ormai indolore “muretto” di Gorizia / Nova Gorica: è davvero qualcosa di strano da vedere nell’Europa del 2022. Al check point di via Ledra finisce davvero l’Unione Europea: è il punto più a est dell’intera confederazione. Per darvi un esempio di che longitudine mi trovo: sono più a est di Instabul, più a est di Kiev, praticamente sotto Ankara, la Crimea e la penisola di Murmansk, esattamente nel golfo a U rovesciata che la Turchia forma con la Siria. Di fronte al mare di Larnaca, a poco più di 200 chilometri, c’è Beirut. Lo Jonio e l'Egeo sono mari lontanissimi da qui.
    Anni fa, in uno dei miei tanti viaggi “oltrecortina”, mi ero spinto fino a Baku, sul Mar Caspio, nell’entroterra asiatico, per cui non mi spaventano queste longitudini strane. Credo ormai di essere vaccinato a ogni tipo di inconveniente.
    “Italiani?”
    “Sì, noi tre”
    “Italiani scendere e aprire borse!”
    Spesso in Est le parole "italiani" e "controlli più approfonditi" sono sempre state sinonimi nei miei viaggi on the road. Confine albanese-macedone, confine turco-georgiano, confine georgiano-armeno, ecc..
    Quella volta ero con Juri e Sergej, stavamo andando da Tblisi e Yerevan, ed eravamo a bordo di un pulmino eterogeno di otto persone, però la parola “italiani” apre sempre a infiniti controlli più approfonditi.
    “Cosa andate a fare in Armenia?”
    “Turismo”
    “Italiani tutti spaghetti, Berlusconi e signorine buonasera!” e giù a ridere rumorosamente.
    Era un poliziotto di frontiera di una sperduta dogana sui monti innevati del Caucaso meridionale. C’è sempre stato poco da ridere per me in simili frangenti. Ma col tempo ci ho fatto il callo: è la giusta punizione, stile legge dantesca del contrappasso, di quando noi italiani facciamo i razzisti con chi viene in Italia.
    Touché. Palla al centro.
    Comunque di italiani a Cipro per ora manco l’ombra: quelli che erano sul mio volo sembrano spariti nel nulla. Meglio così. Non amo molto incrociare miei connazionali all’estero, soprattutto quelli che si contraddistinguono per l’elevata caciara che fanno in giro. Una sera a Dublino, in pieno centro cittadino, dopo aver incrociato un gruppetto di napoletani e di romani che vociavano e starnazzavano peggio che al festival di San Remo, decisi di tornare in albergo e di aspettare l’indomani per fuggire in treno a Galway dove speravo di non trovare più connazionali idioti e di alcun genere. Fortunatamente, fu così e solo da allora iniziò il mio vero viaggio in Irlanda.
    Per le vie e i locali di Larnaca e Nicosia si parla inglese fluente (molto ma molto migliore del mio). C’è un sole che spacca i sassi e di ombra, al contrario, ci doveva essere quella dell’ombrellone che oggi ho noleggiato per 5 euro (incluso sdraio) in una bella spiaggia di Finikoudes, il litorale di lidi attrezzati del centro di Larnaca: una giornata dedita al relax e alla beatitudine. Ho fatto due bagni di pochi minuti che non mi hanno salvato dalla prima scottatura ufficiale dell’estate. Sono rosso come le stelline del tatuaggio sulla spalla destra che circondano il disegno della faccia del “Che”. Quando scompaiono, nel senso che il rosso della scottatura diventa tutt’uno con il rosso delle stelle, allora è un brutto segno: vuol dire che il sole ci ha picchiato pesantemente. Eppure sono stato in acqua davvero poco.
    Allora, precisiamo una cosa: non sarà bello e favoloso come il mare delle foto che la gente continua a postare sui social network immortalando paradisiache isole greche e su questo punto possiamo essere d’accordo - e infatti, come già spiegato, Cipro per me non è un'isola "greca" ma un'isola "asiatica". Eluso questo pesante confronto, il primo mare assaggiato nella parte meridionale di Cyprus passa l’esame con pieni voti. Il fondale è sabbioso e basso, molto basso, si cammina davvero parecchio tanto prima di trovare un punto dove non si tocchi, ma l'acqua è trasparente e cristallina come quella di rubinetto. Oggi, inoltre, il mare era una deliziosa tavola piatta, stile piscina, con due belle petroliere al largo che facevano il loro sfondo da cartolina, prima che si agitasse un po’ e il vento diventasse irritante. Meno male che a quel punto è arrivato Andreas e siamo andati a bere una birra al Meeting Pub, ufficializzando il suo ingresso nel mia lista dei “Worst European Bar” da Mosca a Lisbona - che poi brutti bar non sono: li soprannomino “baracci” per le loro atmosfere famigliari e casarecce, in netta contrapposizione con quelli di dichiarata indole fighetta.
    Andreas è un amico di vecchia data, almeno da una decina d’anni. Il suo nome è legato a un insieme di cose che si annidano nella memoria ingarbugliata di ricordi attorno a Livorno, al Livorno calcio, alla curva degli ultrà delle B.A.L. (se avete mai notato uno stendardo in curva amaranto con la scritta “supporters from Cyprus” è il suo!), a un concerto degli "Erode" (band punk-oi! comasca) al C.P. 1921 in un freddo sabato sera di gennaio, a una ragazza di nome Giulia, bella quanto misteriosa, al mio amico Pablo che conosce sempre tutti, e a un ritorno alle sei di mattina sotto la neve carichi ancora di alcol e baldoria davanti alle saracinesche dell’Oste a Castelletto Po. Insomma, un minestrone di ricordi che per spiegarvi bene la ricetta ci vorrebbe un paragrafo a parte.
    “Bad memories!” mi fa l’amico quanto tocco l’argomento e anche se ci ride su, pensando a quella sua storia con quella tizia livornese, preferiamo andare avanti.
    Siamo seduti a un tavolino sotto il porticato del locale. Fa un caldo pazzesco e il peggio dovrà ancora arrivare in questo mio viaggio. Parliamo di tutto e di più per un paio d’ore. Io sono appena arrivato e lui partirà domani per Roma e poi per la Toscana. Tifa Livorno da quando lo conosco, una cosa davvero particolare per un ragazzone di una quarantina d’anni che vive dall’altra parte del bacino del Mediterraneo. Lui era di Nicosia, quando l’ebbi conosciuto, ma da quando si è sposato (due o tre anni fa) è venuto a vivere a Larnaca. Un bel salto da una capitale in linea con quelle del Sud-Est Euro-Asiatico a una cittadina di mare.
    Scopro un po’ di cose interessanti, che mi dice l’amico. Innanzitutto che il greco parlato a Cipro è un po’ diverso da quello parlato in Grecia. Sono proprio alcune parole a fare la differenza.
    “Io se vado in Grecia e mi parlano in greco, io capisco quello che dicono. Ma se io vado in Grecia e parlo il greco-cipriota rischio di non essere compreso!”
    Una sorte di variante, qui in questa terra d’oltremare o stato sovrano e indipendente?
    “Diciamo che sulla carta siamo uno stato indipendente, però se la Grecia dice di fare una cosa… noi la facciamo! La Grecia controlla un po’ la vita politica, economica e sociale di questa parte di Cipro. Non è proprio il massimo, ma è così!”
    Poi, non tutto è così come sembra, per un occhio esterno, ovviamente: a parte le turiste, le belle ragazze sembrano tutte uguali, con quei loro delineamenti ellenici, i capelli lunghi e neri, e i corpi tirati a lucido come opere d’arte di un museo.
    “Le vedi quelle due ragazze che stanno camminando sulla strada?” mi domanda.
    “Sì, le vedo”
    “Secondo te di dove sono?”
    “Cipro?”
    “Sì, esatto! Ora guarda quell’altre due, quelle un po’ più dietro. Che te ne pare?”
    “Sempre di Cipro!”
    “No, quelle due sono due turiste greche!”
    “Come fai a dirlo”
    “Lo so!” mi risponde con un sorriso.
    C’è differenza, mi spiega, un po’ come Nord e Sud Italia. Un occhio allenato scorge ogni piccola differenza.
    Si avvicina inesorabilmente l’ora della partenza dell’intercity bus per Nicosia delle 17:30. Ma questa “green line”, allora, si può passare e andare dall’altra parte?
    “Sì, si può. Anche noi possiamo muoverci da una parte all’altra. Ci vogliono i documenti. Una volta sola non avevo documenti con me e sono dovuto tornare indietro”.
    Altre chiacchiere su Omonia e Apoel (le due principali squadre di calcio della capitale), su Nord e Sud, e poi ci avviamo alla fermata del bus, già affollata di viaggiatori. Sono tutti ragazzi e ragazze e meno giovani della capitale, che sono venuti a godersi una sana giornata di mare. Saluto Andreas, strappandogli la promessa di venire una successiva volta in Italia, ma di farsi un giro nel nord della penisola, così da passare a salutare me e l’amico Pablo. Dice che verrà in inverno, quando le temperature saranno più basse, perché anche lui (come me) non ama molto il caldo e la stagione estiva. Ma è vero che le temperature a Nicosia sono più alte che qui?
    “As at the hell!” e scoppia a ridere.
    Per una volta non lo trovo divertente. Sopportare il caldo umido dell’entroterra cipriota non sarà affatto una passeggiata.
    Saluto l’amico e salgo a bordo. Ovviamente, avendo la guida alla rovescia rispetto a noi, anche i bus hanno le portiere che si aprono sulla parte sinistra delle vetture. Sembra di essere dentro a un gigantesco mondo allo specchio. Pago il biglietto all’autista – 4 euro – e mi accomodo dove c’è posto. Lasciamo Larnaca puntuali e ci tuffiamo verso nord-ovest, lambendo la rocciosa catena montuosa del Monte Olimpo. Arriviamo all’autostazione di Plateia Solomou in Nicosia come da programma. Una bella camminata di una ventina di minuti lungo le mura veneziane per arrivare al mio affittacamere, nei pressi di Porta Famagosta.
    Tira una bella aria fresca, una manna per la mia pelle rossa come il fuoco e che comincia a bruciare come carbonella sulla brace. In serata gironzolo un po’ per il centro della parte Sud. L’impressione che mi faccio è che la divisione non è così netta: almeno qui a Nicosia Sud (come in tanti altri Paesi che ho visitato nei Balcani e nel Caucaso) convivono le culture ortodossa e mussulmana insieme. Attorno all’imponente Αποστόλου Βαρνάβα e altri edifici cristiano-ortodossi si elevano moschee con le lune ottomane che svettano nel cielo. Alle otto in punto fra le viette strette e colorate del centro storico meridionale si diffonde la melodia del canto dell’Imam, una nenia magica che rapisce completamente la testa. In queste atmosfere girare, anzi perdersi, per le viuzze di Nicosia “old town” è davvero bello: a ogni angolo può sbucare una chiesa, oppure l’ingresso di una moschea. Il tutto continua così fino a quando non arrivo in Ledra Street, il lungo corso principale che finisce sbarrato contro quei casermoni che segnano quel confine che c’è ma che non dovrebbe esserci. Allora confermo puntualmente le mie idee, che non sono tanto le religioni a dividere il mondo, ma di più lo sono gli esseri umani.

    GIORNO 3 - #FAMAGUSTA

    “Trans Europa Express, trans Europa Express,
    di qua e al di là dal Muro l’Europa è persa in trance,
    in Alexander Platz come in Piazza del Duomo,
    Europa persa in trance stupidamente,
    i miei amici anche, i miei amici anche,
    sotto la NATO o il Patto di Varsavia?” (cit.)

    A Cipro la canzone dei vecchi “CCCP – Fedeli alla Linea” è ancora attuale, nonostante sia stata scritta più di trenta anni fa. Un Muro bello e buono divide in due la capitale Nicosia e il resto dell’isola. Forse non è un muro appariscente come quello di Berlino, ma è una linea divisoria che appare e scompare ogni tanto camminando per le viette strette della capitale. Cancelli con fili spinati, reti metalliche accompagnate da barili di petrolio accatastati l’uno sull’altro (la loro perfetta forma cilindrica impedisce di arrampicarsi sopra) e pezzi di “muraglia” vera e propria, mattoni e cemento che sbarrano le strade all’improvviso fra palazzi e case. Oltre c’è la “buffer zone”, larga poche centinaia di metri e piena di abitazioni vuote, sgombrate dal 1974, anno in cui Cipro è stata tagliata in due dalla guerra fra turco-ciprioti e greco-ciprioti, e dall’occupazione militare degli anatolici nel nord dell’isola. Da allora, superando i non molti check-point in cui si può transitare da uno stato (Republica di Cipro) all’altro (Repubblica Turca di Cipro del Nord - solo “de facto”, non riconosciuta dalla comunità internazionale ma solo dalla Turchia) si passa in un altro mondo, a forte impronta mussulmana e turcofona, che è a tutti gli effetti un protettorato della Turchia.
    Quella di Ledra Street è la dogana più battuta, sorge in pieno centro storico, all’interno dell’antica cittadella cintata dalle vecchie mure veneziane. Un cerchio perfetto tagliato orizzontalmente da ovest a est e che divide due mondi speculari. La “buffer zone”, questa terra di nessuno che c’è in questa breve striscia di terra fra le due “green line”, gestita dall’ONU, è in realtà una sottile striscia di case e abitazioni vuote e desolate. Un paese fantasma a perfetto divisorio fra il mondo greco-ortodosso e quello turco-mussulmano.
    “Only one Cyprus” ha scritto qualcuno con una bomboletta a spray su un muro. Dogana d’uscita di Cipro e dell’Unione Europa, con due sportelli: uno per i ciprioti, l’altro per i turisti con passaporti UE ed extra-UE. Quattrocento metri più avanti in una stretta vietta da cui si scorge l’abbandono circostante di case e palazzoni vuoti e disabitati (e in cui cartelli raccomandano di non fare foto né videofilmati!) c’è la dogana di ingresso nell’altra repubblica. Bandiera del Nord (mezza luna ottomana su sfondo bianco con bande rosse) tassativamente sempre accompagnata da quella della Turchia. In entrambe le frontiere mi esaminano accuratamente il passaporto. Non ci sono problemi: mi fanno passare ed entro a Nicosia Nord, che in lingua turca è indicata come “Lefkosa”.
    Si avverte subito di entrare in un nuovo mondo, in un piccolo gigantesco bazar a cielo aperto, con tantissimi negozi e locali dove si può mangiare. Addio moneta euro, qui ci vuole la lira turca per ogni transazione, si parla lingua ottomana e su tutti i tetti dei palazzi svettano torri di moschee che a orari puntuali irradiano gli ipnotici e suggestivi canti degli Imam. Mi ricorda molto Skopje, la città ex jugoslava della Macedonia del Nord: anch’essa ha questa caratteristica bi-polare. Ma lì basta attraversare un fiume per passare dalla parte ortodossa a quella islamica, non ci sono dogane o abitazioni evacuate.
    Visibile per la sua altezza anche dalla parte sud della città è l’imponente Moschea di Selimiye, una via di mezzo fra una cattedrale gotica e un edificio religioso mussulmano di origine milleduecentesca. Lì vicino sorge anche il caratteristico mercato coperto, tipica costruzione molto diffusa nel mondo arabo (in fin dei conti, anche se ho percorso poche centinaia di metri, sono a tutti gli effetti dentro a un mondo islamico!). Dovrei raggiungere il bastione Musalla, percorrendo l’elegante Girne Caddesi, che offre un bel colpo d’occhio ai turisti che come me bazzicano al di qua della “linea verde”. Ma succede che mi smarrisco per le viette della cittadella di Nicosia Nord e vago fra viuzze e vicoletti molto diversi dai corrispettivi della cittadella del sud: case abbandonate, abitazioni semi diroccate, senso di abbandono e di povertà, una sensazione che capto per la prima volta da quando sono arrivato sull’isola. In un crocevia in cima a una casa campeggia un’enorme bandiera della Turchia e accanto un drappo che ritrae il volto beffardo di Erdogan.
    Arrivo alle mura esterne e mi dirigo ancora più verso nord, verso l’autostazione di Ataturk Caddesi, uno spiazzale parecchio lontano rispetto al centro storico, da dove partono le autolinee per ogni destinazione della repubblica turca. Fa un caldo veramente atroce, ogni isolato e ogni incrocio passato è davvero uno sforzo immane per me che già di principio odio l’estate, odio il caldo, non tollero temperature che siano superiori a un rigido inverno moscovita: e la cosa peggiore è che non è neanche mezzogiorno.
    Lungo la Gazeteci Caddesi la vita torna prepotente a farsi sentire con il rombo di motori e il traffico di auto che corrono avanti e indietro. Anche nella parte nord si guida sulla sinistra, quindi bisogna fare attenzione a quando si attraversa ogni strada. Attorno al parcheggio dell’autostazione sorgono un po’ di locali, negozi e uffici. C’è un “exchange” aperto e ne approfitto per scambiare un po’ di euro in lire turche. Subito accanto c’è una caffetteria, dove sono obbligato a fare una sosta per bere una bottiglia d’acqua (niente birre o alcolici, come da copione, in molti locali nel mondo mussulmano) e una tazza di caffè turco: una brodaglia nera come il petrolio, amara come il caldo soffocante di Nicosia e con un fondo di caffè macinato sulla tazzina di almeno un dito e mezzo. L’effetto di svegliarmi, comunque, lo fa del tutto.
    Biglietto per Famagusta (“Magusa!” mi correggono immediatamente allo sportello della biglietteria, usando il toponimo turco) acquistato per 50 lire (2,85 euro). Pulmino da venti posti che parte pochi minuti dopo che salgo a bordo e mi accomodo accanto al finestrino. Facciamo altre fermate nella sterminata metropoli turca prima di imboccare la veloce superstrada a doppia carreggiata (ma ovviamente si viaggia su quella sinistra!) e lasciare la capitale alle spalle. Corriamo in un paesaggio brullo, quasi desertico, caratterizzato da colori giallo ocra, che sembrano anch’essi dividersi e distaccarsi con i verdeggianti paesaggi del Sud percorsi ieri. Su una collina a ovest della città, a mo’ di Hollywood, campeggia il disegno gigantografico della bandiera della Repubblica Turca di Cipro del Nord e una scritta (in turco) che ovviamente non riesco a tradurre.
    Il viaggio dura un’oretta (le due città distano 60 km) e mi accorgo che stiamo arrivando a destinazione dagli enormi palazzi che sorgono all’orizzonte come la classica cattedrale in mezzo al deserto. Io scendo all’ultima fermata, ovvero al bus terminal che sorge di fronte al bastione Ravellin, dove sorge l’alta e imponente statua di Zafer Aniti, ovvero il Monumento della Vittoria dedicato ai turco-ciprioti nella guerra di conquista - o di liberazione (e qui dipende sempre dai punti di vista delle parti...) degli anni ‘70. Attraverso il già citato bastione Ravellin si entra nella cittadella antica, cintata anch’essa dai veneziani nel XVI secolo. Le fortificazioni di Famagusta sono molto caratteristiche, perché a differenza di quelle di Nicosia sono costituite da una cinta muraria alta ben 15 metri che è circondata da un fossato scavato nella roccia sul lato di terra e dal porto sul lato del mare. Il piccolo centro storico si gira in fretta, ma la cittadella di “Magusa” è molto bella e ricca d’arte: seppur molto più piccola (l’intera città conta solo 40.000 abitanti), Famagusta all’impatto del visitatore appare molto più piacevole della caotica e rovente capitale; anche la temperatura, trovandoci a ridosso del mare, è decisamente molto più mite.
    Il cuore pulsante batte attorno all’affascinante Moschea di Lala Mustafa Pasha, costruita nel XV secolo come cattedrale cattolica ma poi trasformata in moschea dopo la conquista da parte dell’impero ottomano nel XVI secolo. In effetti da lontano sembra una cattedrale cristiana, ma poi da vicino le mezze lune ottomane che svettano sulle sue altissime torri sono inequivocabili. Accanto ci sono i ruderi dell’antico Palazzo Reale veneziano: oggi ne resta ben poco. Le medioevali chiese ortodosse giacciono in stato di abbandono e decadenza: un esempio su tutte è la maestosa Chiesa di San Giorgio dei Greci, della quale sono crollate pareti e un pezzo di navata e soffitto. Nella stessa misera condizione vivacchia la Chiesa di San Giorgio dei Latini. Altre, ancora ben conservate, come quella di San Francesco o la Chiesta Nestoriana, sono comunque chiuse, inaccessibili e non sembrano aperte al pubblico da parecchio tempo. In buono stato è la fortezza del XIV secolo che sorge nella parte settentrionale della cittadella, a ridosso del mare (si può ammirare la famosa Torre di Otello).
    E’ tempo di un drink in una caffetteria che batta al suo interno aria condizionata gelida come il vento di gennaio in Siberia. Niente birre, ovviamente, così mi accontento di un thé freddo con ghiaccio e una fetta di torta al cioccolato. La cameriera che me la serve, notando la mia guida turistica, mi domanda se sono italiano e mi racconta che è stata ad Alba, in Piemonte, e che le è piaciuta molto.
    Dopo aver fatto merenda, proseguo verso sud, in direzione del bastione Arsenale, che dà sul porto e sul lungomare. Prima di abbandonare il centro storico c’è un piccolo memoriale dove vengono ricordati alcuni turco-ciprioti che durante la guerra del 1974 furono assassinati (sarebbero stati disarmati) dalle milizie greco-cipriote e da quelle greche. Così recita una lapide esposta.
    La parte curiosa di Famagusta arriva spostandosi a piedi verso Palm Beach, la spiaggia più bella e decisamente più strana che abbia mai visto in tutti i miei ansiosi peregrinare in luoghi sperduti d’Europa e oltre. Ieri Andreas mi aveva accennato a qualcosa di simile a una “ghost town” che c’è a Famagusta, ma forse non avevo tradotto o capito bene il suo inglese veloce e fluente.
    Dopo una piccola zona umida fra il porto e uno sperone che si apre in mare, inizia questa distesa di sabbia dorata che immette in un mare dalle fattezze tropicali. Ai margini dei lidi, tuttavia, prendono inquietantemente forma una serie di hotel e di alti palazzi che riportano chiari segni di abbandono e di desolazione (qualcuno mostra anche chiari segni di vecchie esplosioni di arme da fuoco pesanti). E’ Varosia, il quartiere fantasma di Famagusta, un gigantesco agglomerato completamente disabitato e recintato da cancelli, recinzioni e filo spinato. Qui fino al 1974 ci vivevano i greco-ciprioti che durante l’invasione turca abbandonarono in massa le loro case da un momento con l’altro (alcune testimonianze raccontano che intere famiglie fuggirono via lasciando tavole apparecchiate e tutto quello che stavano facendo, emigrando verso il Sud). Dietro le barricate sorgono ancora le vecchie case, i condomini, i negozi (perfino la Chiesa di S. Agios Ioannis) coperti però da 40 anni di polvere e di sedimenti. Tutto ciò che è stato costruito a Varosha anni fa, dopo 4 decenni di mancata manutenzione, è ormai inutilizzabile a causa dei gravissimi danni degli agenti atmosferici, degli animali e del trascorrere del tempo. Questa “città fantasma” che si affaccia su uno dei mari più belli della zona, recintata come una zona di guerra e presidiata da torrette di militari turchi è l’emblema delle mille contraddizioni che questa isola nasconde e di cui il resto del mondo non ne è a conoscenza o forse fa finta di non sapere.
    Ho letto che da qualche anno a qualche gruppo di greco-ciprioti è stato concesso da parte dell’esercito turco di poter tornare sulle spiagge di Varosia (o Maras, a seconda del toponimo): e infatti è così. Ma ancora oggi persistono le divisioni, le palizzate, le barricate: i ciprioti per recarsi su quelle spiagge devono passare da un check-point sul lungomare e restare all’interno di un perimetro “recintato”, poiché la rete divisoria arriva in spiaggia e perfino ai primi metri di mare: un ulteriore cordone galleggiante divide e isola il loro pezzo di spiaggia da quella abitualmente frequentata dai turco-ciprioti. Un apartheid estivo-vacanziero da mal di testa e da nausea. Per il resto, lo scenario degli alti palazzi vuoti e desolantemente in rovina alle spalle di Palm Beach è qualcosa di distopico, uno scenario da film di fantascienza in cui a Varosia trova la sua scenografica rappresentazione.
    Dopo un lungo bagno nelle meravigliose acque del Mediterraneo, mi rincammino verso il bus terminal, ma appena vedo un taxi decido di chiedere un passaggio. Poi di nuovo mini-bus per Nicosia Nord e siccome mi avanzano ancora tante lire turche, decido di fermarmi a cenare nella cittadella di “Lefkosa”. Ripasso il confine nella dogana di via Ledra senza alcun problema, poi torno verso il mio alloggio percorrendo le viette che costeggiano la “green line” meridionale.
    Di caratteristico, a pochi passi da via Ledra, c’è il “Berlin Wall 2”, un baraccio tipico dei miei, peccato che di lunedì sia chiuso. Non è nulla di che, se non che nel suo nome ovviamente fa un paragone fra il vecchio Muro di Berlino e quello attuale di Nicosia (sul dehor esterno si rincara la dose con la scritta: Check Point Charlie). Subito alle spalle c’è un pezzo di “muro”, ovvero una cancellata sbarrata con il filo spinato sopra. Mi fermo a bere un paio di ouzo al Palaia Pineza Bar, poco più avanti: è più caratteristico, perché qui si vede proprio la piccola vietta Manis sbattere contro un muro messo di traverso per la strada. Barili di petrolio, filo spinato, ma qualche simpatico gatto randagio in qualche modo riesce ad andare e venire.
    Per la serata, dopo una ghiacciata doccia alla Sylvias Antique House dove alloggio, preferisco il solitario Rock Bar di via Ermou (una lunga e dritta direttrice che finisce proprio contro un cancello chiuso da rete metallica, barili e filo spinato). Serata moscia, siamo solo io, il proprietario, un simpatico gatto nero che si fa coccolare, e la musica degli AC-DC sparata a mille. Va bene così: dopo tante riflessioni sulle cose viste oggi ho solo voglia di tanta solitudine.

    GIORNO 4 - #PAPHOS

    Che Nicosia e la controversa parte “Nord” con tutti i suoi limiti mi sarebbero comunque mancati appena avessi messo piede sul bus per Paphos era come una sensazione certa e matematica, rannicchiata lì in un angolo della mente e pronta a verificarsi come un assioma algebrico. Già lo sapevo e così puntualmente è stato. Il meglio di Cipro, o quanto meno la parte più caratteristica e “strana”, la lasciavo alle mie spalle, almeno temporalmente parlando.
    Dall’autostazione del Bastione Tripoli di Nicosia partono un sacco di pullman per ogni destinazione di Cipro del Sud, fra cui anche l’intercity bus delle ore 11:00 per Paphos. Un 55 posti, bello, grande, confortevole e di ultima generazione, con obbligo di mascherina a bordo, che percorre 150 km a 7 euro di biglietto da pagare all’autista. E già qua mi manca il pulmino scrauso, smarzo e piccolo di ieri col quale siamo partiti da un afoso spiazzale di Nicosia Nord alla volta di Famagusta, che ogni tanto dava qualche colpo di motore, che era pieno all’inverosimile di turco-ciprioti (e io unico occidentale a bordo) e che mi chiedevo se fossimo mai arrivati a destinazione: a me piace viaggiare così, mi piacciono i posti così, quelli che raramente piacciono ad altre persone, motivo spesso per il quale difficilmente trovo compagni di viaggio disposti a seguirmi in queste avventure ai confini del mondo.
    “Io a Cipro Nord non ci vengo, finché quei turchi di merda occupanti e invasori non se ne vanno!” mi avevo detto Juri, inossidabile compagno di viaggio e di avventure nel profondo Est, a bordo di minivan improponibili in giro per il Caucaso e la Gagauzia, spesso a temperature sotto zero e con basse probabilità di trovare alloggi e ristori prima del calar delle tenebre. Non si tira mai indietro davanti a nulla il mio amico biellese, neppure a un viaggio a San Pietroburgo a 30 gradi sotto zero in pieno gennaio; eppure stavolta non c’è stato niente da fare, è stato di parola: a Cipro non c’è venuto per questo e altri motivi.
    “Mamma li turchi!”
    Ha ragione, come non dargliene? Ma la Cipro del Sud, anzi quella dell’Ovest – e rimarco la parola “Ovest” che anche su quest’isola ha incredibilmente la stessa accezione che ha ovunque – turistica, “figa”, rassicurante, quella così con i grattacieli di Limassol alti e futuristici stile Blade Runner, quella che ti arrivo, parcheggio, check in in albergo di lusso con piscina e fornelli in camera, spiaggia a pochi metri, ristorantino con stella Michelin, cartolina e calamite da portare a casa ad amici, ecc... Boh, io non lo so, sarò strano, ma non è il mio mondo. Il mio è quello oltre i muri, oltre le cortine di ferro che dividono i mondi, oltre le barriere che nessuno vuole varcare. Anche a me non piace la situazione di Famagusta (ben peggiore di quella di Nicosia!) ma quanto vorrei essere ora lì in un baraccio a discorrere, con un turco-cipriota davanti a quella brodaglia nera che chiamo caffè, su chi ha ragione e su chi no.
    Invece sono a Paphos, solo per ragioni logistiche dovute a un aereo che parte domattina presto. Arrivato dopo due ore di viaggio, attraversato la parte occidentale di Cipro che, manco farlo apposta, è collinosa e verdeggiante come il Sud d’Italia. Troppo simile, talmente simile a un “Occidente” che è praticamente uguale. Sì, qui è giusto che sia Unione Europea perché tutto è occidentale, perfino il paesaggio. Lunghe e diritte superstrade, città balneari con i loro palazzoni, villette arroccate sui poggi montuosi che ti sbattono in faccia che il progresso e l’agio economico è arrivato fin qua. Buon per loro, ma quanto mi mancano i paesaggi lunari di ieri del Nord dove non incontravamo anima viva, dove spazi immensi tagliavano la pianura della provincia di Gazimagusa fino alle colline a nord e dove ogni tanto piccoli paesini, con le loro moschee, apparivano dal nulla in mezzo a un vero e proprio deserto giallo-verde arido e marziano? Un altro mondo... Ecco, allora, che il Muro di Cipro assume valenza, perché davvero divide due metà che sono due mondi diversi e lontani fra loro.
    Taxi per il New York Hotel, dove ho pernottato una camera d’albergo, e qui iniziano i guai di oggi. Albergo occupato da rifugiati: così appare subito al mio arrivo. Ragazzi e ragazze di colore stazionano ovunque, dai balconi delle camere superiori alla hall dell’edificio. Mi dirigo alla reception. Una sorridente signora mi spiega che sono stato “spostato” (ma senza fornirmi la ragione, anche se la ragione è ben evidente) in altra struttura “molto più bella e accogliente”. Io sinceramente di altre strutture “molto più belle e accoglienti” non so che farmene, me ne starei davvero lì con i ragazzi africani a passare un giorno e una notte senza problemi, ma in men che non si dica mi cioccano in mano un bicchiere di caffè nero come il petrolio e un attimo dopo sono a bordo di un taxi (pagato dalla struttura) che mi porta sulla litoranea nord. Molto nord. Talmente nord che Paphos scompare lentamente alle mie spalle e mi catapulto in una zona brulla, bassamente abitata, dove un albergo a 4 stelle con vista mare, piscina, camere strafighe e tutte quelle cose che odio di un viaggio, è lì pronto ad accogliermi. Niente Paphos, niente viette del suo grazioso centro storico che si arrampicano sulla parte “alta” in cima a una collina, niente baracci nascosti che avrei scovato stasera, niente locali di ciprioti dove sarei entrato per bere una birra e raccontato al barista che me l’avesse chiesto che sono un viaggiatore italiano in cerca di avventure. Niente di niente di tutto questo.
    C’è una bella baia tutta privata, un mare che è tutto mio, una piscina in cortile che di sera e di notte si illumina d’immenso, il sole che tramonta sulla linea del mare come quella volta a Rabat in Marocco sull’Oceano Atlantico, un ristorante che si chiama Sonny’s dall’altra parte della strada dove si mangia a base di pesce molto ma molto bene, una stazione di servizio poco distante dove c’è un ATM e poco più giù un market aperto 24 h che vende alcolici e tabacchi. Che me ne faccio di tutto questo servito e riverito in pochi metri se non ho le mie stradine, i miei vicoletti, i miei pub di seconda mano, le storie vere di vita vissuta anziché questi quattro ricconi occidentaloidi che se ne stanno sdraiati tutto il giorno sotto un ombrellone a bordo piscina?
    La vera Paphos, se mai c’è, se mai ci sarà qualcosa oltre a questa patina consumata di turismo consumista, se mai si annida qualcosa di genuino là nel suo centro storico lontano da me, è rimandata alla prossima visita. Certo, però, che Larnaka, Nicosia, Nord Nicosia e Famagusta sono state tutt’altra cosa. Il tramonto sul Mediterraneo che ammiro dal balcone del Sonny’s Restaurant è un tramonto di un viaggio come ce ne sono stati altrettanto in passato. Difficile non rifletterci malinconicamente su.
    Cipro resterà nei miei ricordi come un’isola dalle mille sfaccettature, dai tanti risvolti, dalle troppe contraddizioni, l’ultimo Paese europeo con un Muro bello e buono che la divide in due, una parte occupata militarmente da un Paese straniero ma l’altra “controllata” e “consigliata” (come mi ha detto senza mezzi giri di parole Andreas) da un’altro Paese ancora. Ognuno porta avanti le sue ragioni, più o meno giuste o sbagliate, anche se mi chiedo ma noi erranti osservatori di passaggio chiamati “turisti” chi siamo per poter giudicare chi ha torto e chi no?
    Forse Cipro non dovrebbe essere né greca né turca, ma dovrebbe essere dei ciprioti e basta.
    Lontana da tutto e da tutti.
    Forse solo così potrà essere libera, unita e senza più alcuna cicatrice.
    FINE.
  5. .
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    L'OLMO (periodico a cura della Biblioteca Comunale di Castelletto di Branduzzo) n. 5
    Rubrica - Castelletto Viaggia


    “Viaggiare” oggi giorno è facile, diciamoci la verità. Viviamo in un’epoca dove basta connetterci a internet per poter programmare nei minimi dettagli anche il più esotico e avventuroso dei viaggi da raccontare al proprio ritorno agli amici del bar di paese. Per esempio, nel 2016, io ho pianificato dietro a un tablet qualsiasi quella mia splendida avventura in Marocco, coronata dall’attraversata a dorso di dromedario sulle dune del Sahara verso il villaggio berbero di Merzouga ai confini del mondo. Stessa cosa per tutti i miei viaggi “oltre cortina” in Est Europa - dall’arrivare in Piazza Rossa a Mosca sotto una nevicata a mezzanotte, a vedere una San Pietroburgo a gennaio a 30 gradi sottozero, a tutti i viaggi con bus di linea in mezzo ai Balcani, da Trieste ad Atene o da Tirana a Instanbul, ecc.. Prenotare un volo aereo o un viaggio in treno o in pullman, anche in posti remoti del continente, oggi come oggi, è la cosa più semplice di questo mondo. Basta una mezz’oretta, qualche “click” qua e là, e la vacanza “perfetta” è bella che servita! Ma provate a chiedervi cos’è davvero “Viaggiare”? E’ davvero solo il semplice spostamento da un punto “A” a un punto “B” di una mappa geografica? Quando restate in Italia e prendete una delle tante autostrade che vi portano dritti dritti verso le vostre mete prefissate, considerate quelle poche ore a tutta velocità davvero un “Viaggio”?... Queste domande me le sono poste anch’io nel lontano 2013, quando dopo anni e anni (praticamente da quando sono nato) percorrevo in treno o in auto o in altro mezzo la lunga direttrice che mi portava verso la casa dei miei nonni materni in Puglia, dove ho sempre trascorso vacanze estive, natalizie, pasquali e di ogni altra stagione. “Ma in mezzo ai caselli autostradali di Casteggio e di Barletta che cosa c’è davvero?” - a parte svincoli, uscite, cartelli segnatetici, alienanti autogrill, asfissianti colonne di auto, rallentamenti e solo qualche raro scorcio di bei paesaggi? E’ così che ho iniziato, quasi per gioco, a lasciar perdere quelle costose autostrade a pagamento per “esplorare” un mondo che forse abbiamo dimenticato da tempo... Ho scoperto che esistevano altre strade, altri percorsi, altri itinerari, altri posti da attraversare e magari che potevo fermarmi in alcuni di questi per guadarmi attorno e “riscoprire” raccontando. E’ da allora, più o meno, che “Io non Viaggio in autostrada”, come recita il mio omonimo terz’ultimo romanzo uscito nel 2019 (edito da Albeggi Edizioni), e che ho fatto di questa scelta una propria e vera filosofia di vita. In poco tempo mi si è aperto un mondo riempito di tantissimi altri piccoli mondi, che non avrei mai immaginato di scoprire. Cosa spinge un vero viaggiatore a intraprendere un viaggio o un esploratore a partire per scoprire davvero nuove mete non è certo il sapere certo a cosa va incontro, bensì l’esatto opposto: è il viaggio di Scoperta, l’esplorazione, il vivere nuove emozioni. Che si possono cogliere semplicemente percorrendo le vecchie strade statali di una volta. Sì, certo, si va incontro a viaggi lunghi, lunghissimi, spesso estenuanti: per raggiungere la Puglia, quella che io chiamo simpaticamente la mia “California d’Italia” (per tante analogie, ma soprattutto per il modo avventuroso di arrivarci...), ci vogliono anche due o tre giorni di Viaggio (vero e avventuroso lungo una S.S. 16 che sembra una highway nordamericana di kerouacchiana memoria); ma in quei due o tre giorni lungo le mitiche “Via Emilia” e “Adriatica”, io attraverso un universo di posti, paesi, borghi d’arte, scorci, baretti dove mi soffermo a sentire i dialetti, i gusti, i sapori del territorio, le tradizioni locali, ecc.. Ovviamente, non solo Puglia. In tutti questi anni ho percorso le care vecchie strade nazionali verso ogni dove: Veneto, Friuli, Toscana, Lazio, Campania, Calabria… Lo sapevate che a Cavriago (SS 9), piccolo comune vicino a Reggio Emilia, c’è una Piazza intitolata con tanto di busto niente di meno che a Lenin? Lo sapevate che Rimini (capolinea della SS 9), nonché capitale del divertimento after hours più sfrenato, ha anche un bellissimo centro storico? Lo sapevate che al Bar del Porto di Ancona (SS 16) se ci passate un sabato sera, anche se siete soli e non conoscete nessuno, passerete una delle più belle serata della vostra vita? Lo sapevate che in Abruzzo (SS 16) ci sono i bellissimi “trabucchi” (antiche macchine da pesca) posti su palafitte sul mare dove sorseggiare ottimi calici di vino bianco? Lo sapevate che a Vasto (SS 16) potete mangiare l’ottima zuppa di mare chiamata il “Brodetto”? Lo sapevate che in un agriturismo di Borgo Val di Taro (SS 62) potete passare la notte in caratteristiche tende yurta? Lo sapevate che all’ingresso di Bologna (SS 9) al centro di una rotonda c’è un alta statua dedicata agli autotrasportatori? Lo sapevate che sulla Sacca degli Scardovari del Delta Padano (SS 309) potrete ammirare uno dei più bei tramonti della vostra vita? Lo sapevate che lungo le strade arginali del fiume Po (SS 10) ci sono bellissimi e dimenticati posti come la Reggia di Colorno, il paesello di Brescello con i monumenti a Don Camillo e Peppone, la città medioevale di Sabbioneta dove il tempo si è fermato, la porticata piazza di Gualtieri dove visse il pittore Antonio Ligabue, i paesaggi del Polesine veneto e ferrarese resi immortali da cineasti come Pupi Avati e Carlo Mazzacurati?... Questa filosofia di Viaggio mi ha permesso di conoscere anche persone che col tempo sono diventati amici veri e propri. Sono gestori di bar, di locali e di ristoranti italiani, situati lungo alcune mie abituali rotte. Andrea e Giulia gestiscono il “Natural Cuisine” a Bonferraro, che è un paesino nella bassa Veronese lungo la statale 10. Nel loro ristorante creano piatti di terra e di mare con pane e pasta della casa, il tutto completamente senza glutine e rispettando la tradizione culinaria del territorio mantovano-veronese. Conosciuti così, quasi per caso, fermandomi in un questo piccolo borgo lungo la statale, che mi ha ricordato immediatamente una mia Castelletto però in versione veneta. Ormai è una tappa fissa nei miei viaggi verso il Polesine e, sempre a Bonferraro, dall’altra parte della statale, c’è anche Damiano e la sua “Era Ora”. una pizzeria d’asporto, ma che dopo un certo orario si riempe di avventori con i quali si parla di tutto e di più, finché la notte fonda e i bicchieri di buon vino e grappa non ci costringono ad andare a dormire - magari nell’adiacente “Residenza Stazione”, economicissima affittacamere lungo la vecchia “Padana Inferiore”, che sembra proprio uno di quel motel di certi film americani. E il Bar Fina di Porto Sant’Elpidio, lungo la SS 16 per la Puglia? Lorenzo è sempre lì, in questo baretto a ridosso di una stazione di servizio poco fuori città: ogni volta che passo, in qualsiasi stagione, a qualsiasi orario del giorno, senza alcun preavviso, lo trovo puntualmente dietro al bancone. Ormai non ci salutiamo manco più, appena entro lui mi rivolge la stessa domanda di sempre, seppure sia passato tanto tempo dalla volta prima che ci siamo visti: “Stai scendendo o stai salendo?”. Sa della mia passione di percorrerla tutta in statale quella lunga strada verso il Sud-Est. Il suo è un locale vecchia maniera, di quelli che amo: clientela abituale, anziani che giocano a carte nella sala di là, atmosfere retrò, snack, panini, birre e anche piatti caldi per chi come me ha ancora tanti e tanti chilometri da percorrere... Nessun autogrill mi ha mai dato e mi potrà mai dare queste sensazioni, nessuna autostrada percorsa a folle velocità per arrivare nel minor tempo possibile per andarmi a rinchiudere in un resort ultraturistico in Salento potrà essere paragonabile al mio modo di Viaggiare. La vera Italia è lungo le Strade Statali e da quando l’ho scoperto (viaggiando, esplorando, visitando e fermandomi anche in città d’arte meravigliose!) non ne ho più saputo fare a meno. E da allora spero sempre che qualcuno segua il mio esempio e che almeno una volta nella vita abbandoni le autostrade, in luogo di abbracciare il viaggio “lento”, sicuramente più ricco di avventure, di storie, di incontri, di racconti di vita e di tanto altro a cui ormai io non posso più fare a meno.
  6. .
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    L'OLMO (periodico a cura della Biblioteca Comunale di Castelletto di Branduzzo) n. 12
    Rubrica - Castelletto Viaggia


    La ferrovia Sulmona – Isernia è una linea ferroviaria secondaria che collega internamente l’Abruzzo con il Molise e che è lunga 128 km. Costruita e aperta al pubblico fra il 1892 e il 1897, è stata soprannominata “La Transiberiana d’Italia” per le abbondanti nevicate che, soprattutto nel tratto degli altipiani dell’Appennino Abruzzese, la fanno somigliare alla più celebre Transiberiana russa. “È un po’ come vedere un documentario dal vivo con le immagini che scorrono dai finestrini del treno”. Così lo scrittore Giuseppe Furno scriveva nel 1995 nel suo libro-guida “In treno alla scoperta dell’Abruzzo” (edit. Franco Lozzi, disponibile su Amazon), presentando la linea ferroviaria più emozionante dell’intera rete italiana. Tuttavia, fu il giornalista-scrittore torinese Luciano Zeppegno che sulla rivista “Gente Viaggia” nel novembre del 1980 coniò questo soprannome. Chiusa al traffico passeggeri dal 2011 (vi circolavano i treni diretti da Pescara a Napoli e viceversa), a oggi il tratto da Sulmona a Carpinone (dove c’è l’innesto sulla Cassino-Isernia-Campobasso) è percorso soltanto da treni turistici composti da carrozze anni ‘30 - ‘40, le famose “Centoporte” e le “Corbellini”, con i sedili in legno e trainate da locomotori diesel. Grazie al prezioso recupero e all’intervento della “Fondazione FS Italiane” e dell’associazione culturale “Le Rotaie”, nell’ambito del progetto “Binari senza tempo”, la linea è riuscita in qualche modo a sopravvivere e, ancor di più, ad attirare viaggiatori da ogni angolo del Paese. La nostra “Transiberiana” ha anche un’altra particolare caratteristica: è una delle ferrovie più “alte” di tutta Europa, in quanto nei pressi della stazione di Pescocostanzo l’altitudine raggiunge quota 1269 metri s.l.m.. Io ho avuto il piacere di condividere questa esperienza nel gennaio 2020 e posso assicurare che il soprannome dato a questa poco conosciuta linea ferroviaria è assolutamente azzeccato. Il treno storico parte da Sulmona (stazione di diramazione posta sulla linea Roma-Pescara) alle 9:00 oppure alle 10:45, e arriva a diversi capolinea come Roccaraso, Castel di Sangro o Isernia (ma il tratto completo si effettua solo nel periodo estivo!). I rientri in giornata sono previsti con arrivo a Sulmona fra le 19:00 e le 20:00. E’ consigliabile, quindi, per chi vuole intraprendere questa esperienza, programmare un soggiorno di almeno 2 notti nella città aquilana. Sul treno storico tra Sulmona e Isernia le tappe sono diverse: Campo di Giove, Palena, Rivisondoli-Pescocostanzo, Roccaraso, Castel di Sangro, ecc.; di solito a ogni fermata si scende (il treno sta fermo parecchi minuti), si viene accolti da stand eno-gastronomici locali e si visitano borghi caratteristici d’alta quota. La ferrovia (a binario unico e ovviamente non elettrificata) si sviluppa per un lungo tratto oltre i mille metri di altitudine, toccando pendenze fino al 28%, attraverso montagne, gole, altopiani, boschi, vallate, piccoli paesi, nature incontaminate e paesaggi incredibili nel cuore del Parco della Majella. In questa stagione dell’anno, tra novembre e dicembre, il tour accompagna anche verso i più bei mercatini di natale d'Abruzzo. Le ultime date del 2021 sono già ovviamente “sold-out” da tempo. Per info e prenotazioni per i primi mesi del 2022 bisogna che consultiate il sito internet ufficiale www.latransiberianaditalia.com. Per avere un’idea più precisa di cosa può attendervi, invece, vi rimando al mio video-documentario di 28 minuti dal titolo “La Transiberiana d’Italia”, disponibile gratuitamente su YouTube sul canale “Casone Film”, che in meno di 2 anni dall’upload ha catturato l’attenzione di 800 visualizzazioni. Buona visione e buon viaggio a bordo della mitica “Transiberiana d’Italia”! (indirizzo url:
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    video: www.facebook.com/confaloniera/videos/863740747668963

    La ferrovia “Transpadana” (detta anche "Mediopadana") è un sistema ferroviario di 224 chilometri che collega Pavia a Monselice (Padova). E’ un insieme di linee ferroviarie secondarie (tecnicamente dette “complementari”) per la quasi totalità del percorso costituite da binario unico, che tagliano la Pianura Padana orizzontalmente da ovest a est, attraversando e unendo fra loro nodi ferroviari come Codogno, Cremona, Mantova e Legnago. Da Pavia a Casalpusterlengo la linea non è elettrificata, ma si viaggia solo su littorine o treni a trazione diesel. Risulta a doppio binario solo nei brevi tratti tra Casalpusterlengo e Codogno (tratto in comune con la Milano-Bologna) e tra Cerea e Legnago (tratto in comune con la Verona-Rovigo). Fino agli anni ’80 esistevano treni locali che univano direttamente Pavia con Mantova. Adesso, per farla tutta, è necessario effettuare almeno 2-3 scali. Il primo tratto (da Pavia a Cremona) fu costruito nel 1866, concepito nell'ottica di un collegamento tra Brescia, il Piemonte orientale e Genova, il cui punto d'innesto sarebbe dovuto essere Pavia. La costruzione della linea Pavia-Cremona-Brescia e il suo esercizio furono affidati prima alla S.I.S.F.M., per poi passare sotto l’egida delle Ferrovie dello Stato nel 1905 (l’elettrificazione da Codogno a Cremona venne attivata nel 1977). Il tratto Cremona-Mantova fu inaugurato nel 1874, mentre l’ultimo pezzo, da Mantova a Monselice, fu aperto soltanto fra il 1885 e il 1886.
    Da Pavia a Cremona c’è un treno diretto alla mattina alle ore 8:06, che arriva a Cremona alle ore 9:55. Un’ora e cinquanta minuti per compiere i soli 76 km che dividono le due città lombarde, ma la “lentezza” permette di ammirare il bellissimo e spettrale paesaggio della Bassa Pavese. Soprattutto in autunno, i nuovi treni diesel a moderna livrea Stadler GTW fanno apprezzare il viaggio fra colori grigi, stando comodamente seduti in spaziosi scompartimenti aperti, dotati di grandi finestrini sull'esterno. Fino a Motta San Damiano la linea compie un percorso “metropolitano”, attraversando Pavia dal bellissimo Castello Visconteo all’affascinante ponte sulle chiuse e cascate del Naviglio Pavese. Dopo gli ultimi quartieri periferici, iniziano le piccole stazioncine di campagna poste in mezzo al nulla, come la già citata Motta San Damiano e l'ancor più piccolo scalo di Albuzzano (un casello con un minuto marciapiede).
    Belgioioso è il primo medio-grosso centro, dove si scorge finalmente un po’ di anima viva attorno ai binari. La stazione è uno scalo detto di “precedenza”: i capotreni scendono dal convoglio e azionano un ingranaggio posto a ridosso dell’edificio della stazione chiamato R.A.R. (Rilevamento Attraversamento a Raso) che permette al D.C.O. (Dirigente Centrale Operativo che gestisce il tratto di linea) di aprire il segnale e quindi fare entrare in stazione il treno incrociante. Una ferrovia forse un po' antiquata e d’altri tempi, ma molto affascinante e "romantica". A Belgioioso c'è un bellissimo castello medioevale da vedere. Risale al XV secolo e attualmente è visitabile in occasione di mostre e manifestazioni: le più importanti che si svolgono annulamente sono "Officinalia" (una delle più importanti fiere "bio" nazionali dell’alimentazione biologica, biodinamica e dell’ecologia domestica), "Next Vintage" (fiera di capi e oggetti che rappresentano la storia del costume della moda) e più recentemente "Belgioioso Comic and Games" (giornate interattive dedicate al mondo del Fumetto in cui la cultura "nerd" e quella "pop" si fondono a perfezione con l’atmosfera magica circostante).
    Dopo il mega stabilimento della formaggeria Galbani fra Corteolona e Santa Cristina, a Miradolo Terme (rinomato centro termale) si scorgono sulla sinistra le piccole alture dei Colli Banini, che mi accompagnano fino al ponte del fiume Lambro, che segna il confine con la provincia di Lodi. A destra da non perdere il maestoso Castello dei Federici di Chignolo Po: di antica edificazione (VIII secolo) è importante tappa lungo la Via Francigena. A Ospitaletto Lodigiano costeggiamo lo svincolo dell’Autosole e, appena prima dell'unico passaggio a livello della statale 235 (che costeggia la ferrovia), passiamo sotto la linea dell'Alta Velocità. A Casalpusterlengo il binario si immette sulla Milano-Bologna e da lì in poi corre molto più velocemente. Sosta a Codogno, poi si prosegue per Cremona. Pizzighettone ha due stazioni: quella omonima, posta in realtà a Borgo Gera (al di qua del fiume Adda), e "Ponte d’Adda", che in realtà è lo scalo principale che serve tutta la zona residenziale a est della bellissima cittadina d’arte (da non perdere la visita alle medioevali Mura e alla Torre del Guado).
    Arrivo nella stazione di Cremona in perfetto orario. Lo scalo cremonese è più unico che raro: dispone solo di tre binari passanti e ben 4 binari tronchi per gestire tutte le tratte che fanno capolinea qui. Ho un’ora e mezza di scalo prima del treno per Mantova così ne approfitto per visitare il centro storico e fare due passi per ammirare Piazza Stradivari e la bellissima Piazza del Comune, dove sorge il celebre Torrazzo.
    Il viaggio prosegue alle ore 11:30 a bordo del Regio-Express in arrivo da Milano e diretto a Mantova, un convoglio lungo, formato da più carrozze, che in gergo ferroviario viene definito "materiale pesante". Facciamo poche fermate, fra cui Piadena, dove scendono i passeggeri che hanno le coincidenze per Brescia o per Parma. Arriviamo a Mantova alle ore 12:18. Ho tutto il tempo per visitare la bellissima città posta sui laghi del Mincio: ogni ora c’è un regionale per Monselice, quindi posso ripartire quando voglio. Palazzo Ducale, Palazzo Te, Piazza della Ragione e il Castello di San Giorgio sono i 4 luoghi assolutamente da vedere. Se avanza tempo è necessario arrivare fino al Ponte di San Giorgio, da dove si gode di una eccezionale vista sullo skyline del centro storico mantovano sullo sfondo dei laghi formati dal fiume Mincio.
    Gli ultimi 85 chilometri di linea ferroviaria sono percorsi in quasi 120 minuti da materiale ETR "Rock" in livrea Trenitalia, regionali che fermano in ogni stazione della tratta, che tocca piccoli paesi - come Castel d’Ario, borgo natale del pilota Tazio Nuvolari omaggiato con tanto di statua, oppure Bonferraro dove bisogna assaporare la cucina tipica della zona e senza glutine del ristorante "Natural Cuisine" a due passi dalla stazione; alcune cittadine come Nogara, Sanguinetto (da vedere il maestoso complesso fortifizio del 1300) e Legnago, nella Bassa Veronese. Subito dopo il treno corre verso due bellissimi borghi medievali: Montagnana ed Este, due cittadine dove il tempo si è fermato a secoli fa, cintati di Mura antiche e che sorgno alla base dei maestosi Colli Euganei. A Monselice (sosta obbligata in Piazza Mazzini al cospetto della duecentesca Torre Civica) termina la corsa nello scalo ferroviario posto lungo la linea Venezia-Bologna.
    La Pavia-Cremona-MantovaMonselice è, in definitiva, un bellissimo itinerario artistico-paesaggistico oltre che ferroviario, sicuramente molto alternativo alle moderne e veloci direttrici, consigliato a chi, come me, ama il viaggio “lento" e preferisce suddividerlo in tappe per godersi paesaggi ormai davvero inusuali e lontani da quelli imposti dalla routine quotidiana, compiacendo la ricerca e la (ri)scoperta di luoghi e di borghi tagliati fuori dalle principali vie di comunicazione.
    Buon viaggio!
    #iononviaggioinautostrada #infinitimodidiviaggiare #ferroviedimenticate #versoEst

    Edited by Liutprando - 11/5/2022, 21:12
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    La trasferta di Piombino inizia con un pneumatico bucato. Proprio così. Altroché partenza intelligente per essere in Toscana relativamente di buon’ora. Alle ore 9:45, quando arrivo proprio davanti alla casa di Kava, lo vedo fuori in strada, insieme al figlio, che gironzolano sconsolati attorno alla Peugeot 208 con la quale saremmo dovuti partire a razzo verso il PalaRavizza di Pavia e, da lì in poi, verso le terre livornesi. Col caxxo! Un anno e mezzo senza trasferte (l’ultima collettiva è stata a San Giorgio su Legnano di due stagioni fa, tralasciando la sfida di Super Coppa a Crema di settembre) ed eccoci qua: con il morale a mille, ma tutto d’un tratto sgonfiato come 'sta ruota bucata spatasciata sull’asfalto. Kava non si perde d’animo, però. Gonfia la ruota con il mini-gonfiatore elettrico e una volta stabilizzatolo siamo tutti e tre a bordo, direzione Norauto del "Carrefour" sulla Vigentina di Pavia (l’unico meccanico aperto di domenica in tutto l’universo conosciuto!). Nel frattempo avvisiamo gli altri compagni di trasferta (Fiora, Ale e Depla) che abbiamo avuto un “piccolo” contrattempo, così il ritrovo è spostato nel parcheggio del centro commerciale.
    La signorina dietro lo sportello della filiale ci dice che la macchina può essere messa a posto solo nel pomeriggio (peccato che nel pomeriggio dobbiamo essere già due regioni più a sud della nostra!), così mentre Kava supplica la fanciulla di trovare un buchino per cambiare la gomma, arrivano gli altri. Si fa l’affare: la gomma sarà sostituita nel giro di un’oretta. Così ne approfittiamo per fare un salto all’interno della galleria del C.C., soprattutto per prenderci dei robusti caffè al baretto, per guardare un PC di ultima generazione e cercarmi alla libreria un libro di Joe Lansdale che non c’è.
    La macchina viene consegnata puntualmente e così a bordo di due automezzi (siamo 6 in tutto!) possiamo partire alla volta della Toscana con (solo!) un’ora di ritardo sulla tabella di marcia. Tangenziale est, poco traffico: giù verso la S.S. Bronese, poi dritti verso quelle infernali autostrade che io odio tanto (#iononviaggioinautostrada). Qua ci sono costretto. Prendiamo l’A21 al casello Broni-Stradella, direzione Piacenza, poi un tratto di Autosole, finché nei pressi di Parma non imbocchiamo l’Autostrada della Cisa. Io ho fatto cambio di auto e sono passato su quella di Fiora, dove c’è seduto dietro Ale, mentre Depla ha voluto a tutti i costi salire su quella di Kava e del piccolo Riki. Pit-stop al primo autogrill dell’A15: c’è chi scende per mettere a posto nuovamente la pressione dei pneumatici, chi fa un po’ di benzina, chi ne approfitta per andare in bagno e chi semplicemente fa due passi per sgranchirsi le gambe. Nel frattempo pianifichiamo di fermarci a Livorno per pranzare e siccome Kava dice che ha una voglia matta di assaggiare il caciucco alla livornese, mi viene in mente una trattoria, conosciuta anni fa, dove il caciucco e ogni quant’altro ben di Dio a base di pesce lo cucinano in maniera “tosta” e a prezzo davvero contenuto. Si chiama “Stuzzicheria di Mare”, si trova a Livorno in Piazza Mazzini, davanti a un’insolita statua del “Che Guevara” (eh! Livorno è sempre stata un po’ "rossa"...), un locale che ho conosciuto una sera grazie a due amiche toscane – altrimenti mai sarei riuscito a scovarlo nonostante i miei continui giri e rigiri sulle lunghe strade statali italiane. Come sempre, infatti, i locali suggeriti dalla gente del “posto” sono sempre di gran lunga superiore a qualsiasi “ristorante” scovato su internet e con mille stellette di media su TripAdvisor. Piccolo pensiero personale a parte: andate a mangiare dove vanno a mangiare le persone del luogo, non dove vanno i turisti che arrivano da ogni dove. Alla “Stuzzicheria” mi dicono prima che c’è posto per le due, poi per le due e mezza, infine per le tre, infine "NO, mi spiace, non c’è un tavolo per sei, ma prova a chiamare l’altro nostro locale, quello nel quartiere “Piccola Venezia”, si chiama Stuzzicheria di Mare in Venezia" (anche se siamo a Livorno?). Telefonata, presentazione e tavolo per 6 prenotato alle ore 14:15 a nome mio in via Scali delle Ancore.
    Il viaggio prosegue dritto con gigantesche gallerie che ci inghiottono, mentre Fiora vuole che gli racconti i miei epici viaggi a bordo della mia Matiz GPL quando scollinai per la prima volta il Passo Cisa lungo l’impervia Statale 62. Vi rimando ai miei diari di viaggio. Meglio ancora al libro "Io Non Viaggio in Autostrada" (pubblicità non occulta, ma proprio palesissima!). Sbuchiamo in Toscana, ma per poco, poi il pezzettino di Sarzana, che è Liguria, poi di nuovo Toscana, stavolta per sempre. Arriviamo nella città portuale di Livorno alle due in punto. Parcheggiamo in pieno centro (con la classica botta di “culo” nel trovare un posto a pochi passi dal locale) e ci incamminiamo lungo le calli della “Piccola Venezia”, quartiere così chiamato perché ricorda per i suoi canali la celebre città lagunare. Arriviamo alla trattoria, ci accomodiamo a una grande tavola rotonda che sembriamo Re Artù con i suoi cavalieri (pochi ma buoni) e ordiniamo subito da mangiare e da bere. C’è chi prende un piatto di pasta, chi un primo di mare, chi come me, Kava e Depla tre belle porzioni di caciucco e una bottiglia di vino bianco frizzantino che dura come una tripla dai 6,25. Nota culinaria: il caciucco è una zuppa di pescato “povero” (polpi, seppie, cicale, scorfani, ecc.), un piatto tipico di ogni regione italiana che in ogni posto diverso assume anche nomi diversi: è detto “Brodetto” sulla riviera Adriatica da Fano a Vasto (ma con mille varianti), è detto “Ciambotto” sulla Puglia di levante, mentre qui a Livorno il “Caciucco” è già diverso e differente da quello omonino di Viareggio. Divergenze a parte, il piatto tipico livornese è di una prelibatezza unica. Applausi al cuoco (e alle cameriere). Non sazi ordiniamo quasi tutti un secondo a base di frittura di calamari – credo la migliore che ho mai mangiato in vita mia! Per terminare il lauto pasto io mi delizio con un “ponce” livornese, un ammazza-caffé tipico della zona: caffè ristretto caldo + rhum al caramello + scorza d’arancia. Manca solo un gol di Lucarelli sotto la curva delle B.A.L. e saremmo a posto! Andiamo alla casa a pagare il conto: solo 24 euro a testa! Partono i cori per i ragazzi dell'osteria! E abbiamo mangiato benissimo, con i piatti di pesce che sapevano di Mare! (non di plastica come quelle “robe” surgelate che hanno i nostri supermercati della Val Padana….). Segnalo, inoltre, l’elevato tasso di gnoccaggine delle cameriere che ci hanno servito! 🙂 Ci torneremo! Paghiamo e al mio “Sempre e solo Pisa merda e Forza Livorno!” parte un "Olè" generale di tutto lo staff dietro al bancone. Risaliamo sulle macchine e abbandoniamo la città labronica in direzione ancora Sud.
    Dopo gli ultimi malefici tratti autostradali dell’A12, finalmente ci gettiamo sulla superstrada gratuita “Nuova Variante Aurelia” che ci porta dritti in Maremma. Ci vuole ancora un’ora abbondante verso la nostra destinazione ma io, anziché chiacchierare come prima o confutare il paesaggio, sprofondo in una pennica tipo coma irreversibile. Mi sveglio che stiamo entrando nella cittadina del Basket Golfo. Alcune frecce stradali indicano la dicitura “Sardegna”, altri “Riotorto” - una località balneare che conosco molto bene. Arrivati al “Palasport” (ci vorrebbero almeno una decina di virgolette) mi viene voglia di abdicare, raggiungere il primo bar del quartiere e stare lì a cacciare giù shot di ogni superalcolico come se non ci fosse un domani e provarci con la barista di turno. Un tendone (da circo!!!) che sorge nella zona a ridosso del porto, che da fuori sembra una di quelle tensostrutture dove dentro ci vai un lunedì sera con amici per la solita partitella di calcetto dopo il lavoro e prima di una pizzata in compagnia... Invece lì, proprio "lì" dentro, i “nostri” dovrebbero giocarci una partita di serie B di pallacanestro che già mette in palio punti pesanti... No, vabbè... Dopo essere stato convinto (ma neanche tanto) da Kava (che mette altra ironia sulla struttura) a entrare, accetto sconsolato il mio destino. Tappa ai bagni, che sono praticamente dei cessi chimici posti nel piazzale del tendone. Okay, adesso mi sto veramente stufando. E non ho ancora visto nulla! Dentro, sotto l’enorme volta del “tendone”, c’è un campo da basket e lungo il lato lungo è disposta una gradinata con i gradoni in alluminio. I ricordi di trasferte all’epoca lontana della “Gioventù Longobarda” e degli “Alcooligans” in santuari sacri della palla a spicchi come il PalaDozza di Bologna, l’Adriatic Arena di Pesaro o l’RDS Stadium di Rimini mi appaiono come pugnalate cariche di nostalgia al cuore. Becchiamo il Lele C., il mastro GM della società. Non lo saluto quasi, la prima cosa che gli dico è:
    “Promettimi che questo è l’ultimo anno che giochiamo in posti del genere!”
    Scoppia a ridere e si limita a rispondermi:
    “Lo spero tanto anche io!”
    Ci accomodiamo nel “settore ospite”, praticamente un terzo della gradinata diviso dal resto da un piccolo cancelletto. Vorrei sprofondare. Ho visto alcuni dei più bei palasport d'Italia e guarda ora dove sono finito. Esponiamo solo un bandierone a scacchi biancazzurri. Salutiamo Mattia Venucci, indimenticato EX di due stagioni fa (“Il fenomeno, il fenomeno, il fenomeno ce l’abbiamo noi!”). Manca ancora una mezz’oretta e c’è chi ne approfitta per l’ultima sigaretta, qualche selfie e due o tre chiacchiere. Finalmente le ore 18:00! Palla a due e via! Nel frattempo il “palaTendone” si è riempito, per quel poco che possa riempirsi, e oltre a tanti tifosi “distinti” un gruppo di ragazzotti dietro lo striscione “Ultras Marea Gialloblù” stanno facendo un casino dell’anima. Non sono tanti, ma l’acustica permette loro un rimbombo assordante. Fare tifo dal nostro canto e cercare in 6 di soverchiarli è praticamente impossibile finché canteranno così! Allora ci mettiamo d’accordo “per farci sentire” con cori “secchi” durante le loro pause. Il trucchetto funziona e il risultato viene bene. La partita in campo si mette altrettanto bene per Pavia, nonostante (almeno sulla mia macchina) le previsioni fossero tragiche constatate la perdurante assenza del nostro totem Diego “O.K.” Corral (con tanto di stampella presente eroicamente pure lui nel settore ospite) e l’incognita di giocare in uno dei catini più caldi del girone. Ai canestri e successivi boati dei padroni di casa non ci scoraggiamo e cerchiamo di mantenere un ritmo costante nei cori e nel tifo. I ragazzi giocano bene, anzi benissimo, e prendiamo un lauto vantaggio, tant’è che col passare dei minuti il tifo casalingo cala lentamente ma progressivamente, il che ci permette a noi "amici miei" di farci sentire sempre di più. Il terzo quarto, il periodo che ammazza il match, nel quale i nostri giocatori magliati Riso Scotti (che figata di sponsor!) mordono con un micidiale cocktail a base di difesa “non si passa” e bombe da tre punti “che scansati e basta”, è quello che permette anche a noi irriducibili in gradinata ospite di salire un po’ in cattedra e di sciorinare tutto il nostro repertorio di cori e inni - il più bello per me è e resta:
    Biancazzurro è il colore della maglia,
    biancazzurro è tutto per me,
    contro leggi, diffide e repressione
    sono nato per sostenere te.
    Abbandono lavoro e famiglia,
    la ragazza mi lascia perché
    in Italia, in Europa e nel Mondo
    il mio posto è solo accanto a te.

    Nei minuti finali, acquisita matematicamente la vittoria, c’è un coro per tutti i giocatori della nostra squadra, tipo “titoli di coda” al vecchio cinema Kursaal dopo un interminabile film durato un’ora e mezza seduti su quegli antichi e nostalgici sedili duri come il cemento armato. Subito dopo la sirena la squadra viene tutta sotto la curva a darci il “cinque” e a ringraziarci per il supporto, mentre noi ricambiamo per il bel gioco offerto in campo e la grande vittoria per 80-60! Quanto tempo (forse anni?) era che non vincevamo di 20 punti in trasferta?!? E per di più in una trasferta ostica come questa di Piombino? Sembra incredibile! Restiamo qualche minuto in più all’interno del “tendone”, dopo il "rompete le righe", per aspettare e salutare Mattia Venucci, oggi per la prima volta affrontato da avversario. Risate, strette di mano, battute, ma anche un po’ di nostalgia! (Tantaaa!).
    Si riparte. Risaliamo sulle macchine e "decolliamo" alla volta di Pavia, con una sosta semi-veloce in un autogrill per rifocillarci solo di un paio di panini ‘smart’ - ma c’è chi ha ancora fame e si mangia un piattone di carne grigliata! Il resto del tragitto è un lungo sonno… condito da altrettanti intensi sogni… sogni di serie A? Forse. La notte che è già calata su ogni cosa, nome, animali, città ha forse in serbo la risposta. Io me la risparmio. Altri viaggi, altre trasferte, speriamo altre vittorie, ci attendono su questa lunga strada, che autostrada non è, ma è quella linea sottile che tutti noi speriamo ci riporti verso l'Eden promesso della serie A. Tutti a Empoli!

    Edited by Liutprando - 7/11/2021, 15:47
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    1. - Romania. Est Europa. Un pensiero fisso, un tarlo nella mia mente negli ultimi tempi. La possibilità di partire si è fatta concreta solo poche settimane fa e così ho realizzato l’idea di tornare in Romania dopo l’epico viaggio stradale del 2013 con due amici a bordo di una berlina partita da Pavia un freddo pomeriggio di fine ottobre e approdata sulle coste del Mar Nero dopo non so più quanti giorni e chilometri di “on the road”. Impossibile non pensare a quell’avventura di otto anni fa, mentre mi avvio verso l’aeroporto milanese di Linate a bordo del passante S13 da Pavia, per raggiungere la Romania questa volta con un più veloce volo aereo della Blue Air, che ho pagato un insulto al mondo intero come 9,99 euro. Autobus 73 da viale Corsica (stazione di Milano Porta Vittoria) ed eccomi allo scalo aeroportuale milanese.
    Passo i controlli doganali liscio come l’acqua, il volo decolla con qualche minuto di ritardo e dopo un’ora e mezza, ma nel nuovo fuso orario di +1 rispetto all’Italia, atterriamo all’aeroporto “Henri Conda” della capitale rumena. Fuori dallo scalo c’è il capolinea di una ferrovia che conduce direttamente a Bucarest Gara de Nord, nei pressi di dove ho prenotato una stanza d’albergo per stanotte. Niente di più comodo. Venti minuti di tragitto a bordo di un trenino di due vagoni, dalla livrea moderna, ma alimentato a diesel, che corre su una linea a binario unico non elettrificata. Arriviamo a Bucarest già qualche minuto prima: la sua metropoli è gigantesca, un alveare di cemento e catrame in mezzo a un deserto verde sconfinato.
    Gara de Nord. Gente, via vai, negozi, note catene alimentari di ristorazione. La Romania mi offre già un biglietto da visita molto diverso rispetto a quello di otto anni fa. Piazza della stazione - il mio albergo a due stelle sorge all’angolo con un piccolo distributore di carburante (la benzina al litro costa il corrispettivo di un euro). Mollo i bagagli in stanza e mi avvio a riscoprire questa città di 2 milioni di abitanti. Mi incammino per il lungo Bulevardi Dinicu, ma per raggiungere il centro “taglio” per il verdeggiante Gradina Cismigiu, un grosso parco urbano attraversato da sentieri e laghetti. Pranzo veloce in un economico fast food.
    Oltre il Bulevardi Regina Elisabetta inizia il vero centro di Bucarest, quello di via Lipscani, arteria pedonale che sorge a nord di Curtea Veche, il cuore della vecchia “Bucuresti”. Negozietti, botteghe ma soprattutto locali di ogni tipo fanno di questa vietta caratteristica il centro della movida cittadina, soprattutto dopo l’ora di cena. Attraversando il fiume Dambovita e percorrendo il suo lungofiume si arriva al cospetto del gigantesco Palazzo del Parlamento, l’ex Casa del Popolo fatta costruire da Nicolae Ceaucescu durante il periodo della Romania socialista, che con i suoi 86 metri di altezza e la sua superficie di 66 mila metri quadrati è il secondo più grande palazzo dell’intero mondo. Per tornare in centro percorro Bulevard Uniri, un gigantesco viale adornato da alti palazzi bianchi ed eleganti fontane monumentali. Progettato e costruito negli anni ‘70, rappresenta una sorta di “rinascimento socialista rumeno” dalle fattezze chiare e allegre, che andavano a discostarsi dal costruttivismo del socialismo reale sovietico che era decisamente più grigio e cupo. Da Plata Unirii si snoda un crocevia importante. A sud-ovest, risalendo l’Allea Mitropolei, ornata da alte statue, si raggiunge la Biserica Patriarhei, la principale chiesa ortodossa della capitale, annessa al palazzo del Patriarca. Dalla piccola altura si gode di una bella vista sulla parte meridionale della metropoli - che ovviamente è rapita dalla gigantesca ex Casa del Popolo - tuttavia, l’attenzione è per il seicentesco edificio religioso. All’interno è in corso una cerimonia liturgica. La messa è cantata in lingua latina (alcuni altoparlanti diffondono le mistiche sonorità anche sotto il portico d’ingresso) e al suo interno un nutrito gruppo di fedeli è rivolto verso l’altare in atto di preghiera. Un fedele è inginocchiato completamente per terra. Le donne indossano in testa foulard dai colori sobri. Una donna è inginocchiata contro la parete e sembra pregare contro il muro. L’atmosfera è davvero molto suggestiva e riesce a sconfiggere per poco il mio eterno agnosticismo. Resto per parecchi minuti ad assistere alla celebrazione ortodossa prima di uscire e riprendere il mio cammino esplorativo.
    Risalgo Piata Unirii e attraversando il dedalo di viette attorno a Curtea Veche risbuco in via Lipscani. Si è fatto pomeriggio tardi e i tanti locali e pub del centro storico si stanno preparando per vivere un venerdì sera frizzante. Entro in un cortile dove c’è un pub moderno e giovanile e a un tavolo esterno ordino un litro di birra alla spina Ursus. La pagherò qualcosa come 4 euro e mezzo. Serata nella hall dell’albergo - dopo lauta cena nel ristorante libanese accanto e un po’ di shopping di viveri in un market aperto 24 ore dall’altra parte della strada: in TV danno l’anticipo del campionato di calcio fra Farul Costanza e Dinamo Bucarest (non Steaua, ma Dinamo che è l’altra squadra della capitale). Al simpatico impiegato della hall del mio hotel, che mi confessa di essere un grande tifoso dei biancorossi, andrà male: vincerà il Costanza per 3-0.

    2 - Sveglia di buon’ora per prendere il treno regionale che parte dalla Gara de Nord di Bucarest e che mi deve portare a Tulcea, nella regione del Delta del fiume Danubio, ai confini con Moldavia e Ucraina. Partiamo in orario (ore 6:34), a bordo in una littorina dalla livrea moderna (due sole carrozze con scompartimento aperto) ma alimentata a diesel. Alcune linee ferroviarie (come la Bucuresti - Constanta) sono elettrificate e a doppio binario, ma il mio treno poi dovrà percorrere una linea secondaria.
    Fino a Medgidia percorriamo la direttrice più importante del Paese, costeggiando per lunghi tratti anche la moderna Autostrada A1. Alla stazione di Medgidia stiamo fermi parecchi minuti. Qui scendono e salgono parecchie persone. Snodo importante, sorge alle porte di Costanza ed è un crocevia di treni diretti, oltre che verso la cittadina sul Mar Nero, anche per Mangalia, capolinea e confine di stato con la vicina Bulgaria.
    Abbandoniamo la moderna ferrovia a doppio binario elettrificato e il trenino si avventura su una linea a binario unico che sarà caratterizzato da attraversamenti stradali senza sbarre (il treno rallenta e fischia a ogni incrocio!), semafori meccanici di una volta, caselli ancora presenziati da ferrovieri che con bandierine gialle danno l’ok a proseguire, stazioncine di campagna immerse in mezzo al nulla e un paesaggio brullo, disabitato e quasi lunare. Per percorrere i circa 100 km di distanza ci mettiamo un’eternità, ma la lentezza del viaggio permette di assaporare il panorama davvero stupendo che ci circonda. Pastori con i loro greggi di pecore, fattorie immerse fra campi di frumento e girasoli, carrettini trainati dai cavalli.
    Solo a Babadag, dove inizia l’area dei laghi costieri e delle zone umide del Delta, sale un po’ di gente. La maggior parte, come me, sono diretti al capoluogo di Tulcea. Arriviamo alle 12:15 come da orario. Dopo aver mollato i bagagli alla pensione, mi reco alla caccia di un posto dove mangiare. Trovo un elegante ristorante sul lungo fiume Danubio. Sotto la veranda, direttamente in bella vista sul fiume, ordino un piatto di zuppa (“ciorba” o “borsc”), un secondo a base di pesce di fiume, un’insalata mista e una bottiglia da mezzo litro di birra. Pago in tutto 51 lei, una decina di euro.

    3 - Le strade finisco a Tulcea, poi non si prosegue più. Né in auto, né in treno, né a piedi. L’unico mezzo per raggiungere Sulina, i villaggi che sorgono in mezzo al delta e la foce del Danubio nel Mar Nero è via fiume tramite barche o comodi battelli di linea. La “Navrom Delta” (una delle tante compagnie di trasporto pubblico) ha due corse giornaliere, una alle 10 di mattina e l’altra alle 13:30. Vanno entrambe dritte a Sulina, ma io come prima tappa opto per Maliuc, villaggio di pescatori a una ventina di chilometri più a est e a un’ora esatto di viaggio. Il biglietto costa 26 lei (5 euro) e il battello (con un solo ponte passeggeri e un cabinato che a occhio ospita una 50ina di posti a sedere, più un piccolo “desk” esterno di un’altra ventina) lascia Tulcea alle 10 in punto. Il Danubio in questo tratto finale sembra un’autostrada nelle ore di punta. Non so più quante imbarcazioni, dalle piccole alle più grandi dimensioni, incrociamo o si affiancano al nostro viaggio. Subito dopo aver lasciato Tulcea alle nostre spalle, il Danubio si biforca in due grossi rami – il terzo, più a monte di Tulcea, è quello più a nord che segna praticamente il confine con l’Ucraina. Il ramo inferiore prosegue per Sfantu Gheorghe, mentre quello centrale tira dritto per Sulina, che dista 71 chilometri. Anticamente faceva un percorso diverso, pieno di spettacolari anse; poi con un lavoro di impeccabile pazienza è stato rettilineizzato in maniera quasi perfetta. Fra i due corsi del Danubio si apre un mondo acquatico di fiumi, laghi, paludi, canali e boschi a perdita d’occhio che è impossibile da esplorare se non a bordo di un motoscafo. Il viaggio prosegue, passando le sponde di qualche paesino piccolo, come Partizani, dove però non sostiamo.
    A Maliuc siamo già nel cuore del Delta puro e selvaggio. La nave attracca a un piccolo porticciolo, dove scendiamo solo in poche unità. La maggior parte delle persone resta a bordo, diretta alle spiagge e ai divertimenti di Sulina. Maliuc sembra un posto ai confini della realtà. Il classico paesino di quei film dove un turista capita per caso e quasi sempre fa una brutta fine. Solo la strada sul lungofiume è pavimentata di piccolo piastrelle romboidali: tutte le altre sono sterrate o si riducono a sentieri. Palazzoni vecchi, antichi, edificati sicuramente nel periodo socialista, distanziati fra loro da alberi e giardinetti verdi descrivono lo scenario un po’ desolante e non proprio accogliente a primo impatto. L’altro gruppetto di passeggeri che è sceso insieme a me si dirige verso imbarcazioni private che li scortano altrove. La motonave riparte davvero in fretta alle mie spalle e io resto completamente solo in quel mondo tagliato fuori da ogni via di comunicazione, sentendomi sempre più quel famoso personaggio di quel film retrocesso, però ora, da protagonista a comparsa di breve durata.
    Mi faccio coraggio, pensando che in Est Europa ho viaggiato spesso solo, mi sono trovato in situazioni apparentemente peggiori di questa, ma in un modo o nell’altro ho scacciato suggestioni fastidiose della mia mente. Mi incammino verso il B&B dove devo passare la notte, basta che percorro il tratturo che costeggia il fiume, indietreggiando di circa un chilometro in direzione ovest. Tuttavia, alla fine dell’abitato urbano, un cancello sbarrato mi arresta il cammino. Fantastico. Provo un giro più esterno, attraverso le stradine interne per aggirare quell’ostacolo e allora sì che la piccola e povera Maliuc mi sembra davvero un villaggio fantasma, abitato da fantasmi che potrebbero osservarmi da dietro le finestre di case silenziose e apparentemente vuote. Non c’è in giro nessuno, non si ode un rumore, è mattina inoltrata e fa già un caldo insopportabile, nonostante il verde non manchi di certo attorno a me. Più mi addentro in Maliuc, e più i palazzoni socialisti lasciano il posto in mezzo agli alberi a casettine di legno e piccole baracche. Passo una chiesetta, piccola, graziosa e dai colori vivaci, ma che sembra davvero uscita da un film di serie B, e poi la strada sterrata si allontana dal centro paese. Con un giro tortuoso sono in mezzo a una campagna spietata. Ecco la “Louisiana” che avevo sempre cercato dalle mie parti, eccola veramente qui che si apre ai miei occhi. Canali stagnanti, alberi che crescono e sbucano da ogni sponda, baracche galleggianti, imbarcazioni lasciate attraccate a piccoli moli, casupole di legno, fattorie con animali da cortile (mucche, vitelli, maiali, galline), ma nessun’anima in giro… Un sentiero sembra scendere ancora in direzione del fiume, camminando accanto a una recinzione di piloni di cemento legati fra loro da una ramina di ferro a maglie quadrangolari, arrugginite come il tempo che si è fermato in questo limbo di terra, che dovrebbe essere Europa, ma che Europa non è più almeno da Tulcea, ultima frontiera di civiltà e di “Continente”. Zone umide, laghetti, quelle baracche in legno da dove (sempre nel mio famoso film mentale di serie Z) potrebbe uscire il classico serial killer armato di motosega o di un fucile a pompa. Accelero stupidamente il passo a questi pensieri. Eccomi di nuovo sull’argine del fiume, ho bypassato così il cancello chiuso e ora posso dirigermi verso la mia destinazione. Una villetta di campagna, cintata con un bel giardinetto, tirata su con una costruzione bella e moderna; davanti c’è un piccolo ma comodo attracco per chi vuole arrivare via fiume.
    Non c’è Julien ad attendermi, il giovane che stamattina per telefono in un fluente inglese mi aveva dato istruzioni per arrivare dal porto al B&B e mi aveva chiesto a che ora sarei stato lì. Ci sono solo ragazze, simpatiche, carine, solari, che sfoggiano quei sorrisi e quella bellezza est-europea alla quale non so resistere, ma che di inglese non spiccicano una sola parola, se non giusto due o tre di cortesia.
    “Not English!” mi fa la biondina subito dopo un accenno di conversazione da parte mia.
    Allora devo dare sfogo ai miei ricordi di una lingua rumena incrostata nelle falde della memoria.
    “Eu sunt Mirko”
    Da applausi. Potevo impressionarla anche con un più forbito “Numele meu este Mirko”, ma non volevo strafare.
    Mi conduce attraverso il giardino e poi sul retro, dove sorge un complesso di camere, bagni, corridoi e sale costruire in un piccolo complesso ligneo. Mi mostra la mia stanza, una piccola camera dalle pareti in legno, con un letto matrimoniale, un lucernario in alto, un comodino a lato e niente altro. Beh, volevo una vacanza all’insegna dell’avventura e non mi lamento.
    In qualche modo mi fa capire che Julien non c’è, ma che arriverà dopo. Ho tempo per una doccia fredda come il ghiaccio e per mettere qualcosa sotto i denti, cibarie varie che mi sono portato nello zaino da Tulcea.
    Il giovane arriva dopo pranzo e scambiamo due chiacchiere, con lui che parla inglese meglio di me e quasi faccio fatica a starci dietro.
    Gli chiedo se per caso nel pomeriggio si può fare un’escursione in barca. Di Maliuc credo di aver già visto tutto e siccome devo stare qua fino a domattina, la storia prenderebbe una piega un po’ noiosa, anche se un po’ di relax, magari leggendo qualche libro che mi sono portato dall’Italia, e magari in una location affascinante come in riva al fiume, non sarebbe affatto male come programma. Julien mi dice che di domenica non organizza escursioni, ma prova a chiedere a un suo amico pescatore. Affare fatto. Per 100 lei (20 euro) puntello alle 15:30 al piccolo attracco per un avventuroso “boat tour” di tre ore.
    Ecco Valentino. Ragazzo rumeno che ha lavorato una decina d’anni in Italia, precisamente vicino a Torino, e che parla bene italiano. A bordo della sua barca (un sei metri abbondanti spinti da un motore Honda a 40 cavalli) c’è anche una coppia che avrà la mia età: sono rumeni e parlano in rumeno, ma capiscono la mia lingua. Salpiamo in direzione est, ma subito dopo aver sceso il Danubio fino oltre l’estremità orientale di Maliuc, imbocchiamo il canale del Vecchio Danubio (lo storico percorso, più ansato, che il fiume faceva prima che fosse “rettilineizzato”).
    Entriamo in un mondo difficile da raccontare. Se il Danubio può assomigliare al fiume Po nei pressi del Delta e del Polesine (quindi molto grosso e largo da sponda a sponda), questa miriade di canaletti e affluenti si smarriscono in un multiverso completamente alieno. Quando prima ho sparato di essere nella “Louisiana dell’Est Europa”, non pensavo di averci imbroccato così tanto. Porticcioli allestiti alla bella e meglio, barche ormeggiate, vecchie imbarcazioni abbandonate, una fitta vegetazione che invade il corso del fiumiciattolo. Stiamo navigando su uno spazio fluviale anche nel tempo. Viaggerei adagio per ammirare ogni singolo metro di questa natura selvaggia e incontaminata, ma Valentino sferza al massimo la velocità e schizziamo a razzo. Biforcazioni, canneti, stagni. Il Delta è un labirinto di cunicoli acquatici da cui uscirne integri senza una mappa o un esperto barcaiolo è pressoché impossibile. La fauna è caratterizzata dapprima da animali da cortile (vacche, buoi, vitelli) che pascolano serenamente lungo le sponde dei fiumi, poi si fa più caratteristica. Ecco gabbiani, cormorani, martin pescatori e quant’altro.
    Il Lacul Fortuna è un gigantesco lago d’acqua dolce dove ammiriamo stormi di pellicani. Credo che è la prima volta che li vedo in vita mia. Si scansano quasi infastiditi dal nostro passaggio, mentre rallentiamo ed entriamo in questa vasta superficie d’acqua, bassa, ma molto estesa. Valentino sa dove portarci e ci infiliamo, dall’altra parte, in uno stretto cunicolo che a prima vista faremmo fatica a non arenarci. Non è così. Avanziamo fra alti canneti in quello che in realtà è un gigantesco acquitrino senza confini. Raggiungiamo il Lacul Mari, più a nord, e anche se è più piccolo del precedente, è più caratteristico, perché quasi tutta la superficie è ricoperta da piante acquatiche, fra le quali spiccano meravigliose ninfee bianche. L’acqua è bassa in questa stagione – ci spiega la nostra guida – e dobbiamo tornare indietro. In primavera si potrebbe proseguire ancora più a nord e raggiungere, con un giro più largo, il villaggio di Mila 23, l’unico borgo rimasto lungo il vecchio corso del Danubio. Torniamo verso il Lacul Fortuna, ma facendo un giro più settentrionale. Incrociamo barche di pescatori e un angolo dove un gruppo di amici ha montato delle tende e stanno facendo il bagno. Siamo immersi in una vegetazione così rigogliosa e naturale, senza la minima traccia di artefatti umani per chilometri e chilometri, che se mi vedessi sbucare un tirannosauro preistorico sulle sponde non rimarrei spiazzato. Riattraversiamo il Fortuna, il gruppo di pellicani e ritorniamo a Maliuc che è ormai il tramonto. L'avventura in barca è valsa l’intera vacanza.
    Ceno al "Nea Paul" (il mio B&B) dove mangio un piatto di polenta fritta con pesce di fiume in umido, condito da alcune pietanze. In serata conosco un amico di Julien, si chiama Alex, fa il fotografo e ha girato un po’ di Paesi. Parla molto bene in inglese. Discorriamo di Romania, Italia, altri paesi dell’Occidente, di calcio, di tifoserie, del periodo comunista romeno e di quando non c’è più stato, e di tornare sul Delta a giugno, quando tutti i colori visti oggi cambiano completamente, così come la flora, la fauna e le sensazioni provate oggi a bordo di una piccola avventurosa barca.

    4 - Con qualche minuto di ritardo la grande nave fluviale della Navrom Delta arriva all’imbarco di Maliuc, dove esattamente 24 ore fa mi aveva lasciato giù sperduto e abbandonato. Lo scenario è pressoché identico a ieri, la scenografia quella di una cittadina fluviale fantasma, con pochi (spettri) che si aggirano per le case e l’unica strada pavimentata da sampietrini del lungo fiume. Sono seduto su una panchina riparato dall’ombra di una grossa pianta per evitare il già pressante caldo umido e afoso di questa mattinata. Di fronte su un’altra panchina una coppia di queste parti, sulla quarantina d’anni: lui è uno smilzo piccoletto che indossa un cappello a tesa larga in testa, una shirt un po’ sciupata e due lunghi pantaloni che mettono caldo solo a guardarli; lei un po’ grossa di stazza, indossa una maglietta senza reggiseno al di sotto, che fa intravedere un seno voluminoso ma cadente come cocomeri andati a male. Ridacchiano in continuazione e si sbaciucchiano come sedicenni arrapati che ieri sera l’hanno fatto per la prima volta.
    L’amore a Maliuc, un villaggio ai confini del mondo, dove transitano ogni tanto soltanto qualche battello per rapirti e portarti via nelle uniche due direzioni possibili: Tulcea o Sulina. Io sono diretto a quest’ultima, capolinea del tragitto, ma anche del fiume Danubio, almeno del suo ramo centrale, laddove si tuffa nel Mar Nero. Ricordo che qui non ci sono strade che collegano fra loro i piccoli paesi di questo universo lontano anni luce dalla concezione di “continente” che abbiamo banalmente in testa. Qui le strade sono poche, sterrate e interrotte da canali e affluenti dell’ancor più lungo e immenso fiume Danubio (che raggiunge profondità anche di 20 metri); formano isole, penisole, peduncoli tagliati fuori dal mondo da paludi, stagni e giganteschi laghi. Non ci sono ponti che collegano i tasselli di questo puzzle, ma si viaggia solo a bordo di barche o di battelli. Altrimenti resti qui, a Maliuc, a osservare i motoscafi che sfrecciano davanti al molo a velocità siderali, mentre il tempo che passa ma in reltà sembra restare ancorato agli anni della Romania di Ceaucescu.
    Arriva anche un gruppetto di quattro ragazzotti, sono anch’essi diretti a Sulina. Ecco la nave, la stessa di ieri. Oggi è lunedì e speravo fosse meno affollata, invece sembra esserci più gente. Solite lente manovre di attracco, con l’ometto – lo stesso che c’era ieri – che raccoglie le cime del battello, le fissa in modo sicuro, poi apre il cancelletto. Non scende nessuno. Salgo a bordo, percorrendo uno stretto e piccolo passatoio sospeso fra il vuoto e l’acqua di fiume, traballando a ogni passo che faccio. Il personale di bordo sulla nave tende la mano a chi trasporta trolley o borse pesanti. Non ho il biglietto, non ci sono biglietterie a Maliuc, solo un attracco che sembra uscito da un romanzo di Mark Twain dell’Ottocento.
    “Puoi farlo a bordo!” mi aveva rassicurato ieri sera Julien, quando gli avevo chiesto come avrei fatto a raggiungere Sulina privo di documenti di viaggio.
    Si mollano le cime e si salpa. Mi metto sempre a poppa, in piedi vicino a un corridoio laterale, sperando di intravedere fra la gente seduta e quella in piedi qualche scorcio da immortalare in qualche foto. Passiamo l’ultima zolla di Maliuc che si affaccia sul Danubio e subito dopo la confluenza del vecchio fiume, dove ieri Valentino ci aveva scortato a caccia di avventure ed emozioni di altri tempi. Il paesaggio cambia rapidamente. Le sponde si fanno più spoglie e aride, meno boscose: si aprono pianure piatte e brulle a perdita d’occhio. A metà tragitto fra Maliuc e Crisan incrociamo una nave mercantile di dimensioni fantascientifiche. E’ lunga e piatta quasi quanto un’astronave che fluttua in un universo fatto di stelle e galassie a perdita d’occhio. Sventola un tricolore molto noto e una scritta campeggia sulla sua poppa: “RUSSIA”. Questa viene direttamente dal Mar Nero, dalla Crimea o dai porti di Sochi ed è diretta quasi sicuramente a Tulcea. Rimaniamo ad ammirarla in un silenzio catartico mentre scivola lentamente via - qualcuno scatta delle foto o realizza dei brevi video con i propri telefoni cellulari. Poi è il turno di una mercantile battente bandiera olandese. Il terzo mercantile, con bandiera rumena, mi fa capire che il Danubio, almeno in questo tratto, è più di un fiume, ma è una gigantesca direttrice d’acqua verdastra e torbida come lo spazio profondo che collega l’Est con l’Ovest del Mondo.
    Crisan appare alla nostra sinistra. A primo occhio sembra un villaggio di fiume più turistico, meglio tenuto che Maliuc, e forse anche meno genuino. Ristoranti, alberghi, locali, villette private, tutte munite di piccoli attracchi, iniziano a tranquillizzarci che siamo in procinto di attraccare. Qui scende un bel po’ di gente, anche se siamo ancora lontani dalle spiagge di Sulina. Ci vuole un’altra oretta, che adesso pare interminabile. Il Delta d’ora in poi muta profondamente, si inaridisce ancora di più e non è più quello selvaggio e incontaminato di prima: sembra quasi prepararci all’arrivo nella città terminale del viaggio. Palazzoni, darsene, stabilimenti navali. Più in là, verso il centro, ristoranti, alberghi e locali per turisti veri e propri e non avventurieri ed esploratori di altri mondi.
    Gran parte della città sorge sulla sponda destra, ma ci sono palazzi e caseggiati anche dall’altra parte. Solo che non ci sono ponti per attraversare questo gigantesco fiume che ormai, prossimo alla sua foce, ha raggiunto una larghezza di dimensioni siderali. Bisogna ricorrere a volenterosi taxi-boat, piccole barchette di pescatori, che vogliono solo 1 Leu (20 centesimi) per traghettarti da una riva all’altra. Salpano di fronte alla Pensione Perla (zona ovest della città) e lasciano giù a un attracco nei pressi dei capannoni industriali dalla sponda sinistra del Danubio.
    Avevo prenotato una tenda in un sedicente “camping” dalle parti di via Popescu, ma quando arrivo in loco capisco che il bassissimo costo del pernottamento (10 euro!) era uno specchietto per allodole bello e buono, perché le fotografie sul sito di Booking.com erano assolutamente ingannevoli. La struttura è fatiscente, ridotta al limite del degrado, nonostante il quartiere di casette di legno circostanti sia molto caratteristico. Il cortile non è recintato né ha protezioni di alcun tipo, le tende (cinque in tutto) sorgono in un’aia tenuta malissimo e mal curata, sotto un sole battente che le rende dei forni a microonde dove cuocerci dentro degli esseri umani. Il resto della struttura è ancora peggio. La “hall” dove vengo ricevuto è un cortiletto con due tavolini posti sul retro, ingombrato da pentole e stoviglie lì poste almeno dal giorno prima, sulle quali nugoli di mosche stanno allegramente danzando impazzite come a un rave party per insetti; i bagni sono dei cessi chimici locati in un angolo del giardino in mezzo a erba alta, cresciuta in maniera incontrollata e ingiallita dai colpi solari. Cani randagi che si strusciano fra l’erba e collassano ogni dove completano il quadro esterno. L’interno dell’edificio è forse ancora peggio: una baracca tenuta in piedi alla bell’e meglio, che è tutto tranne che confortante. La stanza “dormitorio”, nel caso non amassi l’accomodamento nella tenda indiana del giardino, è uno stanzone fuoriuscito da un ripostiglio dove sono stati messi un paio di letti a castello e un piccolo ventilatore che diffonde aria bollente e irrespirabile. Mi accolgono due tizi, ai quali poi se ne aggiunge un terzo, che non sono romeni: parlano inglese e sembrano più degli hippy scappati dall’Ovest per creare qui a Sulina una “Comune” bella e buona.
    “E’ meglio che dormi fuori nella tenda, perché qui fa caldo!” mi dice la ragazza bionda, che sta insieme al capellone con i rasta.
    Mi accomodo in quella che dovrebbe essere la mia. La tenda è un telone legato su attorno a un palo, che non si può manco chiudere o sigillare. Dentro sono stati buttati per terra un paio di materassi sporchi, due cuscini e uno sgabello per rendere un po’ di comfort: forse mi sentirei più a mio agio se mi trovassi disteso su un letto di una camera mortuaria. Se dovessi giocare ai cowboy contro gli indiani sarebbe un pomeriggio assolutamente indimenticabile. E io, ovviamente, starei dalla parte dei pellerossa e cercherei di fare il culo a quei fottuti yankee americani. Bang! Bang!
    “Se vai in centro è meglio che ti prendi un repellente per i ‘mosquistos’ – mi suggerisce Ivan, quello che si era presentato qualche minuto dopo e che la ragazza del rastafariano mi aveva detto essere il “titolare” – Qui di notte ti divorano vivo!”.
    Cammina a piedi nudi fra l’erba del prato e il marciapiede della casa. Si è acceso una sigaretta di fronte a me. Ha la camicia sbottonata sul petto e sulla pancia, un occhio più chiuso dell’altro e un’espressione di uno che si è appena svegliato dopo una notte a base di alcol e droghe varie.
    Bentornato indietro nel tempo di almeno 60 anni.
    Okay, ne ho già abbastanza.
    Mi sarebbe piaciuto restare lì solo se avessi avuto vent’anni in meno e una sana dose di incoscienza ancora addosso.
    Maledetti visi pallidi, è solo rimandata. La vecchiaia incipiente, mi spinge a salutare e a cercare un alloggio diverso.
    Ritorno verso il molo della parte nord. Alcuni ragazzini sanno facendo il bagno nei primi metri di fiume festosi e divertiti come bambini per la prima volta che salgono sulla giostra di paese.
    Il taxi boat sta già venendo da questa parte, così non devo aspettare troppo a lungo, per salirci a bordo e farmi riportare di là per sempre. Pago i due Leu promessi e me ne vado alla ricerca di un tetto sopra la testa per la notte. Nel frattempo su Booking.com ho già visto che c’è una struttura in centro con qualche camera ancora libera. E’ un affittacamere posto in un alto caseggiato di legno, che sorge sulla terza strada. Arrivo lì senza prenotazione, ma combiniamo subito l’accordo. Famigliola gentile e molto premurosa. Mi becco un solaio molto caratteristico, pareti di legno, letto a due piazze, aria condizionata, TV, bagno in comune, perfino un balcone esterno dove poter fumare in santa pace. Penso a quei maledetti soldatini che ormai staranno conquistando l’accampamento indiano al del Delta Camping e ai poveri Ivan, Rasta e Biondina ormai arresi e prigionieri, mentre io qui in un attico quasi di lusso. In un universo parallelo io arriverei a cavallo, sconfiggerei i cattivi, libererei i buoni e la biondina, che innamorandosi di me, scapperebbe con me in groppa al mio fedele destriero.
    Applausi e titoli di coda.
    Non c’ tempo per escursioni in barca, le più belle della zona partivano stamattina o sono partite nel primo pomeriggio. Così mi reco pazientemente verso le spiagge di Sulina, che sorgono un po’ fuori dal centro abitato. C’è da oltrepassarlo tutto, percorrere una strada asfaltata ma che poi diventerà sterrata, costeggiare un caratteristico cimitero ortodosso (balzano immediatamente all’occhio perché non hanno recinzioni o mura di protezione e si vedono tutte le tombe stando dalla strada) e un ponticello di un canale scolmatore. Poi finalmente il mare, la spiaggia, il punto più a Est di tutta l’Unione Europea. Ebbene sì, controllate le mappe: Sulina è la punta più orientale non solo della Romania ma di tutta l’U.E.! La propaggine del Delta nel Mar Nero la rende una meta sperduta che si lancia verso l’Ucraina a nord e la Russia dall’altra parte di questo specchio d’acqua salata. Lidi attrezzati, spiagge libere, belle ragazze est europee in costume da bagno che passeggiano sul litorale. Cosa desiderare di più?
    Alla sera ceno in un locale sul lungo Danubio: antipasto misto terra/fiume e poi piattone di polenta con pesce cotto al forno. Provo ma non ci riesco, pur trattandomi bene non spendo oltre 13 euro nostrani. Fine della quarta giornata in un supermarket aperto fino a tarda ora per fare spesa di un po’ di viveri, fumando un paio di sigarette su un molo osservando una poderosa nave da crociera passare davanti a miei occhi e bevendo una birra media “Ursus” in un baraccio fumoso e ombroso del lungofiume che - non c’è neanche bisogno di dirlo - finisce dritto dritto nella mia lista di “worst european pub del cuore da Mosca a Lisbona”.
    Amo l’Est Europa alla follia.

    5 - Le temperature stanno iniziando lentamente ad abbassarsi anche qui in Est Europa. Non sembra, soprattutto di giorno, quando soltanto camminando con zaino in spalla mi becco di quelle sudate che mi verrebbe voglia di gettarmi vestito nelle acque del "Bel Danubio Blu" per cercare rinfresco e conforto. Ma da quando sono arrivato, obiettivamente non fa più quel caldone insopportabile che sembrava avermi seguito dal Nord Italia. Stanotte, per esempio, all’affittacamere Casa Oana di Sulina ho dormito con la finestra spalancata, ma a un certo punto mi sono dovuto coprire con le lenzuola, perché ha cominciato a fare davvero freschino. Sensazione bellissima per chi come me patisce molto il caldo. E all’opposto, ama il Freddo e le stagioni invernali.
    Sveglia alle ore otto e colazione est-europea: uova fritte con pancetta, formaggio e verdure assortite. Non sono abituato a mangiare così tanto a colazione, perciò varrà come un pranzo molto anticipato. Avevo in mente tante cose stamattina da fare a Sulina. La prima era una escursione in barca di tre ore, ma quella che interessava a me, quella aperta in Mar Nero, quasi tutte le barche la organizzano solo di sera precisamente verso il tramonto. L’altra opzione era di recarmi ancora alla “Plaja”, prendere un po’ di sole, scottarmi ancora un po' la pelle, fare un paio di bagni schivando le numerose malefiche meduse avvistate ieri e poi tornare verso il porto per l’ora che sarebbe salpata la Navrom. Alla fine ho optato per restare in città e mi sono accontento di spaparanzarmi su una panchina sul lungo Danubio a leggermi un bel romanzo noir di Joe Lansdale che mi sono portato da casa. Mi godo anche uno spettacolo abbastanza inedito: l’attracco di una gigantesca nave mercantile battente bandiera turca e con la scritta "Istanbul" in bella vista sulla poppa. Forse è la più grande e imponente di tutte le imbarcazioni che ho visto sfrecciare avanti e indietro in questi giorni.
    Verso mezzogiorno e mezzo mi avvio verso il molo, acquisto il biglietto per Crisan (26 lei = 5,1 euro) e attendo che il battello arrivi da Tulcea, faccia scendere i tanti passeggeri e poi permetta a tutti altri noi in partenza di salire a bordo. Oggi siamo di meno rispetto agli altri due viaggi e posso finalmente permettermi un posto a sedere in prima fila sulla poppa della motonave: il paesaggio, seppur visto da “retro”, sarà ottimo. Salpiamo in perfetto orario e abbandoniamo lentamente Sulina, che si allunga sul fiume per qualche chilometro, da ambo le sponde, prima di sparire completamente dietro una piccola ansa.
    In una quarantina di minuti siamo a Crisan. Sono l’unico passeggero che deve scendere. Nessuno deve salire. Il molo è deserto, nemmeno presenziato da qualche addetto portuale della compagnia navale. Deve fare tutto uno dei marinai a bordo. Attraccare, legare la cima, aprire il cancelletto del "gate", e aiutarmi a saltare indenne e a non precipitare giù nell’acqua del Danubio. Forse lo Sbarco in Normandia è stato meno traumatico. Sono sul molo sano e salvo, ringrazio il marinaio e vedo la nave ripartire in direzione di Tulcea.
    Lo scenario è più desolante di Maliuc, seppure Crisan avevo già notato che mostra più attrazioni. Ma in giro non c’è anima viva. Il villaggio si distende completamente lungo l’allea principale, pavimentata da sampietrini, sulla quale si affacciano casette colorate oppure baracche in legno. Quasi tutte le abitazioni dispongono, dall’altra parte della stradina, di un piccolo attracco fluviale. Passo di fronte a un piccolo cimitero ortodosso, che come al solito non ha pareti o mura di cinta, e si fa ammirare in tutto il suo macabro e seducente splendore. Cammino parecchio, circa due chilometri, sotto un sole dannatamente caldo e afoso, prima di trovare il camping Casa Mihaela. Questo è davvero come me lo aspettavo, come le foto di internet dicevano di essere, come le tende appaiono davvero quelle strutture economiche ma accoglienti e smart che sono. Per cui non scappo inorridito come ieri da quell’orrido lager di turisti gestito dai tre hippy che mi avevano avvinghiato a Sulina.
    Ho a disposizione, però, poco tempo perché chiedendo se è possibile fare un giro in barca in giornata, Bogdan - uno dei gestori del camping - mi dice di sì ma che si parte fra pochi minuti. Allora, sbroglio i miei bagagli nella tenda in fretta e mi preparo per salpare. Di fronte al camping c’è un piccolo attracco con una barca che accoglie me e altri sette membri, che sono tutti turisti del camp: una coppia giovane di ragazzi tedeschi e due coppie di romeni di mezza età. Partiamo, con Bogdan a poppa che manovra il mezzo alla guida di un volante e di un cambio automatico.
    Ci dirigiamo inizialmente verso ovest, ma poco dopo la biforcazione fra il Sulina Branch e il canale del Dunarea Veche, viriamo in direzione sud-est seguendo il Canalul Caraorman (in lingua turca, dato che la Romania è stata per secoli sotto la dominazione ottomana, “Kara” e “Orman” significano: “Nera Foresta”). E’ un lunghissimo canale immerso in una ricca vegetazione di canneti, piante acquatiche e rive boscose, dove pascolano allegramente buoi, vacche e cavalli: proseguiamo così fino all’omonimo villaggio. Ci accorgiamo del posto da alcune costruzioni abbandonate che si affacciano sul piccolo porticciolo, che forma una sorta di laghetto circolare. Bogdan ci spiega che erano fabbriche che trasformavano la sabbia (materiale molto diffuso in questa zona del Delta) in vetro. Fortemente volute da Ceaucescu, lavorarono poco e molte di esse non furono manco completate, perché la rivoluzione del 1989 si portò via tutti i progetti del regime comunista.
    Attracchiamo e ci dirigiamo a piedi verso il centro del paese, che si snoda attorno a tre-quattro strade sterrate e sabbiose. Sembra di essere in un paesino del Far West, con gli unici edifici pubblici del paese (la scuola che comprende tutte le classi, il municipio, un bar che fa anche da emporio, la chiesa ortodossa più ‘antica’ dell’intero Delta) che si affacciano sulla sterrata via principale. Per il resto casette recintate e fattorie come in un film girato nel Texas Orientale. Restiamo sotto i portici del bar/emporio ad aspettare Marc, un collega di Bogdan che a bordo di un PK arrangiatissimo - con un tendone sul cassone posteriore e due panchine poste lateralmente - ci deve scortare verso la prossima tappa.
    Eccoci pronti per il nostro “safari”, come l’ha chiamato Bogdan, che parla un fluentissimo inglese, e che spesso mi lascia spiazzato. Meno male che ho ancora qualche ricordo del mio rumeno autodidatta di una decina di anni fa, così un po' in “english” e un po' in “roman” riusciamo a capirci. Ci dirigiamo a velocità sostenuta verso sud. Marc guida come un matto e il PK nero sembra reggere i sobbalzi sulla strada sabbiosa, ma io che sono seduto proprio sull’ultimo posto laterale destro, temo sempre di più che da un momento all’altro possa essere sbalzato fuori dal veicolo. Più che un safari finora mi sembra la riproposizione di una Parigi-Dakar, e più che il Delta del Danubio quello davanti ai miei occhi adesso sembra più il Deserto del Sahara nei pressi di Merzouga. Anche allora Alì si divertì a scorrazzarmi a tutta velocità a bordo della sulla sua 4x4 sulle dune di sabbia per farmi provare l’emozione di un rally del deserto: ma in quell’occasione ero comodamente seduto dentro l’abitacolo, con la cintura di sicurezza allacciata e con una visuale da cinema in 3D alla quale mancavano soltanto una ciotola di popcorn e una lattina di birra ghiacciata. Oggi non è per nulla così, e allora non posso fare altro che aggrapparmi alla bene e meglio da qualche parte, mettermi il cuore in pace e pregare che tutto quanto finisca alla svelta.
    D’un tratto spunta un manto boscoso all’orizzonte: sembra davvero un’oasi in un quel deserto sabbioso che stavamo attraversando dal villaggio di Caraorman. Il perimetro è tutto recintato da aguzzi fili spinati, ma il cancello principale è completamente spalancato. Entriamo da quell’unico varco. La foresta di piante secolari è bella, sfoggia una fauna di bovini lasciati allo stato selvatico, cavalli, e uccelli (upupa, gufi e altre specie). Bogdan ci dice che sono presenti anche gli sciacalli e infatti ne vediamo un esemplare piccolo che fugge in mezzo alla boscaglia appena ci vede arrivare di gran carriera. Facciamo due soste, in due punti diversi, per ammirare meglio la natura che ci circonda. Effettivamente è una parte di mondo incontaminata, lontana fortunatamente dalle mani speculatrici dell'Uomo che non è mai stato poi così tenero di fronte alla conservazione della Natura. Ma qui, dall'Uomo siamo lontani. Il Delta del Danubio segna con i suoi mille canali e affluenti un reticolato di isole e penisole di difficile accesso. I pochi paesi e villaggi che ho incontrato durante questo viaggio (Sulina esclusa) vivono di poco: pesca, agricoltura e turismo di nicchia. Difficile, soprattutto per motivi logistici, pensare che in futuro autostrade, catrame e cemento possano arrivare in maniera massiva in questo paradiso perduto. Ed è meglio così.
    Fine del tour, Marc accelera ancora di più e in un battibecco siamo di nuovo a Caraorman e al porticciolo.
    Risaliamo il percorso di prima, ma visto che il sole non è ancora tramontato, Bogdan propone una piccola deviazione per uno stretto canale immerso nella boscaglia, che ci conduce al vasto Lacul Iacob. La superficie è invasa da piante acquatiche, il fondale è basso ed è impossibile proseguire, ma in lontananza - più o meno verso il centro del lago - vediamo uno stormo di pellicani che stanno dormendo, tutti ammassati uno sopra l’altro. Qualcuno di loro si sveglia e inizia a fissarci in maniera diffidente e sospettosa. Prendiamo un’altra deviazione, che ci farebbe tagliare per tornare verso Crisan, ma il fondale è ancora basso e Bogdan confessa che non se la sente di proseguire da quelle parti. In autunno o in primavera, quando c’è più acqua, è tutto completamente diverso.
    Torniamo sul Canalul Caraorman e ripercorriamo il percorso di prima a ritroso, che ci offre, però a questo giro, uno spettacolare tramonto su queste lande meravigliosamente sperdute del Delta del Danubio.
    Arriviamo a Crisan al crepuscolo e i locali di ambo le sponde stanno accendendo le luci e le musiche per attrarre clienti e offrire la solita serata su questo “water world” che è lontano anni luce dalle nostre concezioni di geografia e di mondo comune: qui non ci si sposta sulle normali strade, perché le strade non esistono. Qui ci si sposta sull’acqua, a bordo di navi e motoscafi, lungo l’asse del Danubio che ha mille diramazioni, che poi formano crocevie di canali, laghi, stagni, e tantissime avventure e posti da scoprire.

    6 - Il sole sorge presto in Est Europa, più presto di quanto si possa credere. Qui il fuso orario è, per mera convenzione, solo +1 rispetto all’Italia, ma in pratica sarebbe un +2. Il che fa sì che il sole sorge prima alla mattina e, ovviamente, cala dietro le piatte pianure rumene molto anzitempo. E’ la luce solare a svegliarmi nella tenda del Camping Casuta Mihaela dove ho passato la notte. Una tenda a due piazze, dotata di due comodi materassi, immersa in un’aia buia, fresca e piena di alberi, a due passi dal gigante Danubio, che per tutta la notte è scorso lento e silenzioso. Un po’ meno silenzioso è stato il dirimpettaio "Infinity Pool", un mega complesso che sorge sulla sponda opposta, che offre, oltre a stanze da letto e un ristorante, un disco-pub che fino a tarda ora ha sparato musica dal vivo in ogni angolo del Delta. Avere avuto una macchina a disposizione qui sarebbe servito come aprire un chiosco di gelati al Polo Nord, poiché per andare di là a bermi una birra e gustarmi dal vivo la sicuramente bella cantante rumena, anche se avessi avuto una Cadillac rossa fiammeggiante me la potevo infilare nelle profondità del fiume (per non dire di peggio) e poi lasciarla là sotto per le prossime ere geologiche. Non ci sono strade sul Delta, non ce ne sono manco per idea a Crisan, dove c'è solo un’allea larga quando una buona pista ciclopedonale, che costeggia tutto il lungofiume, pavimenta da sampietrini trapezoidali, sui quali corrono al massimo qualche bicicletta e pochi monopattini. Per il resto si cammina, schivando cani randagi, dall’aspetto sospetto ma innocuo, e più simpatici gatti facenti parte di una numerosa colonia di felini ben radicata.
    Niente da fare, insomma: non mi è restato che ascoltare la music live da questa parte di fiume, contemplando di come in questo “water world” sia indispensabile possedere un motoscafo per ogni spostamento. Di mezzi terrestri a quattro ruote ieri ho visto solo un trattore, con rimorchio, e una piccola ruspa, che di fronte a una delle tante casette di legno sul lungo fiume (a circa metà strada fra il porticciolo della Navrom Delta e il camping) stavano portando via alcune macerie ammucchiate in malo modo ai bordi dell’allea. Per il resto, ogni rombo di motore proviene dai tantissimi fuoribordo che sfrecciano in continuazione in mezzo all’oceanico fiume Danubio, più dai battelli di linea e dalle mastodontiche navi mercantili di ogni possibile e immaginabile nazionalità, che ogni tanto rapiscono l’attenzione di tutti quelli che volgono lo sguardo al Danubio in cerca di risposte.
    Dalle parti della Casuta Mihaela c’era solo una piccola baracca, eretta su una palafitta, adibita a pub vecchia maniera, che offriva qualche birra e la visuale sull’”Infinity Pool” di fronte. Troppo poco. Così me ne sono andato mestamente a dormire, comprendendo una volta per tutte che se possiedi una quattroruote non sei il re del mondo, soprattutto se vivi nel mondo acquatico del Delta del Danubio.
    Non sono manco le otto di mattina quando i cocenti raggi solari penetrano nella mia tenda, posizionata ovviamente verso oriente. Poco male, ho dormito quel che basta, e dopo una lauta colazione mi appresto a ripartire. Nel camping ho notato di essere soprannominato dagli addetti ai lavori e da alcuni altri ospiti come “italianul”, ovvero “l’italiano”, per il fatto molto probabilmente di essere l’unico della mia nazionalità. Ieri sera, a cena, all’interno di un gazebo in legno adornato da lunghe zanzariere per ripararci da quelle infernali bestiacce succhia-sangue (non lamentiamoci mai più in Val Padana delle zanzare, non abbiamo idea di cosa siano davvero le zanzare in altre parti del mondo come questa!), avevo condiviso il tavolo con due donne, madre e figlia, di nazionalità belga, che come me sono in vacanza lungo il Delta.
    “Parli inglese?”
    “Un poco”
    “Parli romeno?”
    “Un poco”
    “Di tutto un po’ – hanno constatato ridendo - Cosa parli bene?”
    “L’italiano” ho risposto con una bella faccia tosta.
    Comunque l’avventura a Caraorman di ieri ha unito per poche ore rumeni, tedeschi, UN italiano e quant’altro, per un ricordo che resterà vivo in ognuno di noi per tutta la vita. C'è una foto di gruppo che ci ritrae tutti insieme e l'ho postata sui miei social network a perenne memoria.
    Saluto Bogdan e ci scambiamo l’amicizia su FaceBook. Ieri avevamo parlato un po’ di storia, e che era stato in Italia per vedere Roma, ma che gli piacerebbe tornare per visitare Firenze.
    “What is… Ticino?” mi domanda leggendo sul mio profilo FB che faccio l’articolista per l’omonimo giornale.
    “An italian river” rispondo.
    Ha la sua bellezza, così come il fratello maggiore fiume Po, detto da noi "Il Grande Fiume", ma qui è tutt’altra cosa. Qui sul Danubio perdi il fiato e ci lasci il cuore. Mannaggia.
    Saluti e arrivederci a una mia prossima futura, chissà quando, avventura sul “Delta Dunarii”.
    Mi avvio di buon ora verso l’attracco. Mancano 4 ore alla partenza della mia nave, ma considerando i 2 chilometri abbondanti di strada, pardon di allea, e il caldo afoso e umido che ci sarà fra poco, con il pesante zaino che mi sto portando appresso lungo tutta questa “Strada per l’Est Europa” è meglio incamminarsi ora che fa ancora relativamente meno caldo. Come non detto. Sarà un bagno di sudore unico e avrò un po’ conforto solo una volta arrivato in loco, spaparanzato sulla panchina sotto le frasche delle piante davanti all’imbarcadero, mentre mi sgolo una bottiglia di tè freddo al limone comprato nell’unico mini-market lì di fronte.
    Il tempo passa grazie alla continuazione della lettura dell’ultimo romanzo di Joe Lansdale, “Freddo a Luglio”, un buon noir come molti dei suoi ambientati nel suo natio Texas, di cui mi leggo tutta la seconda parte. Ogni tanto, qualche fotografia qua e là, ma soprattutto per quelle gigantesche mercantili che ogni tanto passano e che sembrano davvero delle astronavi galleggianti.
    Verso mezzogiorno arriva una coppia di rumeni che ieri era in barca con il gruppo di Bogdan e con il quale ci siamo avventurati fino a Caraorman. Ci salutiamo e scambiamo due parole. Devono prendere il battello delle 12 diretto a Sulina. Io, invece, devo aspettare quello delle 14, che va in direzione opposta, ovvero Tulcea. C’è un nutrito gruppetto di persone che vanno verso Sulina. Sono tutti turisti, non solo romeni, ma anche anche di altri paesi europei. Quando salgono a bordo e la motonave se ne va, restiamo sulle panchine del piccolo spiazzo di fronte all’attracco solo io e un anziano oriundo del paese. Fa per chiedermi qualcosa, vorrebbe forse scambiare due chiacchiere, ma gli faccio capire che purtroppo sono straniero e non capisco quasi nulla. Spesso il mio look mi fa apparire un perfetto est-europeo. E' sempre stato così.
    Per la corsa delle 14 da Sulina a Tulcea al molo si presentano altre persone. Ci sono anche la giovane coppia di tedeschi, che alloggiavano sempre al mio Camp e che erano anch’essi ieri sulla barca di Bogdan. Ci salutiamo con un informale e ormai internazionale “Ciao”.
    Salpiamo alle 14:15, direzione ovest. A ritroso ripercorro tutti i paesaggi e le tappe viste in questi giorni. L’attracco del camp Mihaela, la biforcazione del Canalul Caraorman, l’imbrocco del Dunarea Veche che porta su al Lacul Fortuna, l’attracco di Maliuc, dove sale una famigliola tedesca che alloggiava al Nea Paul domenica sera. L’Est Europa è così: ti vedi, ti perdi, ti rivedi. Quando passiamo davanti al B&B de La Nea, noto che sulla sua barca ormeggiata al piccolo molo c’è Julien indaffarato a mettere posto qualcosa. Mi sbraccio per salutarlo, non so se mi vede.
    Tiriamo dritto senza più soste, neppure quella di Partizani, che dovrebbe essere da tabella oraria, ma che invece snobbiamo superbamente. Subito dopo c’è la confluenza con il Saint George Branch, il ramo inferiore del Danubio che da qui porta verso il villaggio di Mahmudia, i laghi della parte inferiore del Delta e la foce di Sfantu Gheorghe. Idee per prossime avventure fluviali.
    Una volta tornato tutt’uno il Danubio è gigantesco e sembra più che un fiume un piccolo lago stretto e allungato in direzione est-ovest. Dopo un’ansa ecco apparire le prime navi ormeggiate sulla riva destra, la collinetta dove troneggia un piccolo obelisco con la scritta TULCEA a caratteri giganteschi e i primi palazzi della città di oltre 90 mila abitanti e capoluogo amministrativo di tutta la regione.
    Sbarchiamo al molo numero 2 alle ore 16:30, perfettamente in orario. Mi avvio verso il mio nuovo alloggio, prenotato anzitempo via booking.com, l’Hotel Insula, che ha la curiosa caratteristica di sorgere completamente su un minuto isolotto all’interno del Lacul Ciuperca, un piccolo lago costiero, separato dal corso del Danubio da uno stretto istmo di terra, sul quale corre la ferrovia e sorge la stazione ferroviaria e quella delle autocorriere. Al centro del lago c’è una gigantesca fontana che spruzza in alto con una traiettoria di parecchi metri un gioioso gioco di acque.
    Verso ora di cena mi avvio sul lungofiume alla ricerca di Ivan Pescar, un risto-bar a base di pesce, le cui recensioni di Trip Advisor sembrano ottime. Mi siedo a un tavolo sulla veranda esterna, direttamente con vista sul gigantesco Danubio, e ordino del “Borsc Pescaresc” (una zuppa di pesce con verdure e peperoncino piccante) e “Somn la gratar cu legume” (filetto di pesce-gatto grigliato con verdure lesse accompagnate). Il tutto innaffiato da una buona birra. Pago 61 lei, ovvero qualcosa come 12 euro. Mentre sto cenando sulla passeggiata del lungofiume passano madre e figlia belghe che erano le mie vicine di tende al Camp Mihaela e con le quali ho cenato ieri sera. Ci salutiamo come vecchi amici di una vita e ci auguriamo una buona serata. Come detto prima, in Est Europa non esistono addii per sempre, e per quanto grande e sconfinato possa essere questo sub-continente, prima o poi ti ritrovi, anche solo di passaggio, anche solo mentre stai bevendo una birra sul lungofiume di Tulcea fissando la notte che arriva.
    In un supermarket su Strada Isaccei, il viale principale della città, parallelo al lungofiume, compro un pacchetto di sigarette e una bottiglietta di vodka Sankt Petersburg (nell’Europa Orientale è facile trovare super- e mini-market che vendono anche tabacchi). Dopo aver assaporato un po’ di nicotina nei polmoni e un po’ di vodka russa nello stomaco mi faccio un ultimo giro di birra, tassativamente nera, al Cheers Pub, un locale forse un po’ troppo occidentale nello stile e nell’aspetto, ma forse il posto giusto per salutare la mia avventura sul Delta del Danubio. L’aria fresca, stasera più che mai, che arriva da oriente e dal continente russo, sembra quasi accompagnare i titoli di coda su questa mini-avventura in questo mondo strano e surreale in cui sono capitato.
    Cala il buio, il tutto viene avvolto dalle tenebre e l’altra sponda sparisce, se non per qualche luce che appare lontana. Sembra tutto compattarsi in un unico punto. Il Danubio ora è un mare che inizia qui a pochi metri da me e finisce chissà dove. Poco a nord di Tulcea c’è il confine con l’Ucraina, che una volta era Unione Sovietica. Non molto più in là c’è la Moldavia, mentre per la vecchia Russia bisogna camminare ancora un bel po’ con il pensiero, ma è tutto qua, tremendamente dietro l’angolo, come il freddo gelo dell’Est che prima o poi su queste lande tornerà a soffiare spietato. L’estate che finisce, il mio viaggio ormai prossimo a concludersi e la testa che si affolla di ricordi. Ricordi di altri viaggi, di altre esperienze, quelle del decennio scorso. La prima volta che arrivai a Mosca di notte e vidi la Piazza Rossa sotto una nevicata notturna. San Pietroburgo a gennaio a 16 gradi sotto zero (meno 30 di notte) e con il fiume Neva completamente ghiacciato. La città di Kiev durante la guerra civile, con un cadavere in mezzo alla strada, le barricate sulla piazza e i paramilitari che presidiavano qualsiasi cosa. Il lungo viaggio a bordo di un treno notturno da Sochi a Volgogrado (22 ore), dove conobbi Ruslan con il quale passai un’intera sera a parlare del più e del meno e la mattina dopo mi salutò con un arrivederci, e non un addio, perché “tanto prima o poi ci ricontreremo su qualche treno in Est Europa che va da qualche parte”.
    Penso a tutto questo e altro ancora, mentre fumo l’ultima sigaretta, stavolta sul lungo Danubio, osservando un mondo che adesso si è fatto davvero piccolo come un granellino di sabbia. Domani torno a Bucarest, ma so già che il Delta, con la sua natura incontaminata, le sue “strade” d’acqua, le persone che ho incontrato e conosciuto, le sue avventure e le scoperte di un mondo puro e genuino mi mancherà da morire.

    7 - La Romania è un mazzo di fiori. L’avete mai notato? Osservatela dall’alto su una comune mappa geografica. Il gambo, avvolto nella comune carta da regalo, è quello stretto pezzettino di terra che va dal Delta del Danubio fino al confine di Mangalia; il resto si apre – proprio come un mazzo – verso le pianure del Sud e le catene montuose dei Carpazi a Nord, nella Transilvania. Un mazzo di rose, pucciato nel Mar Nero a oriente e con i fiori e i petali che sbocciano verso occidente, in direzione di Oradea, Timisoara e Craiova.
    La prima volta che ci venni fu nel 2013, quando con Anthony e Nikki partimmo a bordo di una Citroen Picasso da Pavia con l’intento di raggiungere le coste del Mar Nero a Varna, in Bulgaria. Da lì, una volta conquistata la nostra utopia, risalimmo verso nord e una volta sconfinati nell’antica “Dacia”, la attraversammo – con un po’ di tappe – da sud-est a ovest, da Efoire Nord a Timisoara. Fu un'esperienza davvero unica e irripetibile, derubricata in giorni e soste che ho già raccontato a suo tempo in altre sedi; ma il viaggio in sé fu fondamentale per me, nonostante non fu il primo a "Oriente", ma perché cambiò in me certi radicati luoghi comuni che un po’ tutti noi abbiamo o abbiamo avuto sull’Est, ma soprattutto su questo piccolo mazzo di fiori chiamato "Romania".
    Stamattina al mio risveglio il cielo di Tulcea è improvvisamente grigio. E’ piovuto e tanto, ma io non ho sentito nulla. Mi sono svegliato tardi e mi sono accorto solo poco fa di questo classico cielo est-europeo sopra la mia testa. Ho giusto il tempo di raccattare le mie cose, preparare lo zaino, lasciare il mio hotel che sorge sull’isoletta del Lacul Ciuperca e avviarmi a mettere qualcosa sotto i denti prima di prendere il treno per Bucarest. Mi fermo al "Liman", il primo posto che trovo aperto, subito dietro l’autostazione, e mi accomodo sotto la sua veranda che domina la gigantesca ansa a "U" che il Danubio compie in questa città. Niente traghetti o battelli per avventure in solitaria lungo il Delta oggi, ma solo un pranzo veloce, l’ultimo a base di "borsc" di pescato, più un'insalata di pollo con lattuga, verdure, fette di arancia e chicchi di melograno.
    Mi avvio verso la stazione dei treni, un terminal con solo due marciapiedi, che riceve un'unica linea ferroviaria a binario unico non elettrificata che proviene dal Sud. Il treno, come quello di andata della scorsa settimana, è composto solo da due vagoni, una livrea moderna, ma con il motore ovviamente alimentato a diesel. Ha le porte che si aprono automaticamente, schiacciando un bottone verde; gli scompartimenti sono aperti e con tanti posti a sedere a gruppetti da quattro. Io mi accomodo, però, a metà carrozza, dove ci sono i sedili messi per il lungo, uno di fila all'altro. Il regionale (unica corsa giornaliera per la capitale, ma che si effettua solo nel periodo estivo!) è abbastanza pieno, parte alle 12:55 in punto e fino a Medgidia cammina pian piano, quasi stancamente. Lungo la linea non ci sono passaggi a livelli, ma solo incroci senza barriere, perciò dobbiamo pazientemente rallentare e il macchinista deve fischiare per avvertire del passaggio del convoglio.
    Una volta allontanatici da Badag, ultima cittadina del Delta, inizia una zona completamente brulla e desertica. Le colline della Transilvania meridionale sono lontane e distanti, appaiono all’orizzonte come cime che delimitano quella zona verso occidente, ma noi corriamo, lentamente, verso il meridione, a una velocità che difficilmente supera i 50 km/orari. Per percorrere i poco più di 100 chilometri verso Costanza ci mettiamo qualcosa come tre ore. Stazioncine di campagna, spesso in mezzo al nulla, presenziate però tutte da capostazioni, frequentemente donne, che ci attendono sull’unica banchina disponibile e che ci fanno cenno di avanzare solo dopo aver alzato la bandiera gialla. Ogni tanto stazioniamo qualche minuto in mezzo a avamposti di paesaggi marziani, senza alcun punto di riferimento all’orizzonte, se non un’ondulata pianura che sembra protrarsi all’infinito.
    A Baia Dobrogea, fermata un po' più lunga, qualcuno scende per fumarsi una sigaretta, una donna chiede alla capostazione se può riempire la bottiglia vuota con dell’acqua. La ferroviera prende il recipiente, si allontana e poco dopo torna con la bottiglia colma. Scene di una ferrovia di altri tempi.
    Arriviamo a Megdigia, me ne accorgo perché il nostro binario che si è arrampicato su colline, ha tagliato pianure ed è passato in mezzo a paesini sperduti nel nulla, finalmente accosta una linea a binario doppio ed elettrificata: è la veloce Bucarest-Costanza. Qui scendono tante persone, molti sono turisti, si vedono dai tanti trolley che si portano appresso, e c’è da scommettere che sono diretti a Costanza, vicina e famosa località balnerare.
    Stiamo fermi un bel po’, quasi quaranta minuti, per permettere al treno di fare regressione e di cambiare il personale di bordo. Si riparte sulla linea veloce per la capitale. Poche fermate e velocità sostenuta d'ora in poi. Tagliamo una piatta pianura fatta di campi di girasoli, granturco e frumento trebbiato da poco. Lo scenario è altrettanto desolante quanto affascinante. In certi punti siamo come immersi in un deserto dai colori verdi e gialli di cui non si vede la fine. Le pianure dell’Est sono così: potresti quasi scommettere che la Terra è piatta, che non esiste una curvatura planetaria, e che il mondo andrebbe avanti all’infinito in ogni direzione.
    Piccoli paesini, muniti di stazioncine spoglie e povere, lontani fra loro chilometri e chilometri di campagna. All’orizzonte profili e skylilne di altre cittadine, mete irraggiungibili dalla nostra rotta, ma solo con strade rettilinee che tagliano in grandi reticolati questo mondo bucolico. Code interminabili ai passaggi a livelli, ora presenti e automatizzati, in mezzo a latifondi di pannocchie di mais e sbiadite piante di girasole.
    Verso Fetesti riappare l’enorme palla solare fra le nuvole, ma l’asfalto bagnato e i campi pieni di fango fanno intuire che la pioggia è arrivata fin qui. Deserto giallo-verde e chilometri su chilometri, gente che scende e che sale, poi finalmente come la classica cattedrale in mezzo al nulla appare all’orizzonte la metropoli di Bucuresti. E’ davvero un pugno in un occhio, con i suoi giganteschi palazzi, tutti raggruppati uno sopra l’altro, che si staglia sullo scenario di una piatta pianura che fin lì sembrava eterna. Ci mettiamo un po’ a raggirare tutta quanta la capitale, perché con i suoi 12 km di diametro ci vuole tanto tempo come dall’ultima fermata prima di arrivare a Gara de Nord, la stazione centrale e terminale della corsa. Tredici binari, pensiline, treni in partenza per ogni dove della Romania e anche intercity notturni per l’Ungheria. Un formicaio di gente che parte e che arriva.
    Linea Metropolitana. Prendo la "gialla", quella circolare, che ruota attorno alla città facendo una tangente al centro, ma compiendo un percorso dalla forma ovale. Una sola fermata, poi il cambio, con quella “blu”, diretta a Plata Universitate, il crocevia più importante che immette gentilmente verso il cuore vecchio del centro storico. Il gigantesco spiazzone rotondo deve il nome all’ottocentesco ateneo, che si trova all’angolo nord-ovest. Sorgono qui anche la statua di Ion H. Radelescu (geografo-scrittore locale), il monumeto a Michele il Bravo (voivoda di Valacchia del ‘500), il Teatro Nazionale e le lapidi dedicate ai caduti degli scontri durante la guerra civile del 1989 contro il regime di Ceaucescu. Non mi fermo di certo a contemplarle e tiro dritto verso il mio hotel.
    Una volta deposti armi e bagagli mi avvio verso il centro pulsante di Bucarest, ovvero il quartiere “Lipscani”, che prende il nome dall’omonimo percorso pedonale e dall’intrico di stradine che da qui si dipanano e che offrono – soprattutto nelle sere d’estate – una straordinaria night-life che fa di Bucarest una capitale europea da visitare assolutamente. Una costellazione di ristoranti, pub, disco-pub, discoteche e quant’altro fino a notte fonda animano la movida della capitale e lasciano chi ci capita per caso la prima volta a bocca aperta. Variando la dieta del Delta a base di pesce, in un ristorante del centro ordino un menù a base di carne: "mici" (ovvero involtini di carne bovina/suina/ovina) con patate e senape, più un secondo piatto a base di carne di agnello alla griglia e il tutto innaffiato da un calice di vino rosso della casa. In totale pago 76 lei, ovvero 15 euro. Poi mi tuffo nella movida del cuore cittadino. Come detto, locali uno attacco all’altro che offrono divertimento puro fino a notte fonda per tutti i gusti. Le strade sono affollate, i locali sono pieni, tavoli e sedie invadono le stradine del quartiere più nottambulo della capitale. Nonostante sia solo un giovedì sera, è difficile prevedere a che ora la città andrà a dormire.

    8 - Ultime 24 ore in Romania. Ultime 24 ore in Est Europa. Mi accorgo a questo giro che la prima volta che venni in Romania forse vidi un po’ poco della capitale rumena; ma quello – come già spiegato precedentemente - fu un viaggio di scoperta, di esplorazione, un viaggio fatto più che altro per dimostrare che partendo da Pavia e imboccando una delle tante strade che portano verso l’Est, si poteva arrivare al Mar Nero. Ce la facemmo e questo bastò e avanzò. Tutto il resto fu in più. Come la sosta in un paesino di nome Pucioasa in Dambovita, per assaporare l’ottima cucina casereccia del locale “Rustic” – un ottimo pranzo a base di altrettanto ottimo “pui cu ciuperci” (pollo con funghi). Come le strade della Romania, che si arrampicavano verso i Carpazi Meridionali fra carrettini trainati dai cavalli e villaggi completamente abitati da zingari. Come la vigilia di Halloween, trascorsa in un pub di Sibiu, in Transilvania, nella notte più lunga dell’anno per quei borghi medievali nelle leggendarie terre del conte vampiro Dracula – un mito tra l’altro tutto occidentale, perché qui l’originale e realmente esistito Vlad Tepes, ovvero Vlad III di Valacchia, è ricordato come un vero eroe popolare per aver difeso la Romania dai terribili ottomani.
    Mi sveglio di buon’ora per approfittare del check out tardivo del Hotel Carpati, dove ho passato la notte: un due stelle vecchio stile, di architettivismo tipicamente del periodo socialista reale, che sorge a due passi da Plata Universitate.
    Attraversando la lunghissima e dritta Bulevardul Regina Elisabatta (la direttrice ovest-est che taglia orizzontalmente il cuore di Bucarest) si arriva nel centro pulsante della capitale. Il quartiere Lipscani, come già detto, di sera è un vero e proprio quartiere che offre una night-life difficile da cogliere sul serio se non la si guarda con i propri occhi. Alla fine di questa caratteristica via, che di oggi offre invece locali per la colazione, botteghe di souvenir e negozi di vario genere, sorge la piccola Plata Roma (da non confondere con “Plata Romana”, che è da tutt’altra parte), dove si erige una statua che raffigura la Lupa Romana che allatta i neonati Romolo e Remo. Sono tante le città dell’ex “Dacia” che omaggiano ancora oggi il loro profondo legame storico con l’impero Romano. La stessa lingua rumena ne è un chiaro esempio. Avendolo studiacchiato un po’ e sapendo ancora dire un paio di parole, soprattutto per ordinare questo e quell'altro a un bancone di un bar o di un ristorante, ho notato subito che fra le lingue romanze è quella che è rimasta più vicina al "latinorum". Come la lingua madre possiede tre generi (oltre al maschile e al femminile anche il Neutro), accoglie declinazioni e si struttura con l’articolo determinativo in forma enclitica (cioè posto alla fine del nome: “partitul”, “steaua”, “painea”). Ha sicuramente subito nel corso dei secoli influenze linguistiche slave e turche, ma a oggi è la primogenita dell’antica lingua latina che si parlava al tempo dei Romani.
    Risalendo Bulevardul Bratianu, che delimita il confine est del centro storico, si arriva alla graziosa basilica di Sfintu Gheorghe Nou. La piccola chiesetta ortodossa del ‘700 è ricca di arte, pitture murali, bassorilievi e tombe di celebri voivodi. Leggermente decentrata verso ovest rispetto a Plata Universitatii, invece, prende il via la lunghissima Calei Victoriei, strada ricca di monumenti e di palazzi. In pochi minuti si arriva a Plata Revolutiei, che come suggerisce il nome indica il luogo dei maggiori scontri che avvennero nel 1989 contro il regime comunista di Ceaucescu. Qui, infatti, sorgeva la sede del Partito Comunista Centrale (è l’enorme palazzo a forma di U sulla destra, oggi sede del Ministero degli Interni) e accanto la palazzina della Securitate (il Comitato di Sicurezza Nazionale, il KGB romeno). Oltre a monumenti che ricordano i caduti di quella guerra civile, in Plata Revolutiei si possono ammirare il Museo Nazionale di Arte Romena, il Palazzo Reale, il Palazzo della Galleria d’Arte e la Basilica di Kretzulescu.
    Torno indietro attraverso il lungo e largo Bulevardul Nicolae Balcescu che – oltre a essere la direttrice nord-sud – fiancheggia alberghi di lusso, ristoranti importanti e l’edificio del Teatro Nazionale. Qui in uno degli appartamenti in alto di questi altri palazzi alloggiai quelle notti di novembre del 2013. A circa metà viale si trova la Beserica Italiana. Incastrata fra alti parallelepipedi di cemento, è uno dei pochi esempi di chiese cattoliche (in stile neorinascimenale lombardo) presenti nella capitale.
    Dopo una lauta colazione in un fast-food nei pressi di Plata Universitatii (che riconosco dal precedente viaggio di otto anni fa), mi dirigo all’albergo, raccatto le mie cose, lascio la struttura e zaino in spalla inizio a incamminarmi verso nord (dove sorge l'aeroporto di Otopeni). Visto che ho qualche ora libera, con la metropolitana mi sposto a Aviatorilor, fermata piuttosto a nord, che però offre due cose molto interessanti da vedere: il Parco Herastrau (che con il suo “lacul” è una grande oasi verde) e l’Arco di Trionfo - eretto negli anni Venti del secolo scorso per celebrare la vittoria della Romania nella Prima Guerra Mondiale, quando unificando tutti i suoi territori conquistò il soprannome di “Grande Romania”. Alcuni territori, poi, furono perduti nella Seconda Guerra a favore dell’URSS: la Moldavia, oggi nazione indipendente, e la Bessarabia, oggi sotto l’Ucraina. Soprattutto la Bessarabia è rivendicata da alcuni anni dai movimenti nazionalisti rumeni.
    Ci sarebbero altre cose da vedere a Bucarest (come il Museo dei Sensi, la Plata Romana e la Cattedrale di Sfantul Iosif, solo per fare alcuni esempi...). Ma per questo giro finisce qua. Così, almeno, avrò una scusa per tornarci in futuro.
    Passo il pomeriggio sul lungo lago Herastrau a godermi un po’ di pace, alcune ore fra letture di un libro e sorsi di birra Ursus, in vendita – insieme ad altre bevande – nei tanti chioschi disseminati qua e là. Ottimo modo per terminare un viaggio lungo, intenso e ricco di emozioni narrate, che come sempre solo il mio "Est" è riuscito a regalarmi.
    Alla prossima.
    Te iubesc Europa din Est!
  10. .
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    CAPITOLO 1.
    "Prismata", "canale", ecoscandaglio, bass boat, il "piede", il "prato"... Il mondo fluviale è tanto complesso quanto bello, e lo penso onestamente già quando io e Nico siamo ancora nell'officina di Sergio Barca di Tornello a fare gli ultimi ritocchi alla piccola Glastron acquistata in comproprietà con due amici - anche se oggi per il suo battesimo d'acqua ne manca uno. Vengo sommerso da una serie di termini tecnici che faccio fatica a comprendere. Nico è un esperto di fiume, c'è praticamente nato su una barca e in questo micro mondo che si sta lentamente aprendo ai miei occhi sembra sguazzarci dentro come un pesce di fiume. Prepariamo la miscela di benzina e olio nautico dentro a un serbatoio attaccato direttamente al 25 cavalli che abbiamo montato a poppa. Il mondo delle barche richiede una gigantesca conoscenza meccanica di tutto ciò che c'è dietro. Io sono conscio di partire da zero e sarà una lunga strada prima di riuscire ad avere padronanza di tutto ciò che mi circonda.
    Sergio a bordo della sua berlina traina, montata su un carrello, la bass-boat al di là del ponte sul fiume, dove c'è il circolo nautico degli Amici del Po. Io e Nico gli andiamo dietro, attraversando il ponte della Becca con stati d'animi diversi: per lui è un ritorno dopo qualche tempo di pausa alla sua più grande passione di sempre, per me è il primo giorno in assoluto di barche, motori e navigazione fluviale. Una passione per il fiume sbocciata da poco, ma covata dentro di me da parecchio tempo, addirittura fin da bambino. Negli ultimi anni sul Po ho scritto di tutto, articoli di giornali, ambientazioni di romanzi, ho girato cortometraggi e un paio di documentari amatoriali. C'era abbastanza carne sul fuoco per fare il grande salto e finalmente eccomi qua.
    Alla Becca gli addetti del Centro Nautico avvinghiano la barca con funi e poi un argano semovente la solleva la deposita poco più sotto di noi, dove scorre l'acqua del Ticino. Scendiamo al molo e saliamo a bordo. Accendere il motore del 25 cavalli può sembrare semplice come mettere in azione un comune tosaerba da giardino, ma non è così, o almeno non lo è per me. Ci provo qualche volta, ma il tirante è duro come l'acciaio e riesco anche a farmi male alla mano. Bisogna assicurarsi che la leva del cambio sia in folle e l'acceleratore al minimo. Riuscirò a metterlo in moto quasi al primo colpo solo in mezzo al fiume, dopo altri tentativi e l'invidia provata per Nico, perché lui è riuscito a farlo partire al primo schiocco di dita, come un mago che ha estratto il classico coniglio dal cilindro del cappello.
    All'inizio l'amico si mette al volante e io assisto alla prima uscita in mezzo al Po della mia vita dopo i tanti viaggi lungo i suoi argini e le tante ore passate su qualche sponda a contemplare la sua bellezza. La piccola barca di colore verde-nero parte a razzo e sembra volare sulla piatta e calma superficie del fiume. Andare in mezzo al Po con lui è come farsi un giro nello spazio a bordo di un'astronave assieme a Juri Gagarin che guida a occhi chiusi fra le stelle. La sua esperienza gli fa intuire i punti da evitare, perché l'acqua è bassa, e quelli invece dove poter navigare tranquillamente. Ma ci affidiamo, comunque, all'ecoscandaglio, un aggeggino elettronico montato accanto al volante, che ci indica quanto è profondo il fondale sotto di noi. Nonostante il periodo di secca, si naviga sui 3-4 metri di profondità, ma toccheremo punte anche di 7 e 8.
    Ci fermiamo per la prima sosta, avvicinandoci a una piccola spiaggetta che emerge dalle acque in mezzo al Po - che l'amico aveva già visto da lontano. Con cautela e prudenza riusciamo nell'intento di arrembare il piccolo isolotto senza danneggiare l'elica o lo scafo.
    «Qui si può fare il bagno!» mi dice Nico.
    Non perdo tempo e in un attimo sono giù in acqua, che ha un colore chiaro, pulito e che sicuramente non ha nulla da invidiare a più blasonate località balneari estive. Il livello del fiume mi arriva al bacino, il posto è tranquillo. Bagno rinfrescante dalla testa ai piedi, credo il primo in assoluto della mia vita in mezzo al "Grande Fiume". Si riparte in direzione del ponte di Spessa, questa volta con me alla guida. Leva dell'acceleratore, leva del cambio, volante. E' quasi come andare sull'autopista, ma siamo in un universo azzurro, con le sponde molte distanti fra loro e sotto un sole che picchia senza pietà. Proseguo dritto, ma la profondità diminuisce gradualmente, fino ad arrivare a circa 2 metri. Nico, allora, mi fa segno di spostarmi a sinistra, lungo la costa alta e a strapiombo (lui dice che si chiama "prismata" per via della presenza di grossi caratteristici sassi), dove il fiume è più profondo, anche se decentrato rispetto alla sua metà.
    «Evita le zone con spiagge e ghiaioni e tieniti sempre lungo le coste alte, perché l'acqua lì è più profonda» mi hanno detto.
    Non è così semplice, però: altre insidie preoccupano i barcaioli meno esperti del Po. Nico mi dice che bisogna guardare il colore dell'acqua e dove è più "liscia" oppure "increspata". Lui sa subito dove navigare, io mi devo affidare all'ecoscandaglio come un viandante del deserto che segue la stella polare come sua unica via di salvezza.
    Gli scenari sono bellissimi e mi lasciano a bocca aperta: la natura selvaggia e nuda che circonda le sponde del Po catapulta immediatamente in un mondo lontanissimo dalla nostra usuale routine. Non sembra più di essere in provincia di Pavia, di vivere a Castelletto Po, in quella Lombardia calda, umida, afosa e zeppa di solite meccaniche ripetizioni esistenziali. E il Po non è più quel fiume che attraversiamo di mattina con assoluta indifferenza o nonchalance per recarci a lavoro: ora è la strada che ci guida dritti in questo ultimo paradiso perduto e dimenticato dagli uomini.
    Anse, curve, grossi rami che galleggiano, rocce che scendono dalle coste, relitti di barche abbandonate, finché finalmente appare il ponte di Spessa. Decidiamo di accostare all' "Avamposto", un caratteristico ristorante che sorge sulla sponda destra: l'intero del locale sorge su una vecchia chiatta e si può ammirare il fiume dagli oblò dell'interno, ma noi preferiamo accomodarci al dehors esterno, sempre posto sulla riva e con una vista davvero meravigliosa. C'ero già stato altre volte, ma questa è la prima che ci arrivo via fiume. L'attracco di Marco è pieno, così decidiamo di attraccare a quello successivo, che pare un po' abbandonato. In realtà, serve una house-boat posta più in alto sulla sponda, nei pressi della storica motonave Beatrice.
    Raggiungiamo il locale a piedi, ci accomodiamo e ordiniamo due piatti di sardine fritte con insalata e mezzo litro di vino bianco della casa. Nico attacca bottone con un trio di ragazzi seduti al tavolo accanto a noi: sono barcaioli e appassionati di fiume. Si parla di Po, di pesci siluro, di racconti di pescati leggendari e di me al primo giorno di fiume (e si leva un brindisi spontaneo di "auguri" e "cento anni di barca" cit.).
    Dopo un giro di digestiva grappa, ci rimettiamo in cammino e torniamo all'house-boat, ma ora nel piccolo giardino accanto ci sono seduti un gruppetto di signori anziani attorno a un tavolo: bevono vino e discorrono del più e del meno. Per tornare alla barca dobbiamo passare in mezzo a loro e poi scendere fino al pontile: allora, capisco che abbiamo attraccato in una proprietà privata. Ci scusiamo per quello, sperando di non aver dato fastidio, ma all'opposto l'allegra compagnia ci invita a sederci con loro a bere e fare due chiacchiere. L'alcool e la baldoria vanno a mille, così come i discorsi su quando si faceva tutti il bagno in Ticino e in Po, prima di preferire le località marittime e le piscine, e abbandonare questo patrimonio naturale. La delusione per queste cose già constatate purtroppo in passato lascia il posto a un gran senso di pace e di benessere che ci circonda. La vista sul Po si apre in tutto il suo splendore, fino alla spiaggia dirimpettaia di Spessa, al ponte ferrato della provinciale per Pavia e alla natura più incontaminata.
    Salutiamo i simpatici vecchietti che ci hanno offerto più giri di vino rosso e riscendiamo alla barca. Nico è preoccupato perché teme che il serbatoio potrebbe lasciarci a piedi in mezzo al fiume.
    Come si fa a capire quando sta finendo la benzina visto che non c'è alcun segnalatore? - gli avevo chiesto stamattina.
    Cosa si fa se si resta stanza carburante in mezzo al Po? - altra domanda che non aveva ricevuto alcuna risposta...
    Avevo intuito che è meglio non restarci mai.
    In "salita", cioè controcorrente, il motore consuma e "beve" di più, ma nonostante i nostri timori alla fine riusciamo a tornare alla Becca e a proseguire verso l'imbarcadero Idrometro, che si trova sul fiume Ticino poco prima della sua confluenza in Po. La casa nella nostra "Mercury" (già così battezzata da un adesivo che compare sul lato sinistro) sarà questa, nonché base di partenza per le prossime avventure e perlustrazioni fluviali. Io dovrò imparare pazientemente a saper governare l'imbarcazione, a essere autonomo e indipendente anche in caso di necessità. Ci vorrà tempo e pazienza. Aver investito nell'acquisto di una barca significa intraprendere un nuovo e forse meno convenzionale - ma sicuramente più avventuroso - modo di viaggiare. E visto che nel recente passato molti miei viaggi on the road hanno sempre riguardato strade lungo il fiume verso la foce in mare, non nego che il sogno sarebbe quello di partire da Pavia e arrivare in Adriatico via fiume.
    "Il viaggio della vita", come disse una volta un mio amico a cui gliene accennai....
    Ma, come si suol dire in simili frangenti, questa è un'altra storia..............

    CAPITOLO 2.
    Sabato di inizio agosto come da copione. Giornata calda, umida, forse la più terribile di questa estate, che da l’impressione che non allenterà mai la sua morsa. L’ideale sarebbe starsene chiusi in una cantina o in una ghiacciaia, ma io e Nico non molliamo la presa. D’altronde viviamo nella Louisiana Pavese, siamo lupi di fiume (io un neofita, lui un maestro) e stare lontano dal "Mississipi Padano" dopo la prima escursione di qualche giorno fa è come dire a un bambino di scendere dalla giostra appena dopo che ha vinto un altro giro.
    Ritrovo ore nove di mattina alla stazione di servizio lungo la SS Bronese, per fare rifornimento di benzina per il serbatoio, fare colazione, fumare un paio di sigarette e cercare di capire se dietro il bancone è più bella la barista biondina italiana o la cinesina dai capelli neri. Si riparte su due auto per l’imbarcadero Idrometro, al di là del Ponte della Becca, e del semaforo con senso unico alternato che cra lunghissime code, che ci fanno solo salire a mille la voglia di essere già sulla nostra Glastron per salpare a tutta birra senza ritorno.
    Arriviamo al molo, pochi minuti per caricare a bordo il tutto e finalmente si mollano gli ormeggi della nostra bass-boat di color verde-nero. Scendiamo il Ticino come da copione, superiamo il circolo nautico della Becca e dopo poco ci buttiamo in fiume Po. Anche se Nico mi dice che il Ticino e il Po in realtà scorrono paralleli e divisi ancora per parecchie miglia prima di diventare davvero tutt’uno. Si vede infatti una nitida linea di demarcazione: il Ticino, sulla sponda sinistra, ha un colorito più chiaro, azzurrognolo, dalla temperatura fresca e con una maggiore quantità di “verde” galleggiante (erba, alghe, ecc.), mentre il "Grande Fiume" si distingue bene al di qua con la sua solita tonalità più scura, la temperatura più calda e i "sabbioni" che affiorano all’improvviso dal nulla. L’incubo dei barcaioli. Ma non per un esperto di fiume come Nico. A un certo punto l'amico vede l’isolotto stagliarsi a filo del livello dell’acqua da quando ancora non passiamo davanti alla famosa spiaggia dei naturisti. In bella vista ogni graziosità anatomica femminile. Qualche ombrellone, poca gente, molti hanno rinunciato a un weekend sul fiume per via del caldo, già fastidioso e siamo ancora in tarda mattinata. Decidiamo di attraccare lì.
    La prua dell’imbarcazione si appoggia dolcemente sul piccolo sabbione come un biscotto che si tuffa in un vasetto di marmellata. Il fondale è basso, visibile a vista d’occhio, ma quando scendiamo le gambe sprofondano fino alle ginocchia nella sabbia scura, viscida e melmosa. Si cammina così, in pochi centimetri d’acqua, ma è una mezza impresa fissare l’ancora, raddrizzare la barca e concederci pochi minuti di relax. Meglio galleggiare, ma tenendosi aggrappati in qualche modo alla nostra Glastron, perché la corrente è forte anche in questa tazzina d’acqua. Poco più avanti c’è uno scalino, il fondale va giù a picco e il Po tira come un buco nero che nello spazio risucchia tutto ciò che lo circonda, fra mulinelli e vortici. Il pensiero va a tutte le storie di persone morte annegate in questi fiumi, anche di recente. Anche la settimana scorsa. Resto aggrappato alla scaletta vicino al motore, trattenendomi più saldamente dell’ancora incagliata sul sabbione.
    Si riparte e guido un po’ io. C’è la prima ansa che curva verso destra, ma devo stare incollato sulla metà sinistra (quella “ticinese”) per due motivi: l’ecoscandaglio che mi segnala che sotto c'è il "canale" - la profondità giusta (e mi impedisce di andare a spaccare l’elica dove il Po fa il cosiddetto “prato”) - e l’isolotto sulla destra che Nico continua a dirmi di stare al largo. Navigo a destra, verso la costa "prismata". Abbandonati gli ultimi spiaggioni di Tornello inizia la parte più bella dell’avventura di oggi. Lasciamo alle spalle i bagnanti, i pochi ombrelloni, un paio di barche e canotti che girovagano fra il Ticino e la Becca, e ci immergiamo nella natura più selvaggia della nostra zona. Da un attimo con l’altro mi accorgo di essere in mezzo al nulla. Non c’è più anima viva, nessuna barca incrociata, nessun pescatore, niente di niente. Il Po raddrizza il suo corso e magicamente la provincia pavese (seppure ci siamo ancora dentro) sparisce inghiottita da una sorta di varco ultra-dimensionale. Potremmo essere ovunque e in qualsiasi periodo storico che non noterei differenze. Una sponda alta, con una costa che si fa sempre più ripida, e una di là, con spiaggioni talmente grossi che sicuramente si fa prima a raggiungerli via fiume. E in mezzo solo tanta acqua, una distesa di fiume che sembra un deserto azzurro infinito nello spazio e nel tempo. Alberi, verde, uno stormo di gabbiani sulle rive che ci fissa in maniera curiosa e silente. Un paradiso selvaggio e incontaminato, oggi riservato solo a noi due, spavaldi esploratori solitari di questo pianeta ai confini dell’universo. Vicino allo spiaggione di San Giacomo attracchiamo alla bene e meglio - lo fa Nico, che prende il cambio alla guida.Nel pomeriggio imparerò anche io a planare dolcemente la barca finché la prua non si appoggia sul fondale di uno scalino e si può gettare l’ancora per fissare l'imbarcazione in maniera parallela alla corrente, in modo da tenerla diritta e ferma.
    Il nuovo bagno è completamente diverso e Nico mi spiega perché siamo sulla sponda sinistra, ovvero dove scorre ancora la corrente del Ticino, menefreghista della confluenza che ci sarebbe dovuta essere ormai qualche miglia più a monte. Acqua più pulita, forza dolce e moderata, temperatura piacevolmente fresca e fondale più duro e guadabile. Continuiamo la discesa lungo il tratto rettilineo più lungo di fiume, finché dopo la successiva ansa iniziamo a intravedere gli ormeggi dell’ "Avamposto", delle casotte più a valle e della motonave Beatrice. La sponda destra si alza fino a formare una sorta di scogliera alta quasi quattro metri: precipita giù a fiume in maniera retta e perpendicolare, con alti fusti arborei che si stagliano fin sulla cima e che ci fanno finalmente un po’ di ombra. Superiamo la foce del torrente Versa e subito dopo i tre luoghi sopracitati, raggiungendo il ponte di Spessa. Decidiamo di fermarci esattamente sotto una sua arcata, chiedendo asilo alla fresca ombra. Ci ancoriamo a uno dei tanti tronconi che, trascinati dalla corrente, hanno formato una sorta di diga in prossimità di uno dei piloni. Si sta bene e con una birra in corpo (custodita saggiamente in un frigo portatile) si sta ancora meglio.
    Nico estrae dallo zaino il pranzo: in recipienti di plastica passa in rassegna pasta fredda e risotto coi funghi. Poco dopo aver finito di pranzare, fumato una sigaretta a testa, ci concediamo una pennichella altrettanto ristoratrice: ci sdraiamo sulla barca, sonnecchiando dolcemente cullati dalle onde del fiume e vezzeggiati dall’ombra. Mi sembra davvero di essere un novello Tom Sawyer dei nostri tempi, che con il suo fido compare Huckleberry vanno alla scoperta del grande Fiume "Mississippi".
    Al risveglio ci rimettiamo in cammino, proseguendo ancora a valle, puntando verso l’Imbarcadero di San Zenone. Tagliamo il grosso corso d’acqua praticamente in linea diagonale, avvicinandoci verso il punto dove confluisce il torrente Olona. Acqua bassa e imbarcadero che poggia malinconicamente in maniera inclinata sulla sponda dell’affluente: locale chiuso e nessun’anima in giro. Peccato. Una rinfrescante birra e due chiacchiere con la sempre arzilla signora Silvana sarebbero state la ciliegina sulla torta di una seconda giornata sul fiume già sopra le righe.
    Decidiamo di risalire lentamente, anche se ovviamente la “salita” è molto più lunga e lenta. Il sole picchia spietato, brucia la pelle, disidrata in continuazione i nostri corpi che non riescono neppure a rinfrescarsi dall’aria battente (calda anch'essa). Così, nei paraggi dell’ansa di San Cipriano siamo obbligati a fare una sosta e a buttarci capofitto in acqua, in un punto dove il fondale è abbastanza basso e si può galleggiare senza paura. Da ovest arriva un barcé con a bordo tre giovani pescatori: sono amici di Nico e dopo i rituali convenevoli, anch’essi ormeggiano da quelle parti e si buttano giù. Si ride, si scherza, si parla che c’è poca acqua e pochi pesci, delle persone annegate in Ticino a Pavia, che sulla nostra barca ci vorrebbe un motore a 50 cavalli per andare più forte e consumare meno, e di leggende di pesci-siluro giganteschi pescati da queste parti. I tre amici ripartono in direzione di Arena Po. Ci salutiamo, ritiriamo l’ancora, ma dopo ancora poco il caldo ci costringe a un’ulteriore tappa. Alla spiaggetta di San Giacomo nuovo bagno e di nuovo soli in mezzo alla natura.
    «Dobbiamo prendere un motore più potente! – mi fa Nico, mentre i nostri corpi sono immersi nel fiume- Soprattutto se voi volete fare quel famoso viaggio fino a Venezia».
    Mi basterebbe arrivare a Porto Tolle (foce in Mare Adriatico) per realizzare un sogno che forse ho fin da bambino e che sono vicino ad accarezzare.
    Mi volto verso est, osservo il fiume che scorre in quella direzione: là, dove la corrente trascina tutto e porta via, e dove un giorno, costi quel che costi, navigherò per realizzare quell’utopia.
    Una volta risaliti a bordo e salpiamo. Il sole cocente e la fitta vegetazione lungo le sponde accompagnano la nostra risalita verso l’imbarcadero di Pavia.

    CAPITOLO 3.
    Terza uscita sul Grande Fiume Po, alias “Mississipi Padano”. Mai soprannome più azzeccato come oggi, sabato di fine agosto: giornata calda, torrida, afosa fin da stamattina. Nico non c’è, così io e Juri (il terzo comproprietario della barca) ci diamo appuntamento al bar Mary Flowers di Castelletto Po. Piccola reunion fra vecchi amici, poi io e lui partiamo in auto in direzione dell’imbarcadero Idrometro. Oggi, senza Nico, sarà la prima vera uscita solitaria: alle spalle ho solo due sole lezioni per accendere, guidare e padroneggiare una barca: basteranno?
    Arriviamo all’Idrometro con la tanica piena di benzina e l’olio nautico per fare la miscela, la batteria carica per far funzionare l’ecoscandaglio e una buona dose di spirito d’avventura. Montiamo, colleghiamo il tutto e si parte. Stesso percorso di sempre, si salpa in direzione del ponte di Spessa, già sapendo che comunque ogni viaggio sarà un’esperienza diversa e ogni tragitto, anche se identico a quello precedente, riserverà sempre sensazioni, pensieri, riflessioni e nonsoché unici.
    Ponte della Becca, un gigante di ferro e cemento che taglia l’orizzonte appena partiamo, con me alla guida e con Juri seduto a prua per bilanciare il peso sulla nostra Glastrom. Navighiamo il fiume in un sabato mattina ancora acerbo e privo dei tanti bagnanti che affollano le spiaggette a ridosso del porticciolo della Becca e delle caratteristiche case galleggianti che ci sono subito dopo. Mi anima sempre quel sogno e quell’utopia di quel Viaggio che sia io che Juri abbiamo ben fissato nella mente fin da quando, da qualche tempo, ci siamo detti più volte: “Ma perché non scendere il Po fino a Porto Tolle alla foce in Mare?”. Lo stiamo realizzando, penso, mentre osservo le case galleggianti, subito più a valle del porticciolo e dell’area attrezzata del Centro Nautico, che mi ricordano tanto le house-boat sul Delta del Po. Terra di viaggi e on the road a me molto cari.
    Andiamo avanti, nonostante il motore ogni tanto dia qualche colpetto strano, con l’insita utopia e fissazione che navigheremo questo fiume costi quel che costi, anche al prezzo di restare naufraghi e andare alla deriva come novelli Klaus Kinski nel finale stupendo, visionario, leggendario ed epico del capolavoro “Aguirre furore di Dio” di Werner Herzog. Anse, non anse, spiaggioni, rive alte che si gettano a precipizio. Dopo la solita spiaggia di naturisti, il fiume diventa un deserto azzurro, dove solo la natura, e non più l’Uomo, detta legge e che ci fa sentire davvero piccoli, come libellule che cercano di gareggiare in velocità con noi. La solita barca ormeggiata, il solito barcé con il tizio seduto a bordo sotto un ombrellone, che ci guarda passare guardingo e diffidente, stesso personaggio e honky-tonky di questa bassa pavese, che incontro ogni volta allo stesso punto esatto. Non saluta, non fa alcun gesto. Ci guarda e basta. Sembra una comparsa quasi inquietante del film “Un tranquillo week-end di paura” di John Boorman, e io e Juri siamo gli sfortunati protagonisti che si avventurano in una natura genuina, incontaminata, bella ma allo stesso tempo cruda e quasi paurosa. Il medesimo senso di solitudine e di impotenza l’ho provato soltanto nel deserto di Merzouga, in Marocco, quando in sella a un dromedario scollinai dune di sabbia gigantesche quanto montagne, senza mai intravedere il traguardo del mio viaggio, sotto un sole spietato come quello di oggi. Acqua, acqua, acqua, sponde lontane e distanti, irraggiungibili, un fiume Po dritto davanti a noi che sembra non finire mai. Colline dell’Oltrepò, belle, carine, da cartolina: mi ricordano che la "stretta di Stradella" è lì davanti a noi, unico punto di riferimento, meglio della stella polare in un cielo di un universo piatto. Ma resta là distante e intangibile. Io e Juri siamo soli in questo oceano azzurro che scorre univocamente da ovest a est. Spiaggioni deserti da una parte, sponde rialzate e boscose dall’altra. Probabilmente subito dopo l’isolotto di Buffalora abbiamo varcato un passaggio ultra-dimensionale e ora stiamo esplorando per la prima volta un mondo alieno e distante migliaia di anni luce.
    Il ronzio incessante e meccanico del motore ci tiene svegli da questi incubi, mentre il sole si fa più feroce col passare del tempo. Ansa di Sostegno, campanile del piccolo borgo di Portalbera all’orizzonte, ponte di Spessa che si staglia sulla linea dell’acqua manco fosse la mitica “India” avvistata dalle caravelle di Cristoforo Colombo. Arriviamo stremati ed esausti, ma al piccolo molo del ristorante “AvamPosto sul Grande Fiume” non c’è modo di attraccare, soprattutto per un neofita come me. Meglio ripiegare un po’ più giù, appena prima del ponte della provinciale 199, dove c’è l’attracco della Motonave Beatrice, l’unica in tutta la provincia di Pavia che offre un po’ di turismo fluviale: nei mesi estivi e invernali (per via del basso livello fluviale) è attraccata più a valle, cioè a Parpanese. Qui c’è soltanto in primavera e in autunno e lascia libera l'attracco. Il mio primo vero e solitario attracco riesce abbastanza bene, diciamo senza particolari traumi (o danni irreversibili): perché un conto è manovrare una barca in mezzo al fiume come una macchinina dell'autopista in mezzo al nulla, un conto è riuscire a non sfracellarsi contro un molo. Mentre io manovro fra marcia, folle e retro, Juri abilmente aggancia la corda, fa nodi e usa i moschetti a disposizione per fissare bene l'imbarcazione. Alla fine ci riesce in uno spreco di corde, nodi, moschettoni e bestemmie. Raggiunta la riva, scarpiniamo a piedi fino alla trattoria “AvamPosto”.
    Dopo la lauta mangiata si ritorna alla barca, ma con grande sorpresa il motore non ne vuole sapere di mettersi in moto. Ci proviamo e ci riproviamo, ma alla fine ci arrendiamo come due naufraghi dispersi dopo una tempesta. Peccato che di tempeste non ce ne siano, ma ci sia invece un gran caldo e un gran sole che di noi due non vuole avere nessuna pietà. Chiamiamo chiunque: Sergio Barca, il proprietario dell’imbarcadero di “Becca Beach”, che si dimostra disponibile a raggiungerci in auto e dare un’occhiata al motore; Nico, che sta in vacanza al fresco da qualche parte in Sud Italia, ma che non risponde; un certo Delmo, che lavora da quelle parti i campi della "Lousiana Pavese", che c’ha una barca ormeggiata ad Arena Po e che se smettesse di lavorare potrebbe venire a trainarci fino alla Becca, ma vorrebbe in cambio ben 80 euro. Intanto il tempo passa, e io e Juri vinti dallo sfinimento, a turno, ci immergiamo nelle acque del Po. Il fiume è profondo in questo punto, l’ecoscandaglio segna almeno 5 metri di profondità, così per non farci trascinare via dalla corrente ci immergiamo stando attaccati agli scalini come cozze agli scogli: la corrente è spietata, tira forte e peggio di un uragano, una sola leggerezza e saremmo a turno trascinati via e lontani sia dall’attracco che dalla barca, magari verso uno di quei mulinelli che impietosamente sotto il ponte di cemento poco più avanti risucchiano giù tutto ciò che passa…
    Resistiamo audaci, sia al caldo che alla tentazione di lasciarci andare, quando Nico mi richiama e mi da istruzioni su come far ripartire l’affare. Allora, per l'ennesima volta ripeto al mio cervello che la leva del cambio deve essere in folle, l'accelleratore al minimo, e il soffietto della tanica di benzina aperto. Forse l'ho capito. Magia meccanica. Il motore si accende. Molliamo gli ormeggi e ci rimettiamo in navigazione. Risaliamo il fiume molto più lentamente, con pescatori sulla sponda sinistra che ci osservano come redneck usciti da un romanzo di Joe Lansdale, barche che ci sorpassano con a bordo sorridenti abbronzati che si salutano, e il Ponte della Becca che non arriva mai, stavolta vera agognata oasi in mezzo a un deserto senza fine.
    Il nostro viaggio finisce davanti alle case galleggianti di Ponte Becca, quando il motore improvvisamente si spegne di colpo. Eppure la benzina ce n'è ancora, anche se non moltissima. Ci viene a recuperare un amico di Sergio Barca, che ci traina per poche centinaia di metri fino all’imbarcadero. Qui c’è Sergio, prende la Glastrom come se fosse una mollica di pane che galleggia nel piatto di sugo di pomodoro, scoperchia il vano motore, fa una piccola magia con le sue mani e il 25 cavalli torna in azione più incazzato che mai. Ci dice che il carburatore era un po’ sporco. Ci dice che bisognerebbe pulirlo. Ci dice che un 50 cavalli tenuto bene sarebbe meglio, soprattutto per fare quel più grande viaggio che abbiamo in mente da tempo.

    CAPITOLO 4.
    Un sabato mattina di settembre. Al bar Mary Flowers di Castelletto Po, dopo una colazione veloce, io e Juri ci ritroviamo senza batteria né olio nautico. La batteria serve per azionare la pompa satena per svuotare l'interno della barca dall’acqua accumulata sul fondo dalle abbondanti piogge delle scorse settimane. Serve anche per far funzionare l’ecoscandaglio, indispensabile Bibbia fluviale per noi principianti che ci guida in mezzo a ogni corso d’acqua evitandoci di andare a sbattere con l’elica contro fondali troppo bassi e insidiosi.
    «C’avete una spanna d’acqua a bordo – ci dice Sergio Barca qualche minuto più tardi nella sua officina a Tornello – Perché non vi prendete una di quelle pompe automatiche che ve la svuotano da sole? Altrimenti dovete venire a controllarla ogni giorno!»
    Ha un’officina lungo la statale Bronese che sembra uscita da un film nordamericano. Quando oltrepassi il suo cancello entri in una dimensione parallela, dove ti immergi già nel favoloso mondo di fiume che io e Juri stiamo iniziando ad amare sempre di più. Dopo un piccolo giardino, popolato da tre cani affettuosi e giocherelloni, Sergio ci aspetta sull’uscio del suo capannone, adibito a officina. Al suo interno c’è di tutto, un microcosmo di barche, motoscafi, barcé, perfino moto acquatiche, pezzi di ricambio e tutto ciò che da un rottame lui è capace di trasformarlo nella lancia più veloce e cazzuta di tutto il fiume Po da qui fino alla foce in Adriatico.
    «Posso prestarvi questa! – dice Sergio, mostrandoci una batteria da motore praticamente nuova – Ma mi raccomando, dovete riconsegnarmela e averne molta cura!»
    Promettiamo solennemente.
    Sta già fumando la terza o quarta sigaretta da quando siamo lì. Afferriamo il flacone di olio nautico che ci vende, la batteria e risaliti in auto ci dirigiamo oltre il Ponte della Becca verso l’imbarcadero Idrometro. Scarichiamo tutto l’occorrente, compreso la tanica di benzina già riempita al distributore della Total di Moranda e già miscelato nella giusta misura (una tacca di olio nautico per ogni 5 litri di benzina).
    Quando scendiamo al molo - due banchine con galleggianti e collegate alla terraferma da due rampe di scale - fa molto caldo e il cielo promette in maniera bugiarda una bella giornata di sole: non sarà così.
    Non c’è nessuno a parte me e Juri: gran parte delle imbarcazioni sono ormeggiate silenziosamente lungo la corrente del Ticino. L’acqua è molto cresciuta rispetto al mese scorso. L’ultima volta potevo tuffarmi lì e toccare il fondo restando a mezzo busto fuori. Oggi il fondale non si vede, segno inequivocabile che farsi un bagno è molto sconsigliato e che dovremmo fare le operazioni di disancoraggio unicamente stando sull’imbarcazione.
    Con il motore fuori bordo a due tempi non ho mai avuto un ottimo rapporto, lo ammetto. Io ci provo e ci riprovo, ma sono come quelle antipatie reciproche a pelle. Metterli in moto può sembrare facile come accendere un comunissimo decespugliatore, ma in realtà non è così. Io e Juri impieghiamo qualcosa come 45 minuti di tentativi, riprove, bestemmie, imprecazioni e io devo perfino calarmi in acqua profonda, tenendomi aggrappato alla scaletta di poppa per evitare che la corrente, oggi molto forte, mi trascini via, per assicurarmi che il motore sia a posto.
    Ogni tentativo di farlo partire è simile a una preghiera di una forte nevicata a luglio in mezzo al Sahara.
    Niente da fare.
    A un certo punto, però, il 25 cavalli emette un piccolo scoppio ben promettente.
    «Ora dovrebbe partire!» dico con la stessa sicurezza di abbuffarsi di una volpe che si è appena intrufolata in un pollaio.
    Peccato che noi siamo volpi che hanno trovato un pollaio vuoto e desolato.
    Il motore non dà più cenni di vita.
    Tira l’aria, togli l’aria, togli il coperchio, togli il tubo che dal serbatoio va al motore, fai uscire la benzina che sicuramente ha invasato gli ingranaggi, bisogna asciugare le candele, dove cazzo sono ‘ste candele, e quanto starei meglio a sgolarmi una birra a Bastida da Vito, magari provandoci con la sua bella cameriera di turno, piuttosto che stare sotto questo sole caldo a imprecare contro un motore che non vuole saperne di mettersi in moto.
    Anche oggi, sicuramente, ho commesso degli errori: la leva dell’acceleratore non deve essere sul massimo. Continuiamo come cercando di rianimare un cadavere morto da una quindicina di giorni fa. Sul molo di fronte c’è un barcaiolo, sicuramente più esperto di noi: ci da i consigli giusti per il colpo di grazia.
    «Non tirate più l'aria -ci raccomanda- se l’avete già tirata ora il motore dovrebbe partire da solo!»
    Sono come parole magiche, che solo un Signore del Fiume come lui poteva pronunciare per destare dal letargo profondo la nostra Glastron. Un tiro, due tiri, tre tiri e messa in moto.
    Solite posizioni (Juri sdraiato a prua, mentre io al volante a poppa) e si salpa. Questa volta decidiamo di tradire il nostro amato Mississipi Padano - fiume Po e di risalire il “Missouri” - Ticino, almeno fino alla città di Pavia. Può sembrare un tragitto corto dal Ponte della Becca fino in città, ma dopo solo poche uscite ho già capito una cosa molto importante: le distanze via fiume sono completamente diverse da quelle terrestri. In automobile ci impiegherei pochi minuti per arrivare alla svincolo di Pavia Est, uscire dalla tangenzialina, fare la rotonda, fermarsi al primo bar del quartiere San Pietro in Verzolo, ordinare una birra, sorseggiarla al tavolino sul marciapiede lungo viale Cremona e scrivendo su ogni status di social esistente che sto bevendo una birra a Pavia, mentre poco fa ero in mezzo al Ponte della Becca. Niente di tutto questo è paragonabile via fiume. L’ansa di località Boschi, ma soprattutto quella di Belvedere, allungano il tragitto fluviale rispetto a quello via terra; inoltre, risalire il fiume controcorrente, o “in salita”, dilata ancora di più il rapporto fra tempo e spazio.
    Notiamo subito che il Ticino, a differenza del più grande Po, è meno selvaggio, pur conservando ugualmente quel fascino di natura incontaminata. Rigogliosi boschi di pioppi fioriscono su entrambe le sponde, anche se ci sono più segni della presenza umana: case galleggianti, chiatte, piccole imbarcazioni e gruppetti sparsi di pescatori (che ci adocchiano come se stessimo pilotando un’astronave in mezzo al fiume) non ci addentrano mai durante il percorso in quella sensazione di “Spazio Profondo” che invece trasmette il fiume Po subito dopo la Becca in direzione di Portalbera. L’ecoscandaglio non funziona, perciò navighiamo “a vista”, nel senso di stare ben attenti al fondo: appena lo intravediamo stagliarsi dall’acqua a occhi nudi rallento subito il motore e aziono la marcia a posizione folle, in modo che l’elica si sganci e si alzi fuori acqua, onde evitare di toccare sotto e danneggiarsi. Come dicevo prima, fortunatamente le piogge delle scorse settimane hanno innalzato il livello fluviale, così tutto sommato si naviga bene. Dopo le due molto caratteristiche house-boat di Belvedere (sponda sinistra) raggiungiamo la prima importante ansa, una curva a gomito dove proprio al suo interno sorge la spiaggia sabbiosa di Travacò. C’è ormeggiato un gommone e sulla riva quattro ragazzi si stanno godendo un sabato mattina di ozio e relax. Riconosco sia l’imbarcazione, che il ragazzo con barba a pizzetto: è Johnny Cason, ci siamo conosciuti una quindicina d’anni fa, quando lavoravamo assieme all’autolavaggio di camion e pullman dell’ASM di Pavia. Non ci siamo più visti per una vita, poi il mese scorso, per caso, ci siamo beccati all’imbarcadero e abbiamo scoperto di essere amanti del fiume. Ci salutiamo a lungo, mentre la nostra bass-boat sfreccia inesorabile risalendo il corso d’acqua azzurrognolo come un cielo di fine estate. Dopo l’ansa navighiamo in direzione sud-ovest per un breve tratto, almeno fino all’imbarcadero Boschi (sponda destra). C’è un molo a cui sono ormeggiate un po’ di imbarcazioni, mentre alcune persone sulla sponda in alto, radunate accanto a una baracca che sembra essere un bar, ci osservano stupite e divertite.
    Incrociamo un barcé a motore proveniente da Pavia e eseguiamo la regola non scritta di scambiarci i saluti. Dopo pochi secondi quella barca sparisce inghiottita dall’ansa di Boschi, mentre davanti a noi si apre una prospettiva favolosa: fra le rive boscose del fiume in lontananza si distingue nitidamente il gasdotto di zona “Confluente” e subito dopo, sullo sfondo, si staglia l’alto Duomo di Pavia con le torri e i palazzi del centro storico. Il colpo d’occhio è davvero notevole: Pavia vista da questa angolazione sembra una città completamente diversa da quella conosciuta.
    Avvicinandoci, mi accorgo che la città riserva anche scorci che non ho mai visto e che non avrei mai immaginato in un posto dove la mia supponenza credeva di conoscere come le tasche dei pantaloni. Le baracche di legno alla fine di viale Venezia che si affacciano sul fiume come piccole favelas sudamericane; la cascata del Naviglio Pavese che forma un piccolo laghetto ornato da alti alberi - il simpatico quadretto è completato da una barca ormeggiata e da un tizio seduto lungo il fiume che contempla il nostro passaggio; il maestoso Idroscalo, o meglio ciò che ne resta, che si erge con i suoi giganteschi piloni sul fiume fino ad arrivare all’altezza di via Lungo Ticino Sforza, che scorre in cima alle mura esterne di Porta Nuova. Dagli anni Venti agli anni Quaranta dello scorso secolo il possente edificio fu un importante scalo della linea passeggeri di idrovolanti (biplani a motore unico) Torino – Pavia – Venzia - Trieste. Purtroppo, nel corso degli anni, Pavia è stata capace di perdere molte cose legate al suo fiume: il vecchio idroscalo, lo storico moto-raid Pavia-Venezia, posti che noleggiano kayak e gran parte della passione fluviale.
    Fortunatamente non tutta. Dall’altra parte del fiume, sulla sponda destra, le case basse e colorate di Borgo Ticino sembrano un allegro paese fluviale a sé stante. Il cupolone del Duomo, il Ponte Coperto, i moli, gli imbarcaderi, il Borgo Basso, la statua della Lavandaia, il Bar Imbarcadero di Porta Damiani - che sembra un bar galleggiante su una sorta di “Senna” pavese: Pavia vista da qua è di uno schianto letale e di una bellezza da perderci la testa. Anche se inizia a piovere, a fare brutto, a tirare vento freddo e davanti a te hai improvvisamente le temibili correnti delle arcate del Ponte Coperto.
    Nel corso degli anni, e anche in tempi molto recenti, qui sono morte annegate tante persone. So che da qualche parte laggiù, sul fondo del fiume, c’è la statua del “Cristo del Fiume”: alta 1 metro e mezzo, è una sorta di benedizione per la gente di fiume, depositata laggiù nel lontano 1998. Da quegli anni ormai lontani riaffiorano i ricordi di quando, poco più che ventenne, assieme ad alcuni amici noleggiavano canoe proprio al Bar Imbarcadero (oggi l’unico imbarcadero in zona dove poter pagaiare sulle acque di fiume si trova all’Oasi Olona di San Zenone Po) e risalivamo il Ticino, affrontando le forti correnti del Ponte Coperto. A rendere più insidiosa l’attraversata delle sue alte arcate sono anche i resti dell’antico Ponte Romano, che sorge leggermente dopo, e che aiutano la formazione di mulinelli e dei temutissimi vortici. Man mano che ci avviciniamo al caratteristico ponte, ci ammalia la sua bellezza ma ci sorprende il timore di non riuscire a oltrepassare la fatidica seconda arcata sulla destra.
    «Devi prendere la seconda arcata – mi aveva detto Fabian proprio ieri in ospedale, davanti agli uffici dove lavoro, – Vai sotto la seconda arcata, esattamente in centro e poi quando ci sei sotto dai tutta birra!»
    A parole sembrava una bazzecola, una di quelle imprese da dilettanti da raccontare poi agli amici del bar la sera stessa, inserendo con la fantasia, ovviamente, di aver superato difficoltà enormi come demoni subacquei, dinosauri dell’era cretacea e il dio Nettuno in persona. Invece, quando ci troviamo proprio sotto alla seconda arcata le cose sono ben diverse. Piove, tira vento, il fondale è basso (passa da otto metri a meno di un metro e mezzo in un batter di ciglia), c’è rischio di toccare con l’elica e la corrente è talmente forte e intensa che almeno un paio di volte rischio di perdere il controllo della barca e temo che questa possa girarsi all’improvviso e fare un terribile testa-coda che ci sbalzi chissà dove.
    «Quando ci sei dai tutta birra!» mi ricordo le parole dell'amico esperto.
    Anche se in quel momento non credo sia la cosa migliore, accetto il consiglio. Acceleratore giù al massimo e dritto verso i gorghi del sotto ponte. Contrariamente a ogni mio timore, la barca non solo si stabilizza ma passa indenne il (credo) maggior punto critico del Ticino pavese. Sbuchiamo dall’altra parte, soddisfatti quanto increduli di avercela fatta. Ma non finisce qui. Dopo il breve tratto fra il verdeggiane Parco Vul e Lungo Ticino Visconti c’è già l’altro ponte, il "Ponte dell’Impero". Raggiro a sinistra il grosso isolotto di sabbia formatosi a metà corso d’acqua. Uno stormo di uccelli sta lì a terra, incurante della pioggia sempre più fitta, e i volativi sembrano tutti fissarci come spettatori per vedere se riusciremo a passare anche il secondo ostacolo. Visto che mi sono allargato verso la sponda destra per girare al largo dal riaffioramento, punto verso la terza arcata, anche perché poco fa abbiamo incrociato una lancia che è passata proprio là sotto. Cerco di memorizzare il punto esatto dove l’ho vista sbucare e mi dirigo dritto in quella parte, con un occhio però sempre puntato al fondo del fiume. E’ già più difficile del Ponte Coperto: subito dopo l’arcata del Ponte di viale Libertà c’è un secondo isolotto che emerge poco distante dal pilone, per cui una volta sotto il ponte bisogna virare subito a destra e riportandosi a centro fiume, dove dovrebbe scorrere il cosiddetto “canale” . Niente di più falso, ovviamente: il fondo è talmente basso e visibile a occhio nudo, che più di una volta mi tocca rallentare, mettere in folle, arrestare e avanzare a tentoni. Tutto ciò sotto un’acquazzone che nessun telegiornale o sito meteorologico avrebbe mai previsto neppure sotto atroci torture. Mi riparo solo un cappello, una maglietta bianca e un paio di bermuda da bagno. Juri è più fortunato: ha un giubottino leggero che s’infila di gran carriera. Non servono a molto, ma avanziamo ugualmente sfidando anche le intemperie.
    Il tratto lungo via Montebello procede così, almeno fino al ponte della Ferrovia, vera e propria colonna d’Ercole inattraversabile, oltre le quali pare non ci sia (ancora) concesso andare oltre. Le provo di ogni ma non ce la faccio, prima vera bandiera bianca della mia vita da barcaiolo. Abbiamo sfidato e sopportato il caldo atroce dei mesi estivi, il restare alla deriva quella volta che il motore ci ha lasciato in panne in mezzo al fiume Po nei pressi di Spessa, e la benzina finita a poche centinaia di metri dall’imbarcadero. A tutto siamo riusciti in un modo o nell’altro a ripartire, questa volta non ce la faccio. Il ponte della ferrovia di Pavia è un mostro di cemento e di acciaio ancora troppo forte per un giocatore inesperto come me: è un po’ come quei vecchi videogiochi da bar che andavano a cinquecento lire e che, soprattutto negli “arcade”, avanzavi di livello in livello, ma alla fine di ognuno c’era, appunto, un “mostro” da affrontare e sconfiggere. Ovviamente, livello dopo livello i “mostri” e i vari nemici diventavano sempre più difficili, finché non ne trovati uno invincibile.
    Ha due arcate principali larghe al centro e due strette ai lati. Su quella più a destra è impossibile passare: la confluenza del Navigliaccio e lo stretto pertugio con il resto del fiume non permetterebbero neppure a una barchetta di carta di scendere. Idem quell’altra più esterna, sponda Parco del Ticino: fra la riva e il pilone si sono ammucchiate delle ramaglie che impediscono di proseguire di lì, come se ci fosse un muro di legno. Restano le due centrali. Subito dopo la prima, quella più a sinistra, c’è un riaffioramento evidentissimo: il fondo risale talmente a livello formando piccole rocce e sassi che spuntano fuori qua e là, e quindi è impossibile proseguire. Resta solo la seconda arcata: ci provo, ma la corrente forte e il fondale talmente basso che si può quasi toccare con la mano sporgendosi dalla barca più di una volta non mi fanno avanzare. Sballottati una, due e tre volte, prima forzando l’avanzata ma subito dopo trascinati indietro, decido di arrendermi. Con la marcia in folle la corrente per qualche secondo ci trascina lentamente via, mentre restiamo impotenti a fissare quell’ostacolo che non siamo riusciti a sconfiggere.
    Rivincita col ponte ferroviario già fissata per la prossima volta: non si molla, supereremo quell’ostacolo, anche quello della tangenziale e approderemo alla Casa sul Fiume per prenderci una birra al Bar del Turista. Rimetto in marcia, in direzione sud.
    Scendiamo il fiume, donde siamo venuti, senza particolari problemi, a parte sotto il Ponte Coperto dove avanziamo cautamente, ma data la forte corrente che si spinge sotto, dopo un po’ ci lasciamo andare a tutta benzina sbucando indenni dall’altra parte. Man mano che la discesa prosegue verso la Becca la pioggia diminuisce lentamente e il cielo comincia ad aprirsi.
    Quando arriviamo all’Idrometro e riesco a ormeggiare in maniera quasi impeccabile, il sole è rispuntato sopra di noi e emana nuovamente quel tipico caldo tiepido settembrino. Ormeggiamo il mezzo, scarichiamo tutto ciò che dobbiamo scaricare e ci avviamo ugualmente soddisfatti della bella avventura verso l’automobile, anche se – ovviamente – la storia del ponte della ferrovia mi roderà per un bel po’.
    Dato che si è fatto tardi e che ormai i ristoranti sono tutti chiusi, decidiamo di dirigerci nell’unico posto aperto che faccia da mangiare alle tre di pomeriggio: ovvero da Bysalman, a San Martino, un ristorante turco (definirlo un kebabbaro è eccessivamente riduttivo e fuorviante), aperto 24 ore al giorno, che offre squisite pietanze culinarie, sia ottomane che di tutto il Sud-Est Europeo. E' anche uno dei pochissimi locali in Pavia e circondario dove si può bere il mio amato Rakì (un distillato d’uve molto diffuso nei Balcani e in Turchia), bevanda simbolo e nostalgica di tutti i mie viaggi in Europa Orientale e oltre. Ci accomodiamo fuori, su un tavolino praticamente davanti all’ingresso del locale e non molto distante dal traffico della Statale 35. Ordiniamo due grigliate di pollo, con riso, bulgur, verdure, spezie e salse varie, birra in bottiglia e l’immancabile Rakì. Ci serve una bellissima cameriera straniera.
    «Stamattina in mezzo al fiume come in Louisiana, oggi pomeriggio a pranzare in un parcheggio lungo la Statale come in Texas!» afferma scherzando Juri.
    «Siamo proprio due redneck padani!» rincaro io la dose.
    Le nuvole si sono completamente diradate e il sole caldo di fine settembre adesso batte più forte sulle vite e sulle storie della Louisiana Pavese.

    CAPITOLO 5.
    Io e Nico ci rivediamo solo a fine ottobre, dopo alcune uscite solitarie in barca lungo il fiume Ticino fino a Pavia, quando mi sono rispinto fino alle mie ormai personalissime colonne d’Ercole rappresentate dai piloni del ponte della ferrovia. Ci ho riprovato altre due volte a superare quell’insormontabile ostacolo, ma non c’è stato nulla da fare. Neppure le abbondanti piogge di metà mese sono venute in mio soccorso. Il “Missouri pavese” e il “Mississippi padano” – come li soprannomino io – sono diventati fiumi grossi e profondi, lontane ombre di com’erano quest’estate, stretti, asciutti e con punti dove potevi scendere dalla barca e guadare tranquillamente. Nonostante l'innalzamento del livello delle acque, tuttavia, passare sotto il ponte della ferrovia è rimasta un’utopia. Ogni volta che arrivo in quei paraggi il fondale del Ticino appare a vista d’occhio e il rischio di toccare con l’elica del motore è troppo grande.
    E’ un sabato pomeriggio tiepido e tipicamente autunnale. Nico è già a bordo da questa mattina, mentre io gli ho dato appuntamento al molo del Ponte della Becca. Quando arrivo lo trovo ormeggiato al primo pontile del Centro Nautico, intento nella sua più grande passione: pescare alborelle. Continua come una macchina a lanciare la canna, tirare su pesci, gettarli in un un grosso secchio e poi rilanciare di nuovo la lenza. Sembra una catena di montaggio.
    Soliti convenevoli, poi salgo a bordo e si parte. Direzione grande Fiume, scendendo verso est. Superate le solite caratteristiche case galleggianti sulla sinistra e la grande isola fluviale proprio di fronte, raggiungiamo la confluenza fra Po e Ticino, anche se le due correnti scivolano via parallele e distinte ancora per parecchie miglia. La nostra sponda inizia a farsi alta e boscosa. E’ un gigantesco bosco di pioppi che ci accompagna in una natura davvero incontaminata. In certi punti la riva è a strapiombo sull’acqua, molto probabilmente perché il Po lì ha “mangiato” parecchia sponda. L’altra riva, dalla parte opposta, sembra lontana un miraggio. Un gigantesco lago lungo e stretto, dove ogni tanto qualche altro motoscafo sfreccia in direzione contraria alla nostra.
    «Dove andiamo oggi?» chiedo all’amico pescatore, che sta alla guida. Io come al solito mi sono seduto sulla parte piatta della prua.
    «Più avanti a un paio di chilometri dal ponte della Becca c’è un posto che è pieno di lucioperche, di cui uno mi è già scappato stamattina!»
    I prossimi pesci e paesaggi non ci scapperanno.
    Arriviamo in prossimità della seconda isoletta, all’altezza dell’ansa di Buffalora. Ci avviciniamo nei pressi sulla sua punta orientale, dove uno stretto braccio di fiume scorre alle sue spalle e qui si rimette con il corso principale. Nico spegne il motore e mi ordina di buttare l’ancora. Fatto. Galleggiamo su oltre otto metri di profondità, tanto segna il nostro inseparabile ecoscandaglio.
    Nico cambia canna e prende quella ABU da mt. 1,90 da casting con un mulinello Shimano Stradic 3000, mentre a me molla la Katana da 4 metri, perché insiste nel volermi trasmettere la sua passione della pesca. Mi chiede se ho mai pescato in vita mia. Mi affiorano in testa ricordi da ragazzino quando seguivo mio zio Teto in qualche lanca dell’Oltrepò. Ma sono ricordi lontani e confusi. Sicuramente in fiume è la primissima volta in vita mia.
    I primi lanci vanno a vuoto, poi magicamente il galleggiante inizia a vibrare, tiro su e la mia prima alborella ha abboccato all’amo. Ci pensa Nico a toglierla dall’amo, gettarla nel secchio del pescato e a infilarci un nuovo cagnotto (tiene un sacchetti di vermi in una tasca dei pantaloni). Per la pesca ai lucioperca, invece, l'esca è più complessa. Usa alborelle vere e proprie, imbrigliandole in una complessa gabbietta. Mentre pescare alborelle è davvero facile - se ti trovi in un posto ricco di questi pesci -, tipo sparare al tiro a segno nei luna park di paese, cercare di prendere i perca non lo è affatto. Ci vuole tempo, pazienza e buoni rimendi alle delusioni di sentirli che si avvicinano alla tua esca, la mangiucchiano un po' ma, furbamente, non abboccano.
    A metà pomeriggio risaliamo l'ancora e ripartiamo. Ci spostiamo leggermente verso est, stavolta guido io e spingo la nostra bass-boat fino all’ansa che c’è fra San Cipriano e Sostegno. Ancoriamo lì qualche minuto. L’acqua è abbastanza profonda, Nico è sicuro che qui potrebbe pescare quello che cerca. Dal mio canto non tiro su manco un alborella, il che potrebbe essere un buon segno, ovvero non ci sono alborelle perché magari queste acque pullulano di feroci predatori. Siamo nella parte settentrionale del fiume, dove l’acqua è chiara perché risente ancora dell’immissario Ticino e dove i pesci piccoli vengono predati in tempo zero. Nico mi spiega che dove eravamo prima era ricco di alborelle perché le acque del Po, essendo torbide, rappresentavano un buon riparo dai predatori. Qui, dove l’acqua è più chiara e limpida, invece, le alborelle vengono mangiate dai carnivori. Come dai più temibili pesci siluro.
    Quando alla canna di Nico abbocca qualcosa sono attimi lunghi ed eccitanti. La lotta fra il pescatore e il pesce di fiume non è così scontata come può apparire, ma è un lungo gioco di strategia, di tensione e di pazienza. Dai mulinello, tira mulinello, alza la canna, allenta la canna. L’unica cosa che io posso fare è attendere impazientemente l’esito del duello, cambiando di tanto in tanto l’acqua al secchio delle alborelle.
    Alla fine quando il gioco sembra fatto e Nico sta tirando su qualcosa ci accorgiamo del peggio. Dalle oscurità del fondo del fiume inizia a intravedersi una strana e grossa sagoma scura.
    «Non è un perca…. - bofonchia l’amico pescatore concitato e concentrato come un esperto capitano Achab del fiume Po - E’ un pesce siluro!»
    Per pochi secondi una grossa stazza appare poco davanti alla prua dell’imbarcazione. Nonostante non sia sicuramente in età adulta, le dimensioni del mostruoso pesce sono comunque impressionanti. I suoi occhi sono i primi ad apparire dalle torbide profondità delle acque. Più che occhi sembrano due tizzoni accesi colorati di un grigio tenebra che quasi si confondono con il fondale, le sue squame paiono setole di una creatura aliena degli abissi del fiume, la sua bocca quella di un drago acquatico pronto a zompare sulla barca e fare di noi poveri brandelli di carne. E’ un gigantesco demone degli inferni subacquei, che appare alla nostra vista solo pochi secondi, appigliato alla nostra imbarcazione soltanto da un sottile filo di nylon invisibile. Fa quasi per venirci addosso, è gigantesco e lungo quasi come la nostra barca, con due pinne ai lati che sembrano ingrandirsi fin quasi a diventare braccia scheletriche atte ad afferrarci e a trascinarsi con lui. Il tutto si svolge troppo in fretta per dare sufficiente tempo ai miei sogni a occhi aperti di materializzarsi. La belva del Po con con un colpo secco di frusta strappa la lenza di colpo e in una frazione di secondo si inabissa nell’oscuro mondo dal quale stava emergendo. Nico resta soltanto con la canna da pesca in mano e la lenza dondolante, mentre io sono basito e a bocca a aperta. La lotta con il mostruoso essere fluviale mi ha reso edotto che il fiume non è soltanto quella poetica e pacata natura incontaminata che fino ad adesso avevo immaginato.
    «Mannaggia, mi ha fregato all'ultimo! Stavo per tirarlo su!»
    Nel caso ci fosse comunque riuscito (e mancava davvero poco) non ho idea di dove l’avremmo messo sulla nostra Glastrom di quasi 5 metri. Probabilmente disteso per il lungo e immobilizzato con la corda dell’ancora per tenere a freno la sua bramosia di divorarci.
    Appurato che la zona è infestata da pesci-siluro, decidiamo di ritornare all’ansa di Buffalora. Il pomeriggio sta volgendo al termine e una volta raggiunta l'isoletta restiamo al suo largo ancora una mezz’oretta, più o meno nel punto dove eravamo prima. Io riempio il secchio di alborelle, mentre Nico riesce a tirare su un perca bello grosso.
    Il viaggio di ritorno verso il ponte della Becca resterà uno dei più belli di queste prime uscite in barca. Il sole ormai volge al tramonto, l’enorme palla infuocata è scesa dietro gli alberi della sponda meridionale, e noi corriamo su uno specchio d’acqua incantato che riflette le nuove in cielo. Non c’è nessuno in giro a parte noi e adesso il fiume Po sembra davvero un lungo mare inesplorato. Navighiamo fra file di boschi dove non vi è alcuna traccia di paesi, città, né civiltà umana. Potremmo essere fra Tornello e Belgioioso, come lungo un fiume di un pianeta di un altro sistema solare. Tronchi di albero, ramaglie, tutto galleggia e viene trascinato dal fiume, ma noi schiviamo e andiamo oltre, risalendo la corrente fino al gigantesco ponte di ferro a struttura reticolare che unisce da sponda a sponda proprio alla confluenza fra Po e Ticino. E quando esso ci appare dietro l’ansa di Ospedaletto ci accoglie in tutto il suo stupore.
    Il cielo si è tinto di rosa e anche l’acqua dei due fiumi. Il sole ora è lì, appena sopra il gigante d’acciaio, che si specchia con una lunga striscia di fuoco sulle acque calme e pacate. Il mio “Mississippi”. La mia “Lousiana”. Il mio senso di Libertà.
    Ho tutto quello che mi serve in questa poetica immagine che ci accompagna fino ai moli del centro nautico del Ponte della Becca e al lungo inverno che ci attende. Con una sola certezza. La prossima primavera il mio Mississippi sarà sempre qua ad aspettarmi con nuove e grandi avventure da vivere e raccontare.


    In memoria di Carlo Moretto (5.8.2020).
    Ci troveremo ancora in un'altra vita, una sera d'estate a Torino, a parlare di noi, degli altri, del Toro Calcio, del mondo futuro e della vita che verrà. RIP ❤
  11. .
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    Edited by Liutprando - 8/11/2020, 16:58
  12. .


    in memoria di Antonio Croce (1953-2019)
    Ci sono tantissimi oste in tantissimi bar,
    ma quello che avevamo noi a Castelletto Po
    non lo troverò mai,
    neppure se dovessi viaggiare
    in ogni angolo inesplorato del mondo.


    I.

    Questo viaggio inizia in una camera ardente. Nella minuta stanza allestita per l’evento funebre, al suo interno ci siamo soltanto io e poche altre persone. Qualcuno mormora fra sé e sé. Io no, io sto ritto in piedi proprio di fronte alla bara aperta che raccoglie al suo interno le spoglie dell’amico Oste. Era capitato spesso che il bar Mary Flowers di Castelletto Po fosse un antipasto a base di birra e chiacchiere di molti miei viaggi, stradali e no. Soprattutto c’era la certezza che sarebbe stato un punto di ritorno, dove l’Oste puntualmente mi avrebbe chiesto come sarebbe andata, passandomi sul bancone la birra in lattina e un boccale da media. Chiamandomi “Assessore”, com’era solito fare, perché lui aveva soprannomi per molti di noi. D’ora in poi non sarà più così e la piccola cittadina di Castelletto, situata pochi chilometri distanti dalla statale 35, non sarà più uguale. Uno squarcio di “Louisiana alla pavese”, una terra attraversata dal fiume Po, fratello minore in un “Mississipi italico”, un honky-tonk di paese, come tanti, con il suo Oste da moderno saloon. Sono cresciuto in questo bar, che oggi, proprio oggi, sembra dirmi addio. Niente. La vita. Un sorso di birra. Le chiacchiere e le polemiche astruse di Bubba Boy. La strada. E il lungo viaggio che ho davanti ai miei occhi.
    “Mannaggia, Oste… mannaggia!”.
    Non c’è nulla che mi rilassi. Neanche una canzone della mia compilation mp3 all’autoradio. Figuriamoci una sigaretta. Oggi mi pare di inspirare catrame cattivo andato a male. Di solito lo adoro. Il profumo d’asfalto e anche quello di smog e traffico di strade statali. Quelle padane hanno un suo perché. Si diramano all’infinito verso una pianura, schiacciata fra le Alpi e gli Appennini, che si allargano a formare il nostro Texas, quella parte di Nord-Italia che si chiama in realtà Lombardo-Veneto. Adoro percorrere queste strade e perdermi in esse.
    Ma oggi non molto.
    Cielo grigio sul mondo intero. A cominciare già dal confine lombardo-emiliano fra Stradella e Castel San Giovanni. I poggi appenninici dalle parti di Arena Po costringono la statale 10 a fare curiosi e divertenti su e giù. Quasi come sopra una giostra, ma per nulla divertente. Niente sosta rifornimento alla stazione di servizio di Sarmato, dove il GPL costa davvero una pochezza. Ho un pieno di benzina, il primo che ho mai fatto in vita mia, cioè da quel lontano 1993 quando strappai la patente di guida, sostenendo la prova pratica con qualche linea di febbre, non rispettando il limite di velocità in viale Repubblica a Pavia e mai pensando di riuscire a prendere il foglio rosa a fine mattina e che un giorno avrei fatto della guida stradale la mia più grande e irrevocabile passione. Da quando avevo 19 anni fino ad oggi ho sempre e solo avuto automobili a gas. Peccato che recentemente ho dovuto cambiare la bombola sulla mia Matiz (perché una legge italiana dice che ogni dieci anni bisogna sostituirla) e altrettanto peccato che devo attendere il collaudo per poter circolare a GPL. Peccato, ed è ultimo, che quest’ultimo sarà a fine settembre. Le solite logiche all’italiana. Una seccatura burocratica che non ci voleva, visto che d’estate il GPL costa di meno e rende di più.
    Supero Piacenza come sempre percorrendo la veloce tangenziale, che dall’innesto con la 45 per la Val Trebbia fino alla mia uscita è pure a doppia carreggiata. In un attimo sono di nuovo sulla “10”, ma stavolta in direzione Cremona, al di là del fiume Po. Aggiro la città del Torrazzo grazie alla sua tangenziale, che la circoscrive fino a rimettermi sulla “Padana Inferiore”, stavolta già ad est del centro cittadino.
    Questa parte di pianura Padana è piatta, assomiglia a un immenso deserto verde che si protrae all’infinito. Quando l’ho percorsa la prima volta mi è venuto subito in mente il soprannome di “Texas Padano”. Spesso mi fermo al RistoBar dell’Autista, posto subito dopo Pessine Cremonese. Sembra una tipica stazione di servizio, una di quelle che si vedono nel film americani: pompe di benzina, auto e camion parcheggiati sull’enorme spiazzone di catrame, una curiosa locomotiva che s’alza imponente sulla soglia della strada, e un edificio piccolo ma accogliente che serve al suo interno da mangiare, da bere e anche solo da stuzzicare ai passanti. Le ragazze dietro al bancone cambiano sempre a ogni mio passaggio, ma sono sempre belle. Fra i campi di melone delle provincie di Cremona e Mantova ci deve essere una fabbrica di belle ragazze. Non ho altre spiegazioni a riguardo. Un caffè o una birra e la lettura veloce di quotidiani locali sono un mio “must” in questo baretto di camionisti, agricoltori e passanti alla ricerca di viaggi anticonformisti come i miei; ma oggi proprio non riesco. Sto scappando dai miei ricordi.
    O da qualcos’altro?
    Dopo l’attraversamento del fiume Oglio sono in terra mantovana. Attraverso internamente solo Ospitaletto e Castellucchio, il resto scivola via grazie a varianti e circonvallazioni esterne. Mantova potrei aggirarla da sud, prendendo la tangenziale e sbucando attraverso il quartiere Té Brunetti a Frassine. Ma sono poche le volte che ci riesco: è più forte di me penetrare questa bella città segundo la “10” e ammirare il suo bellissimo colpo d’occhio dalla Rocca Sparafucile alla fine del ponte sul Lago di Mezzo. Anche qui: molte volte mi fermo e scendo dall’auto solo per volgere uno sguardo a questo paesaggio quasi fiabesco. Oggi, manco a parlarne. Voglio solo arrivare a Bonferraro, prima tappa notturna di questo attraversamento spazio-temporale, mangiare qualcosa e addormentarmi nel gelo di un condizionatore sparato a mille. Di fare serata a Mantova alla ricerca di emozioni forti e trasgressive manco a parlarne. Quindi, in successione, non se ne parla neppure di fermarmi a Castel d’Ario a farmi un selfie accanto alla statua dedicata a Tazio Nuvolari, né tanto meno prendermi un aperitivo al Bar Cantoniera, che sorge sul confine regionale lombardo-veneto. Tiro dritto fino alla piccola frazioncina della bassa Veronese con pensieri in testa che non sono certo dei più raggianti.
    Guardo la Livietta seduta accanto a me, il morbido cangolino di peluche che mi porto sempre dietro durante questi on-the-road alla Jack Kerouac dei poveri. Mi fissa con i suoi occhiettini di plastica neri senza dirmi alcunché. Niente, oggi non ho manco la forza e l’ironia di farle dire qualche battuta delle sue per tirarmi su.
    Questo viaggio è inziato male. Molto male.

    II.

    Le prime volte mi fermavo a Bonferraro in funzione di Mantova. Bonferraro è una frazione di Sorgà, piccolo comune della Bassa Veronese, che ha un affittacamere, la Residenza Stazione, bello e a prezzo economico, e la bella città di Mantova, perla architettonica della Val Padana subito al di là del confine lombardo-veneto, dista appena una ventina di chilometri. Col tempo, ormai, mi fermo a Bonferraro, perché voglio stare a Bonferraro... E’ diventata una tappa obbligata negli anni, una seconda “Castelletto Po” (il mio paese natio), dove ho imparato a sentirmi a casa (anche se Casa per me è un concetto un po’ strano), a conoscere amici e a passare serate spensierate e soprattutto scacciapensieri. L’ideale per quelli che ho in testa da stamattina.
    Statale 10, chilometro 309. Difficile per uno come me non innamorarsi di questo piccolo borgo attraversato dalla Statale per Monselice, che ricorda la classica cittadina del Texas originale attraversata da una freeway per la California. E io, infatti, ci sono andato lentamente “sotto”, tant’è che ho voluto fortemente farne nello scorso marzo una delle mie tappe della tournée di presentazioni al pubblico del mio romanzo “Io non Viaggio in Autostrada” (edito da Albeggi Edizioni).
    Ceno sempre ottimamente al “Natural Cuisine” gestito dagli ormai amici Andrea e Giulia (una cucina basata sulla tradizione culinaria veronese-mantovana senza glutine), un ristorante che ormai – per chi mi legge e mi “segue” – non ha più bisogno di presentazioni. Se passate da queste parti e volete assaggiare i sapori di questa, questo è il posto giusto per una tappa! Stasera mi indirizzo verso un piatto di “mare” (siamo in pianura, ma non molto distante ormai dalla Laguna Veneta) e assaggio per la prima volta in vita mia un eccellente cous-cous al nero di seppia condito con cozze, vongole, calamari gamberi rosa e verdurine abbrustolite; di contorno sfogliata di patate, monteveronese, topinabour e salsa al sedano. Bottiglia di vino rosso dell’Oltrepò Mantovano e selezioni di grappe a volontà. Con i due ragazzi si ride, si scherza, si chiacchiera e si ricordano alcune serate trascorse qua in compagnia di Juri e di Petrus, e di dopocena movimentati in quel di Mantova… E non potevano mancare gli aneddoti sulla bellissima serata della presentazione del libro a Villa Bra (una elegante milleseicentesca dimora), con Juri che mi fece da relatore, con Leonardo – un cantastorie di Legnago - che si esibì dopo di me, con Andrea e Giulia che si occuparono del catering post-evento, con Valentina che organizzò la visita al Museo della Civiltà Contadina: un bel successo di pubblico. Ebbi un certo fascino da queste parti all’epoca e a parte un paio di miei libri tutt’ora esposti nella vetrinetta del locale, venendo qua mi ha colpito la telefonata di conferma alla Residenza Stazione verso le sei di pomeriggio:
    «Salve, sono Mirko Confaloniera, ho una stanza prenotata per questa notte e…»
    «Ah! Mirko! Lo scrittore di Pavia?»
    Momenti rari di genuine soddisfazioni della passione che coltivo più di tutte.
    Dopo che butto giù l’ultimo cicchetto di squisita acquavite, saluto i ragazzi come sempre, dando loro l’arrivederci al prossimo viaggio. Andrea e Giulia mi augurano buon viaggio (sarà ancora molto lungo) e io esco dal ristorante con la pancia piena e la testa stranamente più sgombra di cattivi pensieri.
    Non ho ugualmente voglia di raggiungere Mantova in auto e di recarmi, per esempio, a La Zanzara (un chioschetto lungo le rive del lago, dove nei week end estivi c’è musica dal vivo), così decido di restare nella piccola Bonferraro, stasera tinta a festa per la sagra di paese. L’essenziale: in piazza Repubblica un paio di giostre, un chiosco della birra alla spina e una band che omaggia i presenti di cover dei Nomadi.
    Preferisco andare a salutare Damiano, che gestisce la pizzeria d'asporto "Era Ora", che sorge proprio sulla Statale, a pochi passi dal “Natural Cuisine”. Ormai anche il suo locale mi sembra di appartenermi e di rivedere vecchi amici, oppure di conoscerne di nuovi, tipo Riccardo col quale passo la serata fra vodke ghiacciate e birre a parlare di musica, cultura punk, politica e altro... Che dire? Il Veneto è il top! Ed è riuscito incredibilmente e contro ogni previsione a farmi passare un venerdì sera spensierato, allegro. Ora sì che sono contento di essere in viaggio. Soprattutto lungo una Strada, come piace a me.

    III.

    Sabato mattina. Mi sveglio tardi. Le grappe di Andrea e le vodke di Damiano più la pace e la tranquillità della “Residenza Stazione” hanno creato un mix perfetto per mettermi k.o. per parecchie ore. Mi rimetto in strada a bordo della mia Matiz (dopo aver ri-salutato Damiano che è dentro il locale a sistemare alcune cose) e imbocco la Statale 10 in direzione Est. Con me come sempre c’è la Livietta adagiata sul sedile passeggero: la mia cagnolina di peluche e mascotte di tutti i viaggi on-the-road in giro per l’Italia. Oltre a bagagli e zaini gettati sui sedili posteriori, c’è anche uno scatolone di libri di “Io non viaggio in Autostrada”: mi serviranno mercoledì sera a Sant’Elpidio a Mare, dove ho una presentazione pubblica (quest’anno è già la quattordicesima). Ci vorrà tempo (e soprattutto tanta strada) prima di allora. Ora c’è il Veneto del Sud da attraversare e il Delta Padano da raggiungere.
    Queste strade le conosco praticamente a memoria: la SS 10 l’ho percorsa più volte fino al suo naturale capolinea che è Monselice. Ma ogni volta provo a fare percorsi alternativi, strade parallele, cercare insomma di vedere e “esplorare” posti nuovi lungo la nostra immensa Val Padana. A Nogara, paesone di 8 mila anime, alla mega rotonda che segna l’intersezione con la statale 12, prendo quest’ultima ma in direzione sud. Dopo qualche chilometro in prossimità di Ponte Molino un cartello mi fa capire di rientrare in Lombardia, praticamente in quel lembo di territorio mantovano che si protrae a est con una forma conica. Non arrivo fino a Ostiglia, un po’ prima raccolgo la deviazione sulla ex statale 482 “dell’Alto Polesine”, che collega Mantova con Badia. Poco più in là sono di nuovo in Veneto. Una bella strada, larga, dritta e poco trafficata. E gran parte dei centri sono tagliati fuori da comode circonvallazioni esterne. Praticamente costeggia il corso del fiume Po sul lato sinistro del fiume fino alle porte di Ferrara. A Castelmassa devio sulla SR 6, che si avvicina ancora di più all’argine del corso d’acqua. Oltrepasso fuori dal centro il borgo di Ficarolo, inconfondibile per la caratteristica unica del suo campanile pendente. Credevate che solo Pisa potesse vantare una torre storta? Si può ammirare anche in questo paesino di duemila abitanti questa torretta di circa 70 metri che penzola stralunata di ben 2,8 gradi. Subito oltre il ponte sul fiume Po inizia (o finisce, a seconda dei punti di vista) l’immenso territorio pianeggiante dell’Oltrepò Mantovano, che ho avuto modo più volte di descrivere in precedenti viaggi.
    Man mano che mi avvicino alle porte della emiliana Ferrara (posta al di là del fiume), ma restando comunque in terra rodigina, gli agglomerati urbani si fanno più densi e cominciano a rifiorire zone artigianali e centri commerciali a ridosso dello svincolo autostradale di Occhiobello. Mi fermo nel parcheggio di un supermercato per mettere qualcosa fra i denti. In una panetteria lungo la strada mi sono fermato un paio di minuti fa per acquistare due ciabattine e una lattina di birra. Ora è il momento di assaporare due pezzi di stortina che ieri sera Andrea e Giulia mi hanno gentilmente regalato e offerto come pranzo per il viaggio verso il Polesine. La “Stortina Veronese” è un piccolo salame che si conserva sotto lardo in modo da mantenerla fresca. I ragazzi mi hanno spiegato che il nome deriva dalla forma leggermente ricurva che i salamini assumono appena insaccati. Ho tempo di un piccolo break, di sgranchirmi le gambe e di fumare una sigaretta. Poi mi rimetto in marcia. Alla prima grossa rotonda mi immetto sulla statale 16, la lunga direttrice “Adriatica” nord-sud, che accompagnerà il mio viaggio fino in Puglia. Dopo il ponte sul fiume Po entro in Emilia a nord di Ferrara.

    IV.

    Percorrendo la lunghissima Via Padova, che mi conduce lentamente verso Ferrara, mi fermo al primo bar-tabacchi che scorgo sulla mia destra. La Stortina era molto buona e deliziosa, ma mi ha messo un’insolita sete. Sorseggio prima una birra Peroni da 66 per rinfrescarmi e subito dopo un amaro per digerire il mio sostanzioso pasto e aprire la bocca a una nuova sigaretta che fumerò fra poco. Il bar-tabacchi è piccolo, stretto e allungato verso il fondo, con il bancone posto sul lato destro. Sono l’unico cliente e il gestore sta pazientemente pulendo e sfilettando un grosso pesce che molto probabilmente sarà il suo pranzo.
    Di nuovo a bordo della mia auto penetro nei quartieri nord di Ferrara, ma non attraverserò la città. Via Bacchelli costeggia le bellissime Mura medievali settentrionali e subito dopo la SP 2 mi dirige verso la campagna, in direzione est. Copparo segna l’inizio dell’area denominata “Grande Bonifica Ferrarese”, una piatta porzione di pianura caratterizzata da strade dritte e campi a perdita d’occhio senza incrociare alcuna costruzione. Una volta tutta la zona compresa fra il fiume Po e le cittadine di Copparo, Tresigallo e Codigoro era un’immensa distesa di paludi, laghi e zone umide. Solo verso la fine del XIX secolo l’allora Regno d’Italia iniziò una vasta opera di prosciugazione e bonifica con la costruzione di canali, corsi d’acqua, strade, fabbricati. Da queste parti si può incrociare solo il piccolissimo borgo di Jolanda di Savoia (il nome è un omaggio alla principessa primogenita del re Vittorio Emanuele III), che detiene il record di comune più “basso” d’Italia (la località Corte delle Magoghe si trova a 3,44 metri sotto il livello del mare).
    Percorro la SP 60 addentrandomi in questo territorio lunare e proteso all’infinito, ma pochi minuti dopo arrivo all’innesto con la statale “Romea”, la direttrice più importante (e più trafficata) di queste zone, che collega Mestre con Ravenna, attraversando luoghi veramente belli e affascinanti come la Laguna di Venezia, Chioggia, il Delta Padano e i Lidi di Comacchio. Mi dirigo verso Bosco Mesola, dove ho prenotato un alloggio per due notti all’Hotel La Fenice. Come si intuisce dal toponimo, il borgo sorge vicino all’omonimo bosco, una riserva naturale di oltre 800 ettari ricca di lecci, tamerici, pini, salici, pioppi e querce. Rinvio al prossimo inverno un’escursione in questa meravigliosa foresta che sorge sul Delta del Po “ferrarese”. D’estate, purtroppo, il caldo mi sfianca e dopo tre lunghi mesi a sopportare caldo atroce, afa, umidità, zanzare e quant’altro, in questo fine settimana ho voglia solo di mare.

    V.

    I due giorni sul Delta Padano trascorrono lenti e tranquilli. Nel pomeriggio di sabato mi reco alla “mia” spiaggia per eccellenza, quella del Lido Jamaica, che sorge in località Barricata, la punta sud-est dell’intero Delta. E’ un’isola dalla forma vagamente trapezoidale, che sorge fra gli ultimi tratti del ramo Po di Tolle e il mare aperto. Fino all’anno scorso c’era un vecchio ponte delle barche che collegava l’”isola” della Donzella con questa piccola striscia di terra. Da quest’anno mi accorgo che il vecchio pontile è stato sostituito da un più moderno ponte mobile, che si chiude e si apre a gomito per permettere il passaggio delle numerose barche che navigano in queste acque.
    Il “Jamaica” è posizionato in un punto strategico (alla punta meridionale dell’isola) e da come si può intuire dal nome è un lido molto alla mano, dove passare un pomeriggio di sole, mare e relax spaparanzato su un lettino in riva al mare costa solo 5 euro. L’acqua dell’Adriatico da queste parti ha un sapore salmastro, per via delle numerose confluenze dei bracci di Po, ma assicuro che l’acqua è limpida e trasparente, cosa molto rara in altri punti della riviera.
    Al tramonto, rientrando verso l’albergo, mi godo come sempre il passaggio lungo la Sacca degli Scardovari, che a quest’ora del giorno è sempre molto suggestiva. Le “sacche” sono dei golfi marini poco profondi di acqua salmastra e quella degli Scardovari è la più grande del Delta. Al suo interno si possono ammirare centinaia di trespoli, strutture di legno adibite alla coltivazione di cozze e vongole. Sulle sponde orientali della Sacca si possono notare, invece, le capanne dei pescatori, poste su palafitte che le sorreggono sui primi tratti di acqua. Lo scenario ad ogni mio passaggio è sempre bello ed emozionante.
    Tutta questa zona l’ho descritta minuziosamente nei miei precedenti viaggi on the road in Polesine e e nel romanzo “Io non viaggio in Autostrada”, per cui per maggiori dettagli vi rimando a quei riferimenti. Mi limiterò a concludere il racconto del sabato sera con una piacevole tappa a Lido delle Nazioni (una dei sette lidi ferraresi, appena più a sud del Delta), dove ho assistito a un concerto di strada di un gruppo cubano, che riproponeva in chiave “salsa” alcune dei pezzi classici della storia della musica. Il pomeriggio di domenica, invece, l’ho trascorso alla spiaggia delle conchiglie (sempre a Barricata, ma nella punta meridionale dell’isola della Donzella), dove ho conosciuto Antonio, un cinquantenne simpatico e molto pittoresco, che sembrava uscito direttamente dagli anni di piombo, con il quale ho scambiato diverse chiacchiere su politica, società moderna, storia e altro. Infine, una menzione speciale su quanto si mangia bene all’Hotel “La Fenice” di Bosco Mesola. Davvero un bell’alloggio, prezzi modici (25 euro a notte, io avevo una stanza con letto matrimoniale e bagno privato) e menù con piatti abbondanti a prezzo turistico a ogni pasto del giorno. Insomma, da queste parti non si trova nulla di tutto questo: pollice su! Domenica sera resto nella piccola frazione di Mesola a passeggiare fra i suoi pochi ma affollati locali. In ogni bar noto che molta gente è seduta a vedere la TV, dove trasmettono la partita fra Atalanta e SPAL. In un circolo ACLI, sulle pareti del locale, noto fotografie, sciarpa e maglia della squadra di calcio ferrarese. Mi accorgo che in questa terra di confine della provincia emiliana sono molto tifosi della SPAL, anche se, ahimè, perderà la partita d’esordio con i bergamaschi per tre a due.

    VI.

    Lunedì mattina si riparte per una tappa verso le Marche. Prima di raggiungere il centro Italia, ho un puntello a Comacchio con Alessia, una mia amica di Castelletto Po che sta trascorrendo, come ogni estate, le sue vacanze da queste parti. Sono lì in una mezz’oretta, percorrendo la statale Romea in direzione sud. Ritrovo nel parcheggio del supermercato che c’è di fronte ai Trepponti. Soliti convenevoli e conoscenza della sua amica mantovana di nome Cristina.
    Anche Comacchio l’ho già visitata parecchie volte in precedenti viaggi: è una bella cittadina solcata dai canali delle acque dei un ramo meridionale del Po di Volano, che le danno l’aspetto di una piccola Venezia situata sulla terra ferma. Il piatto tipico per eccellenza è l’anguilla. Il top è degustarla stando seduti sulle grosse chiatte ormeggiate su questi canaloni e adibite a verande esterne dei tanti ristoranti. Nei pressi del Ponte degli Sbirri, però, optiamo per uno snack altrettanto tipico e caratteristico, il panino con l’anguilla marinata, offerto dalla “Bottega di Comacchio”, piccolo negozio con possibilità di mangiare panini e piadine farciti con altre specialità della zona, tra cui pancetta e la salama. All’esterno, sotto il tendone addobbato con caratteristiche reti da pesca e seduti a un tavolino, gustiamo il tutto anche con un ottimo vino rosso della casa.
    La passeggiata riprende e in un alimentare posto in Galleria Fogli, facciamo la conoscenza del simpatico titolare Marco, che ci offre un assaggio della “Zia Ferrarese”, un salume tipico che ha questo strano e insolito nome. In realtà è un eccezionale prodotto di qualità, composto da carni scelte di suino amalgamate a vino bianco, sale, pepe e aglio, racchiuse nello spesso budello: «Al Ziec», come si dice in ferrarese, poi evoluto in «La Ziè», ed infine italianizzato in «La Zia». Il simpatico gestore, originario del parmense, ci racconta che “il panino con l’anguilla” è il classico cibo per turisti che i locali sdoganano ai passanti, abbindolandoli che sia la sciccheria del posto: in realtà, ci racconta Marco che i comacchiesi l’anguilla la mangiano in modi molto diversi e che solo pochi ristoranti della città la servono ai clienti secondo la vera e antica ricetta. Prometto di ripassare, di fare ampia spesa nella sua bottega di alimentari tipici; in cambio mi dirà in quali ristoranti di Comacchio sedermi per degustare la vera anguilla ferrarese.
    Poco dopo io e le ragazze ci salutiamo nel parcheggio dell’ IperCoop dove abbiamo lasciato le auto. Loro tornano verso le spiagge, mentre io mi proseguo il mio ancora lunghissimo viaggio verso sud. Recupero la SS “Romea” dove l’avevo lasciata, cioè nei pressi di Porto Garibaldi. L’ultimo dei sette lidi di Comacchio è quello di Spina, poi la SS 309 corre su uno stretto istmo di terra fra il mare e le grandi “Valli di Comacchio”, una vasta zona umida di acqua salmastra. Raggiungo Ravenna, circonvallata da veloci tangenziali che mi re-immettono sulla Statale 16, che sarà a doppia carreggiata o comunque a scorrimento veloce per molti chilometri. Cervia, Cesenatico, Bellaria: le note località balneari della Romagna vengono saltate vie in fretta. Così pure il primo tratto di Rimini, ma non quello dove hanno mantenuto una piccola serie di semafori sulla sua tangenziale a quattro corsie. Mi fermo come sempre al bar della stazione di servizio IP dopo lo scempio degli incroci semaforici in tangenziale. Di solito questa è una tappa per il rifornimento GPL, ma visto che sono obbligato ad avanzare a benzina, mi concedo solo una sosta per bere qualcosa e sfogliare qualche quotidiano locale all’interno del baretto. Pochi clienti, ma simpatici. Scambio due battute con uno di loro e con la bella ragazza che c’è dietro il bancone.
    Si riparte e ora inizia uno dei tratti più trafficati della statale Adriatica, cioè l’attraversamento urbano di grossi centri come Miramare, Riccione e Misano Adriatico. Sono tutti attaccati a Rimini e formano una specie di megalopoli balneare che con Cattolica è lunga più di 25 chilometri. Fortunatamente quest’ultima è dotata di una variante esterna che punta dritto alle pendici dei colli pesaresi. Il ponte sul fiume Tavollo segna il confine con le Marche.

    VII.

    La statale 16 passa alle spalle dei suddetti colli pesaresi che impediscono la vista del mare. C’è una strada alternativa che da Gabicce Mare (connessa a Cattolica) percorre tutti gli scollinamenti. Luca, un amico originario di questa zona, mi racconterà che ci solo alcune belle calette sul mare. Mi riprometto un giorno di percorrere la strada panoramica che collega Cattolica con Pesaro attraverso Gabicce Monte, ma per ora come al solito tiro dritto sulla mia “freeway” in direzione California, ancora molto lontana.
    In questo tratta la strada è caratterizzata da lievi pendenze e da tratti a tre corsie alternate, che permettono il sorpasso agevole in certi punti. Cartelli segnaletici indicano che sono già all’interno del territorio comunale di Pesaro. La “16” attraversa il capoluogo marchigiano da est a ovest, tagliando via però il centro storico con un cappello ad angolo retto, che poi proietta la strada fuori sulla riviera di ponente. Sono in viaggio da qualche ora, le più calde della giornata e facendo un rapido calcolo mentale di quanto manca alla mia tappa notturna, suppongo di avere una mezz’oretta buona per una sosta. Ne approfitto, così, per conoscere per la prima volta le rinomate spiagge di Pesaro Sottomonte. Situata sotto il colle Ardizio che si innalza a strapiombo subito dopo la sede ferroviaria e stradale (che corrono parallele), la litoranea meridionale è formata da belle spiaggette libera, dalle acque molto pulite e limpide. Una fila intermittente di scogli posti in acqua divide dal mare aperto. C’è ancora un po’ di gente, nonostante siano le sei di pomeriggio di un lunedì di fine agosto. Ne approfitto per un bagno rinfrescante e tonificante. Viaggiare sulle strade nazionali italiane è anche e soprattutto questo: è la libertà di fermarsi dove si vuole, appena si vede una spiaggia che piace, un posto che incuriosisce, un locale che attira più la mia attenzione di altri. Altroché pagare costosi pedaggi su quelle anonime autostrade caratterizzate solo da omologati autogrill tutti identici l’uno con l’altro.
    Certo, il tempo purtroppo non gioca un fattore amico. Sia ben chiaro, io me ne starei su questa spiaggetta fino a mezzanotte e viaggerei senza orari e all’infinito. Ma un orario purtroppo ce l’ho. Devo raggiungere la cittadina di Osimo entro e non oltre le otto e mezza. Dopo una veloce asciugata, mi rivesto e mi rimetto in marcia.
    Anche Fano è attraversata internamente, ma la “Adriatica” gira attorno alle bellissime Mura Medioevali, perfettamente ben conservate da Ponte Astalli fino al Bastione San Gallo, nei pressi della stazione ferroviaria. Molto bello da ammirare il Bastione dei Nuti (poco oltre a piedi si raggiunge l’Arco di Augusto) che delimita l’inizio del centro storico. Fano è una bella cittadina, l’ho visitata anni fa durante un on the road invernale verso la Puglia. La storica cittadina pre-romana è capolinea della statale 3 “Flaminia” (Roma-Terni-Foligno-Fano), che è l’erede della consiliare “Via Flaminia”, che una volta aveva diramazioni anche per Rimini e Ancona (oggi sovrapposte dalla SS Adriatica). Fano è famosa per il brodetto (una sorta di “cacciucco” all’adriatica, che da qui in giù, fino a Vasto, caratterizza la cucina di mare con piccole varianti di città in città); anche se io, in maniera un po’ sacrilega, ormai quando mi fermo faccio sosta alla kebapperia accanto alla stazione ferroviaria. Amo i kebappari accanto o di fronte alle stazioni ferroviarie. Avete mai fatto caso che in ogni città, nei pressi della stazione centrale, sorge sempre un locale che vende kebap? Chissà perché.
    Si corre in direzione sud-est lungo la 16, oltre il caratteristico ponte sul fiume Metauro, ornato dalle solite quattro grandi colonne di pietra che sorreggono bracieri di bronzo e statue aquile, ricordando la storica battaglia fra Romani e Cartaginesi del III secolo a.C.. Si scivola via alle spalle di centri balneari come Torrette di Fano, prima di attraversare il primo centro, che è Marotta, popolosa frazione di Mondolfo. Consiglio lungo la strada la “Pidineria Bibi”, tanto cara al mio amico violinista Diego, che me la fece conoscere durante un viaggio condiviso grazie a “bla bla car” di alcuni anni fa.
    Dopo il fiume Cesano inizia il territorio di Senigallia, da pochi anni tagliato fuori da una moderna variante che costeggiando un tratto di A14 permette di raggirare il centro e di sbucare fuori già nei pressi di Marzocca. Anche se è un po’ un peccato tagliare via la cittadina anconetana di quasi 50 mila abitanti, ricca di monumenti e di scorci che meritano una sosta, come la Rocca di Senigaliga, il Foro Annonario, la Nuova Piazza Garibaldi e il colorato lungofiume Misa. Dopo la già citata Marzocca, attraverso Montemarciano, da dove si intravedono già le gigantesche ciminiere della zona industriale di Falconara Marittima. La “nuova” 16 sterza veemente e punta nell’entroterra. La bella Ancona che sorge là ai piedi delle prime colline del Conero resta tagliata fuori. La veloce tangenziale a doppia carreggiata mi porta fino all’uscita per Osimo. Sono immerso in un paesaggio collinare che al tramonto sorprende ancora di più con i suoi caratteristici colori. Paesini immersi su questi poggi incantati, come Aspio e il successivo San Biagio. Ecco Osimo, cittadina di 35 mila abitanti distesa su un colle di 260 metri. Ci passerò la notte e scoprirò un’altra meraviglia attraversata dalle strade statali nazionali.

    VIII.

    Non ero mai stato ad Osimo prima di questa sera. Per me ha rappresentato per anni solo l’uscita autostradale (quando ci viaggiavo) di “Ancona Sud”, che aveva la doppia denominazione, e una stazione ferroviaria parecchio a est del capoluogo e immersa nella vallata dei centri commerciali fra le alture del Conero e i poggi appenninici. Sapevo poco e nulla su questa cittadina o forse avevo sentito qualcosa di particolare sulla sua storia, oppure no, forse è stata davvero una scommessa vinta passare una serata quassù. Cinta da potenti mura romane risalenti al II secolo a.C., Osimo era definita la “metropolis piceni”, la più importante città del Piceno, roccaforte imprendibile fin dai tempi più remoti. Oggi è sicuramente famosa per l’appellativo della “Città dei Senza Testa”. Rinchiuse nel Palazzo Comunale di Osimo ci sono dodici statue romane acefale ad altezza reale, che rappresentano personaggi romani in toga. Esse dovevano abbellire l’antico foro romano situato nell’odierna piazza Boccolino e sul perché siano rimaste tutte senza testa rimane un alone di mistero. Esistono svariate ipotesi, da quella in cui sembra siano state decapitate come sfregio a quella che semplicemente siano rimaste incompiute. Tanto è bastato comunque a dare il nomignolo agli osimani de “i senza testa”.
    Entrando in città dal lato nord-est ho la possibilità di attraversare il centro da est a ovest e di ammirare già le prime bellezze, come le sopracitate mura romane. La principale attrazione, però, dovrò saltarla per mancanza di tempo: sono le grotte del Cantinone, alle quali passo solo velocemente accanto. Circa 2.500 anni fa i popoli antichi cominciarono a scavare la collina in profondità per farvi camminamenti difensivi e passaggi segreti, per rifornirsi d’acqua e sopravvivere, così a oggi il sottosuolo di Osimo è percorso da una fitta rete di gallerie, cunicoli e ambienti sotterranei scavati a più livelli, spesso collegati tra loro verticalmente mediante pozzi o camini percorribili tramite tacche o pedarole. Dovrò rimandare a un futuro soggiorno questa perlustrazione che pare sia molto suggestiva e affascinante.
    Raggiungo l’affittacamere di Via Cialdini con una mezz’oretta di ritardo. Dopo aver appoggiato bagagli ed essermi rinfrescato di un’ottima doccia gelata, vado alla conquista del cuore vecchio della città. Via Cialdini permette una bella passeggiata direttamente verso il centro, costeggiando le mura occidentali. Via Leonetta segna la cima della salita e l’ingresso del “salotto” urbano osimano. Il corso principale è Via Rocca Antica, che collega dalla romano-gotica Concattedrale di San Leopardo (posta sulla sommità del colle Gòmero) a Piazza Comune. La strada diventa Corso Mazzini che continua il suo cammino ovest-est, dove si dirama in un reticolo di viette, nelle quali si possono ammirare i pezzi forti della città: Palazzo Comunale, la Basilica di San Giuseppe da Copertino (il patrono comunale), Palazzo Campana, Palazzo Gallo, Teatro La Nuova Fenice.
    Dopo un peregrinare assurdo fra vicoletti, Porte e scorci che meritano una sosta, trovo quasi per caso un locale molto caratteristico. Si chiama “I senza testa” (giusto per restare in tema) e offre ai tavoli esterni posti direttamente sul caratteristico vicolo accanto a Piazza Gallo un prodotto tipico centro-italico: la pinsa romana, una gustosa focaccia o schiacciatina, che viene preparata con farina di riso, frumento, soia e pasta madre; ha forma ovale ed è condita benissimo con ottimi ingredienti. Come beveraggio mi viene servita una bella rinfrescante caraffa da un litro di birra chiara alla spina. Meglio di così, non poteva andare.

    IX.

    Martedì mattina e colazione in un baretto in Largo Vittorio Veneto, una rotonda che segna l’inizio della strada “Chiaravallese”, che si inerpica verso i colli jesini. Io, invece, una volta abbandonato l’elegante “Casa di Lalla” mi dirigo a bordo della mia Matiz dall’altra parte, scendendo il colle di Osimo e andando a ribeccare la Statale 16 che passa dalle parti di Aspio Terme. Non mi dirigo a sud, ma risalgo l’Asse Nord-Sud, che collega lo svincolo di Via Flavia con il centro e successivamente con la stazione ferroviaria e il porto. Dall’altra parte, nella zona orientale della città, c’è il “Passetto”, una spiaggetta di scogli bianchi e insenature di acqua azzurrissima con stabilimenti e ristoranti costruiti a palafitta. In alto, che si affacciano direttamente sul mare con una vista mozzafiato, ci sono una verdeggiante pineta e il sontuoso “Monumento ai Caduti” (della Prima Guerra Mondiale). Quest’ultimo è un gigantesco tempio circolare con altissime colonne doriche che sorreggono il monoptero. Una grande e lunga scalinata bianca scende giù fino al mare. La spiaggia si può raggiungere anche grazie a un ascensore panoramico a pagamento, ma io preferisco assaporare ogni gradino di questa imponente opera d’arte.
    Non è un caso che mi sto dirigendo alle spiegge del “Passetto”. Infatti, ho un puntello ben preciso con alcuni amici: Mosè, l’amico veterinario di origini pugliesi che per primo mi fece scoprire e conoscere questa bella città dell’alto Adriatico (cfr. “Io non viaggio in Autostrada”, cap. I-14); sua sorella Ausilia (cfr. cap. I-15); e Alexandra, la mia amica pugliese che vive a Torino, e che mi ospita spesso nel suo appartamentino sito in zona Madama Cristina per week end a base di night-life torinesi e partite del Torino FC allo stadio Olimpico. Per svariati motivi sono un po’ di anni che non rivedo questi amici, per cui ho colto l’occasione del mio passaggio da queste parti per rivederci per una volta tutti insieme. C’è anche il piccolo Toto, figlio di Ausilia, che si divertirà non poco quando faremo il bagno al largo a raccontarmi storie spaventosissime sulle piccole medusine che galleggiano qua e là attorno a noi (praticamente ovunque).
    Dopo un pranzo leggero in un caratteristico risto-bar scavato nella roccia, ognuno prende le proprie strade. Saluto i miei amici e pure io riprendo il lungo viaggio verso sud. Da Ancona di solito percorro la statale Adriatica, che corre ad almeno 3-4 chilometri fuori città. Stavolta, invece, decido di percorrere la litoranea Ancona-Porto Recanati: è una strada provinciale che percorrere e scollina le alture del Conero, i rilievi appenninici della zona che raggiungono quasi i 600 metri di altezza. E’ il secondo promontorio per grandezza con rupi marittime a strapiombo sul mare Adriatico, dopo quello del Gargano in Puglia. Sono molte le località turistiche e balneari servite da questa caratteristica direttrice nord-sud: Spiaggia Mezzavalle, Portonovo, Spiaggia delle Due Sorelle, Spiaggia dei Sassi Neri. Sirolo e Numana sono gli unici due comuni attraversati dalla direttrice del Conero: la prima è posta su un colle di 125 metri, la seconda, invece, riabbraccia la pianura di Loreto e Recanati, anche se il piccolo centro (Numana Alta) è arroccato su una falesia di un centinaio metri a picco sul mare. Tappa alla “Spiaggiola”, ovvero la litoranea a nord del porticciolo, fatta di insenature e rocce, attraversando a piedi le scalinate e le viette della cittadina di neanche 4 mila abitanti. Bagno tonificante con Luca, l’amico pesarese già accennato, che si sta godendo un pomeriggio di relax. Ci intrufoliamo al bar del lido a bere due birre ghiacciate e a parlare di pallacanestro. Si unisce nei discorsi un ragazzone seduto vicino a noi: è di Cantù. Si parla di anni ’80-‘90, di basket di allora, di quando Pavia si chiamava Annabella, poi Fernet Branca e poi di quando venne un certo Oscar Schmidt, e tanto altro.
    Dopo i saluti e gli arrivederci, riprendo il cammino in auto e il paesaggio cambia notevolmente. Si apre la pianura civitanovese e le spiagge si fanno più grandi e gli stabilimenti balneari più frequenti. Il mare resta sempre di un colore azzurro molto accesso e di una trasparenza cristallina. Ultima tappa per salutare un amico, anch’esso in vacanza da queste parti, nella zona di Numana Blu, nei paraggi della foce del fiume Musone: Sam, collega dell’ospedale San Matteo. Giusto il tempo per un aperitivo al chiosco balneare e un fugace bagno per confermare che l’Adriatico a queste latitudini è di una qualità davvero notevole e inaspettata. Si chiacchiera subito di lavoro davanti a due spritz, ma poi si vira verso discorsi più distesi.
    E’ già scesa la sera e il traffico intenso all’innesto sulla SS 16 di Loreto mi fa perdere un po’ di tempo. Una volta ripresa la via si corre. Ecco Civitanova Marche, altra tappa notturna di questo lunghissimo viaggio verso la “California d’Italia”.

    X.

    Pernotto all’Hotel Brilli in una zona vicina al centro della cittadina maceratese. La struttura, strappata a un prezzo davvero irrisorio per la sua posizione e soprattutto per il comfort, si raggiunge rapidamente distaccandosi dalla traversa interna della SS 16 pochi chilometri dopo l’ingresso nel tessuto cittadino.
    Mi attirava alloggiare forse più a Civitanova Alta, la frazione che raccoglie il nucleo abitativo più antico sulla città e che poggia sulle colline del fiume Chienti; ma per una volta ho preferito buttarmi nella movida di una zona più turistico-balnerare. Tuttavia, a parte la trattoria “da Pamela” dove ho cenato davvero bene (e spendendo poco) a base di lasagne, frittura all’ascolana e olive ripiene, e qualche bar dove degustare un amaro per digerire, non ho trovato granché per passare il tempo in maniera divertente e frenetica, trascurando la puntatina veloce in una mansarda in cima a scale in un vecchio palazzo per conoscere una bella ragazza italo-marocchina… Ebbrezza fatua di pochi minuti, subito dopo di nuovo a bordo della mia Matiz girovagando per le strade tristemente vuote di Civitanova Marche. Tappa obbligata, allora, in un terzo bar, per degustare un ultimo amaro della buona notte.
    Mattina successiva ed esplorazione della litoranea nord, anche perché al Lido la Bussola (“il terz’ultimo della lunga sfilza”) ho un incontro veloce con Roberto, il collega scrittore con il quale stasera condividerò l’ultima serata del pre-festival letterario di Sant’Elpidio a Mare. Sono da queste parti anche e soprattutto per partecipare a questo incontro. E’ la quattordicesima tappa di una tournée di incontri e presentazioni che ho organizzato o a cui sono stato invitato da febbraio per promuovere il mio undicesimo libro pubblicato, che variando un po’ di genere rispetto ai precedenti di narrativa, è stato steso prendendo spunti proprio da viaggi on-the-road come questo che sto raccontando ora.
    Con Roberto ci siamo sentiti solo al telefono, già da qualche mese. Il Festival “Libri a 180 gradi” si doveva tenere già a maggio e noi eravamo in contatto già da allora. Poi per avverse condizioni climatiche è stato spostato a fine agosto, ma io e lui siamo stati inseriti in un “pre-festival” di alcune giornate sparse da luglio a fine agosto. Ho letto quindi il suo divertente e riflessivo “Io e Rocco”, un romanzo breve sulla vita di un ragazzo che combatte con una brutta malattia, ma nello stesso tempo grazie alla conoscenza di Rocco, che diventerà nel corso degli anni il suo migliore amico, anche se caratterialmente è il suo esatto opposto, troverà il coraggio di crescere e di affrontare la malattia e soprattutto la vita. Inutile aggiungere, che al di là della tematica profonda affrontata, il libro di Roberto è molto bello e io ne consiglio la lettura. Il suo modo di scrivere, tra l’altro, mi piace perché cinematografico, cosa che ricerco anche io nelle mie opere. La sua, in un’analisi più profonda, la vedrei molto bene trasportata su grande schermo diretta dalla mano elegante di un cineasta come Paolo Virzì, ma non lo scanzonato e quasi comico regista di “Ovosodo”, più il drammatico che cerca il senso della vita nel capolavoro de “Il capitale umano”, per intenderci. La nostra editrice, Ilaria di Albeggi Edizioni – che ho conosciuto e con la quale ho firmato il contratto un sabato mattina di fine viaggio dell’estate scorsa nella improbabile location di un bar della stazione degli autobus di Roma Tiburtina - mi aveva proposto una serata in comune con Roberto perché, nonostante i nostri due libri fossero nella sostanza molto diversi, secondo lei hanno in realtà in comune “la stessa profonda ironia nel saper affrontare le avversità della vita”. E devo dire che la valutazione ci azzecca molto.
    Con Roberto, seduti a un tavolino nei pressi del bar del lido, sorseggiamo due caffè e parliamo di questo e di molto altro. Abbiamo molto più in comune dell’ironia espressa nei nostri libri: anche lui lavora in un ospedale ed entrambi amiamo lo scrittore Tiziano Sclavi, che purtroppo dopo gli ultimi capolavori usciti a cavallo dei due secoli non ha più pubblicato nulla.
    La litoranea da queste parti è tipicamente adriatica: spiaggia bruna, fondali bassi e file di scogli che delimitano gli stabilimenti. Così Roberto mi consiglia di spostarmi a piedi di poche centinaia di metri e di raggiungere la spiaggia libera ancora più a nord, che a ridosso della massicciata della ferrovia assume dei contorti molto “catartici” a detta sua. In effetti il panorama cambia in maniera radicale dopo aver passato “la Lampara”, l’ultimo stabilimento balneare posto dove la strada asfaltata finisce contro una sbarra chiusa, che impedisce alle auto di andare oltre. Il catrame lascia il posto alla sabbia dura e una piccola insenatura si apre fra le rocce di un colore bianco molto dell’alta massicciata della ferrovia, mentre l’acqua del mare che assume tonalità più chiare e cristalline. Paradossalmente la zona, nonostante sia più bella, è meno affollata rispetto al bailame degli stabilimenti organizzati.
    Arriva pomeriggio e il sole inizia a picchiare forte sulla mia testa, ma soprattutto sulla mia pelle non adeguatamente protetta da creme solari (quest’anno sono già alla terza insolazione, nell’ordine: Sardegna a giugno, val Trebbia a luglio, mar Adriatico a fine agosto), così ne approfitto per raggiungere l’ultimo luogo che sarà tappa del mio viaggio sulla statale 16.
    Riattraverso la città di Civitanova da nord a sud, seguendo la SS “Adriatica”, che dopo il ponte sul fiume Chienti sbuca in provincia di Fermo. Avanzo pochi minuti, perché la mia destinazione è il “Residence Nazionale”, che sorge a ridosso della stazione di carburante IP, con annesso “Bar Fina” dove lavora Lorenzo, il giovane barista di cui ho avuto spesso modo di raccontare durante i miei viaggi. Lorenzo però non è di servizio (“Ci sarà domani tutto il giorno” mi dice una dipendente molto ma molto bella). Appuntamento rimandato a domattina, allora. Ne approfitto per farmi consigliare qualche spiaggia nei dintorni. La ragazza mi suggerisce “dove c’è la pineta”, la litoranea nord di Porto Sant’Elpidio, caratterizzata proprio da questo bosco di pini marittimi a ridosso della spiaggia di sassi che si tuffa in un mare verderame bello e pulito.
    Dopo una rinfrescante doccia nel lussuoso “Residence Nazionale” (per 30 euro ho strappato un appartamento con cucina-sala da pranzo, camera da letto con matrimoniale più letto singolo, bagno e balconata con vista sulle colline fermane), mi dirigo in auto verso Sant’Elpidio a Mare, cittadina a una decina di chilometri dalla litoranea posta sulle pendici degli appennini marchigiani. La “Strada Vecchia del Porto” che collega le due località è molto tortuosa, piena di salite e discese, ma sicuramente di giorno regala paesaggi molto più suggestivi rispetto alle prime tenebre della notte. Parco Bertolucci (dove terrò la presentazione del libro) è un grazioso giardino che sorge su un leggero declivio fra via Borgo (che è la prosecuzione della strada vecchia del Porto) e Viale Roma (una circonvallazione settentrionale del piccolo centro storico). Non molto lontano c’è la Porta di via Errighi, che subito dopo conduce con uno stretto vietto alla piccola Piazza Matteotti, dove sorge la Torre Gerosolimitana.(XVI secolo). Al mio arrivo al Parco Bertolucci ci sono solo dei bambini che giocano in un angolo dei giardini adibito a parco-giochi. Nell’area della presentazione ci sono tante sedie, secondo me troppo e penso che molte resteranno vuote. Invece, pian piano, la gente arriva e le sedie si riempiono tutte.
    Arriva anche Roberto con lo scatolone dei suoi libri “Io e Rocco”; quando ci sono tutti, anche gli organizzatori della serata, possiamo iniziare. Devo ammettere che io e Roberto formiamo una bella coppia molto anti-conformista: lui vestito con una elegante camicia azzurrina e pantaloni da sera; io con una T-shirt rossa, pantaloncini da viaggio coi tasconi laterali e in testa il mio inseparabile berretto con lo stemma della Birra McEvan’s. Il pubblico, però, sembra apprezzare questa inedita coppia e ascolta con piacere i nostri ironici botta e risposta. Roberto è molto simpatico, fa da vero mattatore della serata e trascina la presentazione in un grande successo. Siamo seduti su una panchina che volge verso il pubblico e la Livietta è seduta in bella mostra in mezzo a noi due. Roberto mi prende un po’, sul fatto che me ne vado in giro per l’Italia in compagnia di una cagnolina di peluche. Mi assicura che nell’ospedale dove lavora lui “c’è un ottimo reparto di psichiatria!”.
    Si ride tutti insieme. Però la Livietta riscuote sempre molto successo in queste presentazioni. Sarà la sua presenza, il suo faccino dolce ma eternamente malinconico, il suo aspetto morbidoso, ma le ragazze ne vanno matte.
    Io, ovviamente, mai che riesca ad approfittarne.
    Alla fine, anche a Sant’Elpidio a Mare i miei viaggi su statale alla riscoperta di un’Italia dimenticata riscuotono una sincera attenzione da parte di molte persone, che alla fine compreranno il libro, facendomi un sacco di domande; anche Roberto riscuoterà successo e venderà molte copie del suo romanzo. Ringrazio Isabella, una delle organizzatrici della serata (e del Festival librario “Libri a 180 gradi”) e soprattutto il numeroso pubblico:
    «E’ sempre bello presentare i miei romanzi davanti a pubblici numerosi –commento a fine serata- Ma farlo a Pavia o comunque sotto casa è sempre facile. Farlo a quattrocento e passa chilometri da casa, invece, è meraviglioso».
    Saluto Roberto e lo ringrazio per la bellissima serata. Ci lasciamo con la promessa di ripeterci un giorno di nuovo in una serata insieme.
    Passo il resto della serata alla ricerca a Porto Sant’Elpidio di un posto dove soffocare i crampi della fame. Mi salva il solito kepabbaro: zona Marina Faleriense, lungo la statale Adriatica, la stessa strada che domani mi porterà nella mia “California”.

    XI.

    Colazione al “Bar Fina” a metà mattinata del mio ultimo giorno di viaggio. C’è Lorenzo e come promesso gli ho portato una copia del mio romanzo “Io non viaggio in Autostrada”. Chiacchieriamo del più e del meno, di come è andata la presentazione ieri sera, dei tre giorni finali del festival letterario che partiranno sabato, ecc., il tutto mentre io mangiucchio qualcosa a uno dei tavolini e lui dietro il bancone serve clienti che vanno e che vengono.
    E’ tempo di ripartire, ma non sono di frettissima, così chiedo se c’è qualche posto bello in zona che merita l’ultimo bagno in queste Marche ricche di soddisfazioni. Lorenzo mi consiglia alcune località, fra le quali sceglierò Pedaso. Ci salutiamo, con la promessa di rivederci al ritorno, durante la risalita del viaggio al termine della vacanze (promessa che manterrò). A bordo della mia Matiz, in compagnia della piccola Livietta seduta al suo posto, sul sedile accanto al mio, riattraverso tutta Porto Sant’Elpidio e poi me la lascio alle mie spalle.
    Subito dopo il ponte sul fiume Tenna la prima località incontrata è Lido di Fermo. Poi, c’è il più grosso Porto San Giorgio. Infine, le ultime località della provincia: Marina di Altidona e Pedaso, e in quest’ultima mi fermo per una piccola sosta balneare. Le spiaggette sono piccole e sassose, incastrate in insenature di mare delimitate da piccole file di scogli. Si alterna spiaggia libera a lidi attrezzati. All’uscita del sottopasso pedonale della ferrovia (che costeggia la litoranea) c’è un piccolo omaggio a Giorgio Gaber: “Libertà e Partecipazione”. Appena sotto una targa omaggia il grande autore con la didascalia “il Poeta della Coerenza e dell’Utopia”.
    Il mare sfoggia un colore sempre bello e azzurognolo, però si avvicina di più al classico standard dell’Adriatico medio, piuttosto che alle tonalità cristalline trovate lungo la riviera dell’ormai distante Conero.
    Passano un paio d’ore e mi decido di rimettermi in marcia per cercare un locale dove pranzare. Un’osteria o una trattoria che offra un menù turistico a 10 euro sarebbe l’ideale. Il pezzo forte del viaggiare in strada statale è proprio questo: scoprire posti dove poter assaggiare la cucina tipica locale, spendendo una miseria. Trovo quello che cerco poco più a sud, esattamente a Cupra Marittima, uno dei primi comuni del territorio di Ascoli Piceno. Proprio posto lungo la Via Adriatica attira la mia attenzione il “Ristorante Tre Ulivi”: un elegante giardinetto adornato da ulivi mediterranei, la possibilità di pranzare fuori, seduto a un tavolino, sotto gli alberi, restando a due passi dalla strada statale. Un piattone di tagliatelle al ragù, un piatto di salsiccia con verdure, un quartino di vino e un caffè: il tutto alla miseria di un deca.
    «I miei "autogrill" lungo la Statale 16 per la California sono differenti» scrivo in diretta sul mio diario FB, con tanto allegato di bella foto sul primo piatto, la brocchetta di vino, i tavolini sparsi sotto gli uliveti e la mia auto posteggiata sulla strada statale, per prendere un po’ in giro quelli che viaggiano in autostrada e quando arrivano affamati in uno dei tanti autogrill, con quello che spendo io possono giusto permettersi un panino “icaro” e una bottiglia d’acqua.
    Il viaggio riprende lungo la SS e a stomaco pieno è ancora più piacevole. Dopo aver abbandonato Cupra Marittima mi imbatto nel lungo e compatto agglomerato urbano di tre grosse località attaccate fra loro: Grottamare, San Benedetto del Tronto e Porto d’Ascoli (l’ultima in realtà è un sobborgo della seconda). Il percorso non è per nulla noioso, tuttavia, in questa zona delle Marche del sud. Di Grottamare, per esempio, si può ammirare il medievale borgo antico che sorge su un’altura che domina la zona circostante e che sicuramente offre una bellissima vista sul mare. Proseguendo ed entrando nel comune di San Benedetto, la Statale permette di ammirare il “Paese Alto”, che si innalza sulla destra, dove spicca la caratteristica millecinquecentesca Torre dei Gualtieri; mentre sulla sinistra si passa proprio accanto alla milleseicentesca Cattedrale di Santa Maria della Marina, un interessante gioiello architettonico con annessa piazzetta lastricata di marmo e fontana in centro. Dopo l’attraversamento del torrente Albula, si prosegue fra palazzi più moderni, fino a una breve radura dove si ammira il gigantesco e possente Stadio Riviera delle Palme. In cima alla curva nord, si nota fin da lontano l’enorme pannello rossoblù con la scritta sovrimpressa “Tempio del Tifo”. Ho già avuto modo di scrivere più volte che il tifo sambenedettese, nonostante le infime e immeritate categoria dove gioca la squadra di calcio, è uno dei più caldi della zona (e non solo). Faccio sempre una deviazione dalla Statale 16 (che corre leggermente in alto, lungo le pendici dei colli del Tronto) per scendere nel piazzale davanti all’ingresso dello stadio. Parcheggio, esco dall’auto, faccio due passi, mi fumo una sigaretta e scatto l’usuale “selfie” davanti a questa struttura, che non sarà “sacra” come i luoghi di fede o di arte descritti prima, ma che sicuramente ha una valenza emotiva e turistica molto forte, sia per gli appassionati di calcio, ultras e trasferte come me, sia per i neofiti che non resteranno indifferenti.
    Alla rotonda per abbandonare la SS 16 e dirigersi verso lo stadio c’è un grossolano errore di indicazione stradale. Secondo i cartelli per Pescara bisogna preoseguire dritto, mentre per Ascoli Piceno bisogna svoltare e imboccare la superstrada a doppia carreggiata. Proseguendo per Pescara, in realtà, si passa in mezzo alla zona commerciale di Porto d’Ascoli; imboccando la superstrada, invece, oltre a by-passare il traffico del sobborgo sanbenedettese, si può recuperare la SS 16 nei pressi del ponte sul fiume Tronto, che segna il confine regionale con l’Abruzzo, facendo molto prima.

    XII.

    Grottamare, San Benedetto e Porto d’Ascoli formano un unico agglomerato urbano di oltre 60 mila abitanti. Se ci aggiungiamo la teramana Martinsicuro, che sorge subito dopo il fiume Tronto, si arriva a sfiorare le 80 mila unità di un gigantesco continuum abitativo lungo tredici chilometri e mezzo. E non è niente rispetto all’ancora più grande hinterland di Pescara che inizierà fra poco.
    La successiva Alba Adriatica è tagliata fuori dal percorso esterno della SS 16, ma non Tortoreto Lido, attraversata pazientemente. Da queste parti l’attraversamento più lungo è Giulianova, cittadina di 23 mila abitanti, con due bei lungomari (Zara e Spalato) e spiagge lunghe e sabbiose che iniziano a ricordare molto quelle pugliesi del Golfo di Manfredonia. Si viaggia bene per un po’ di chilometri, passando indenni la piccola Cologna Spiaggia.
    Roseto degli Abruzzi è un altro attraversamento lento e fastidioso, forse ancora di più della cittadina giulianovese. All’ingresso nord della città, nei pressi della rotonda del Residence Meridiana, sulla sinistra c’è un campo di grano, dove nelle stagioni estive post-raccolto si possono ammirare curiose e caratteristiche “statue” realizzate con balle di fieno. Messe in un certo modo, addobbate con giganteschi vestiti e con l’aggiunta di decorazioni in cartapesta e stracci che raffigurano occhi, bocche e capelli, le balle di fieno disposte nella direzione della strada statale sembrano una famigliola contadina allegra e sorridente, formata da padre, madre e tre bambini. Di Roseto non c’è molto altro di più bello da raccontare. Ma forse nel mio giudizio sarò ancora prevenuto dal ricordo di una trasferta di basket di tanti anni fa, quando molto antisportivi tifosi locali (per non scrivere di peggio…) ci accolsero a bottigliate all’ingresso del palasport e durante la partita, a nostra insaputa, ci distrussero il pulmino con il quale c’eravamo sobbarcati il lungo viaggio da Pavia… E chiudo qua eventuali immaginabili commenti, anche se a ogni mio passaggio ormai gli apprezzamenti, poco cordiali, vanno inevitabilmente verso le madri degli abitanti di questa ridente cittadina balneare. Roseto, comunque, si può by-passare (consiglio vivamente, perché la lunga Via Nazionale è sempre intasata di traffico) percorrendo una piacevole via panoramica che si arrampica sui poggi di Piana degli Ulivi e che, dopo aver raggiunto la frazione di Sant’Anna in cima a una collinetta, riscende verso la statale Adriatica già nei pressi del ponte sul fiume Vomano.
    Nella piana pescarese si attraversano piccole località come Scerne e Villa Fumosa, prima di incontrarne una più grossa, Pineto degli Abruzzi, tagliata via però da una circonvallazione esterna. Ecco Foggetta, il cui toponimo sembra ricordare che la “California d’Italia” si sta avvicinando chilometro dopo chilometro. Torre del Cerrano, posta sulla sinistra, è costruzione costiera cinquecentesca immersa in un’area marina protetta. Infine, Silvi, ultimo comune del teramano, caratteristico per un gigantesco arco in ferro che sovrasta la sede statale con la scritta “Benvenuti a Silvi” e la pubblicità del centro commerciale “Universo”.
    Montesilvano con Pescara e la successiva (e chietina) Francavilla al Mare formano un unico agglomerato urbano di duecentomila abitanti. Non sono mai riuscito ad attraversare indenne lungo l’asse della Via Nazionale Adriatica questo bordello di traffico, incolonnamenti, semafori e quant’altro. Pescara l’ho visitata durante una discesa in Puglia viaggiando solo su treni regionali, facendo uno scalo lungo di qualche ora in attesa del treno regionale per Termoli. A essere sincero non c’è molto da vedere, poiché la città ha subito pesanti bombardamenti durante la guerra mondiale e tutto quello che di bello poteva esserci è andato distrutto. Le principali attrazioni sono il moderno Ponte sul Mare (un viadotto ciclopedonale che unisce le due sponde del fiume “Pescara” nei pressi del Porto Canale), la Statua dell’Elefante e il modernissimo centro cittadino che si snoda di negozi e di locali lungo Corso Umberto I. Perfino la stazione ferroviaria è moderna, ricostruita nel 1988 leggermente in rialzo rispetto al vecchio tracciato. Anticipato questo, Pescara è sempre meglio bypassarla grazie alla comoda e velocissima tangenziale a doppia carreggiata, che compiendo un percorso esterno simile a quello della A14, conduce in pochi minuti parecchio a sud. L’imbocco della variante è però immerso nel tessuto urbano e caotico del capoluogo. Tuttavia, si può andare a prendere un raccordo, che parte da una rotonda di Via Vestina in Montesilvano e che in un baleno, attraverso gallerie e rettilinei catapulta a tutta velocità oltre Francavilla al Mare, già in provincia di Chieti.

    XIII.

    Dopo Pescara il traffico si ammorbidisce sempre. Larghi tratti stradali si alternano a tornanti nella zona delle colline fra Ortona e Marina di San Vito. I trabucchi, antiche macchine da pesca,oggi molti riqualificati in ristoranti, caratterizzano questa parte di costa adriatica. Più che racconti ora ci sono un sacco di ricordi nella mia testa di vecchi viaggi on-the-road, dove ho avuto la fortuna di conoscere questa parte di Italia. L’aperitivo sul trabucco al pontile di San Vito, la zuppa brodetto assaporata a Marina di Vasto una notte di gennaio, i dedali della città di Vasto Alta un’altra notte di fine agosto, la ricerca avventurosa dei famosi chilometri mancanti nel chilometraggio della SS 16 risalendo la valle del fiume Sinello, la casuale scoperta del “Promontorio Dannunziano” tanto caro al poeta del XX secolo, passeggiare per il centro storico di Termoli in una cittadella antica che si protrae sul mare, ecc..
    E quando finirò di esplorare tutto ciò che posso esplorare, cosa accadrà? Cosa succederà?
    Niente, nessuna risposta. Neppure dalla Livietta seduta sul sedile accanto a me. Di solito quando domande esistenziali come queste mi attraversano la testa, volgo lo sguardo verso quell’apparente inanimata cagnolina di peluche che con me ha condiviso tanti di quei viaggi e di quelle disavventure su e giù per l’Italia, che un solo romanzo pubblicato non rende assolutamente giustizia. Ma stavolta neanche la Livietta sa dirmi alcunché.
    «Ti prenderemo, Paul! Ti prenderemo! Lei non tornerà mai più per salvarti! Lei non tornerà mai più!...» ecco, invece, le terrificanti voci che rimbombano nella mia testa come sentenze di tragici verdetti già ascoltati.
    Daniela.
    Il suo ricordo. Che viaggia di pari passo al suo rimpianto. Chilometro dopo chilometro.
    L’amico Oste, che non c’è più. Perché questo viaggio, seppur bello, forse fra i più belli dell’Adriatic Road, prima o poi finirà e mi riporterà al punto di partenza. Ad affrontare vuoti che ho solo messo in un angolino.
    Gli anni che passano, le persone che se ne vanno, e che nessuno riesce a riportare indietro.
    Osservo il curioso medaglione giallo che penzola dallo specchietto retrovisore e che mi regalò Daniela l’ultima volta che la vidi.
    “Sorridi! Ti Vorrò Sempre Bene!” sta scritto da qualche parte.
    In questo viaggio è arrivato il momento di fare un’ultima tappa e di buttarmi a mare per un bel po’ di minuti, anche se il tempo non è dei migliori. Scelgo Fossacesia, quando il sole sta calando e nuvole di pioggia stanno coprendo il cielo. Spiaggia ghiaiosa e acqua pulita e trasparente. La pioggerella battente, segnale che le ormai le lunghe notti afose sono ormai alle spalle e anche se l’estate sopravviverà ancora per un bel po’, tutto attorno c’è il segno inequivocabile che un’altra stagione e un’altra annata di viaggi, di racconti, di esperienze, e di conoscenze stanno volgendo al termine.
    Guardo in direzione sud, lungo la costa che apre scende fino ai monti del Gargano…
    E’ il crepuscolo quando dopo San Salvo Marina varco il confine con il Molise, terra “cuscinetto” che separa l’Italia dalla mia “California”. Ci vuole un soffio ad attraversarla, proprio perché Termoli, l’unico vero centro grande della zona, non è attraversato internamente, ma bypassato dalla veloce tangenziale 709. Poi di nuovo la “16”, che lambisce Campomarino e corre sulla variante a carreggiata unica, ma veloce quanto una superstrada, progettata in alternativa al tracciato originale che puntava invece in direzione di Serracapriola e San Paolo di Civitate nell’entroterra.
    Quando arrivo al confine molisano / pugliese, sul ponte del torrente Saccione, e mi fermo per la rituale foto, è davvero buio pesto. Il chilometraggio della SS Adriatica (che inizia a Padova, precisamente nel centro storico all’incrocio di “Canton del Gallo”) segna 607 km. Io ne ho percorsi molti di più, perché ho iniziato dall’Oltrepò Pavese a percorrere la Statale 10 “Padana Inferiore” fino in Veneto, poi con diramazioni secondarie ho raggiunto la “16” in provincia di Rovigo e da lì l’ho costeggiata tutta fino in Puglia, attraversando mezza Italia, impiegandoci sette giorni, fermandomi in diversi posti, incontrando vecchi amici, conoscendone nuovi.
    Pensare che da qui dove sono io in questo preciso istante, che è il punto più a nord della SS 16 pugliese, fino al faro di Santa Maria di Leuca ci sono ancora 430 e passa chilometri. Praticamente un nuovo viaggio. Perciò adesso io potrei essere, non alla fine di un racconto, ma all’inizio di uno nuovo…
    Eh sì, è proprio così, perché fra qualche giorno in una ridente cittadina pugliese sulle rive dell’Ofanto mi raggiungeranno l’amico di scorribande vacanziere Big Peter, con la nostra comune amica Marilù. E una notte fonda, scendendo dal piccolo borgo incantato di Rignano Garganico, lassù racchiuso fra i monti del Gargano come un borgo delle fiabe, noi tre a bordo della mia Matiz, anziché rincasare dopo un’allegra notte di scorribande al bar di Juan U’Bankettid, imboccheremo la “16”, ma decideremo pazzamente di tirare dritto e di puntare verso il Salento, e proseguiremo verso Santa Maria di Leuca.
    “Per vedere l’alba, per vedere dove i due mari si incrociano, per vedere l’Est Europa al di là dell’orizzonte”.
    E faremo davvero così.
    Viaggeremo tutta una notte, sfidando le mucche in mezzo alla strada sui tornanti del Gargano, le poche stazioni di servizio aperte dalle parti di Bari Nord, il sonno e la stanchezza che cominceranno a farsi sentire fra Brindisi e Lecce… ma alla fine la voglia di avventura e la genuina scelleratezza, che ancora (e fortunatamente) pervade i nostri corpi quarantenni mai sazi di quest’adolescenza infinita, ci porteranno davvero fino al promontorio dove c’è il Faro di Santa Maria di Leuca. E una volta lì come se fosse la prima volta nelle nostre vite, ce ne resteremo ad ammirare il sole e le nuvole sopra quel mare blu che separa l’Italia da tutto il resto del mondo.
    Ma come si suol giustamente dire in questi casi: tutto ciò e un’altra storia... ;-)

    Edited by Liutprando - 8/11/2020, 17:05
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    Edited by Liutprando - 8/11/2020, 17:14
51 replies since 6/9/2013
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